Maggio Giugno 2019 - Nefrologia e social networks

Medicina, nefrologia e social networks

1) Diabete insipido da resistenza tubulare all’ormone antidiuretico: può il fluconazolo rappresentare un utile ausilio terapeutico?

V. Montinaro

La regolazione del riassorbimento di acqua a livello del dotto collettore (DC) avviene per azione specifica dell’ormone antidiuretico-vasopressina (AVP), prodotto dalla neuroipofisi, che si lega a un recettore specifico presente sulle cellule principali del DC (VR2). L’azione dell’AVP consiste nel mobilizzare le molecole di acquaporina-2 (AQP-2), normalmente contenute nelle microvescicole delle cellule del DC, che possono così raggiungere la membrana plasmatica. In questa sede, le molecole di AQP-2 formano dei canali permeabili all’acqua, che può così essere riassorbita, richiamata dal gradiente osmotico provocato dal meccanismo di controcorrente nell’ansa di Henle. Il difetto della produzione o dell’azione dell’AVP, in quest’ultimo caso per mutazioni del VR2 o dell’AQP-2, sono alla base rispettivamente del diabete insipido centrale e nefrogenico (DIN). Mentre il primo può essere curato con la somministrazione di analoghi dell’AVP (ddAVP), per il secondo non esistono cure efficaci e i pazienti affetti sono condannati a una malattia disabilitante, caratterizzata da una poliuria massiva (fino a 12-14 lt al giorno). Altra condizione patologica comune di DIN è rappresentata dall’assunzione per tempo prolungato di farmaci a base di sali di litio, usati per i disturbi bipolari, che determinano un ostacolo alla traslocazione della AQP-2 indotta dall’AVP. Meccanismi intermedi sono rappresentati dalla fosforilazione di una piccola GTPasi RhoA, che normalmente mantiene molecole di F-actina in uno stato di polimerizzazione, creando una barriera fisica alla migrazione di AQP-2 verso la membrana. AVP fosforilando RhoA, provoca la distruzione della barriera fisica di F-actina.

In un lavoro recente sul Journal of the American Society of Nephrology, Tanja Vukićević, del gruppo di Enno Klussmann, e altri autori di varie Istituzioni Berlinesi hanno cercato possibili candidati molecolari che possano mimare l’azione dell’AVP sull’AQP-2. Gli Autori hanno effettuato uno screening di 17.700 molecole di piccole dimensioni, rispetto alla loro capacità di mobilizzare AQP-2 in un sistema cellulare. Il fluconazolo, comune antifungino, è risultato capace di provocare tale mobilizzazione. Gli esperimenti sono stati condotti sia in vitro che in vivo.

In vitro, utilizzando cellule di DC della midollare interna di ratto, si è evidenziato che, a partire dallo stato di riposo in cui AQP-2 è localizzata in sede perinucleare nelle microvescicole, si osserva una redistribuzione di AQP-2 verso la membrana plasmatica dopo lo stimolo con fluconazolo; ciò è simile a quanto provocato da AVP o forskolina, un fattore stimolante l’adenil-ciclasi. L’effetto del fluconazolo non era sinergico con AVP.

Gli studi in vivo in topi trattati con una dose di fluconazolo capace di determinare livelli plasmatici simili a quelli ottenuti nella terapia delle infezioni fungine dell’uomo (15-50 µMcon dosi di 200-400 mg/die, si osservava l’accumulo dell’AQP-2 vicino alla membrana plasmatica delle cellule del DC, similmente a quanto si realizza nel topo in una condizione di deprivazione di acqua e aumentati livelli circolanti di AVP. Inoltre, la somministrazione di fluconazolo induceva un aumento dell’osmolarità urinaria nei topi che avevano libero accesso all’acqua rispetto al gruppo di controllo.

Gli autori hanno dimostrato che a livello molecolare l’effetto del fluconazolo è simile a quello della forskolina che, attraverso la attivazione di una protein chinasi A (PKA), provoca l’aumento dell’abbondanza molecolare di AQP-2, modulando la ubiquitinizzazione della molecola e non agendo con fenomeni di fosforilazione della tirosina in posizione S256 e S269, che sono invece alla base del meccanismo molecolare di azione dell’AVP. È stato anche dimostrato un meccanismo di inibizione di RhoA da parte di fluconazolo e la conseguente distruzione della barriera di F-actina. Per dimostrare ulteriormente che il meccanismo di azione del fluconazolo è molecolarmente diverso dall’attivazione dei recettori VR2, gli autori hanno pretrattato i topi con fluconazolo o fisiologica, quindi hanno somministrato a questi animali il tolvaptan, un farmaco che agisce come antagonista dei recettori VR2, utilizzato nel trattamento delle sindromi da inappropriata secrezione di ADH e, più recentemente, nel trattamento del rene policistico. I topi che ricevevano fisiologica, dopo la somministrazione di tolvaptan presentavano un aumento della diuresi e una riduzione dell’osmolarità urinaria (in maniera simile a una condizione di DIN), mentre i topi pretrattati con fluconazolo, dopo la somministrazione di tolvaptan, presentavano un aumento della diuresi e una riduzione dell’osmolarità urinaria molto meno marcate, a dimostrazione che l’effetto del fluconazolo è indipendente dalla via mediata da AVP-VR2 nella mobilizzazione di AQP-2.

In base a questi dati, quindi, gli autori suggeriscono che il fluconazolo può rappresentare una possibile soluzione per il trattamento delle forme di DIN, per le quali oggi non abbiamo alcuna possibilità terapeutica. Inoltre, essi suggeriscono che, partendo dalla struttura del fluconazolo, si può pensare di disegnare nuove molecole anche più efficaci, capaci di targettizzare l’AQP-2 verso la membrana plasmatica delle cellule principali del DC con un meccanismo indipendente da AVP.

 

Approfondimento: Articolo originale su Journal of the American Society of Nephrology:
https://doi.org/10.1681/ASN.2018060668

Impatto sulla Web Community:
https://asnjournals.altmetric.com/details/59068522

 

2) Il contributo della funzione renale residua “clinicamente trascurabile” sulla clearance dei soluti uremici

G. D’Ettorre

 Le linee guida K–DOQI raccomandano di prendere in considerare la funzione renale residua (FRR) nel calcolo della dose dialitica. La FRR, infatti, contribuisce alla regolazione degli elettroliti e del volume plasmatico, alla produzione di eritropoietina e alla clearance dei soluti ed è stata messa in relazione con la sopravvivenza dei pazienti in dialisi. La clearance dei soluti è di particolare importanza perché i reni nativi hanno una capacità di gran lunga superiore ai dializzatori nel rimuovere le molecole uremiche.

Lo studio di Stephanie M Toth-Manikowski e dei colleghi dell’Università dell’Illinois, pubblicato su Nephrology Dialysis and Transplantation, si è proposto proprio di valutare il contributo della FRR, considerata spesso “trascurabile” nella pratica clinica, nella clearance di otto soluti. Da sottolineare che la FRR è variamente definita negli studi, considerando di volta in volta o il volume urinario o la clearance dell’urea o la velocità di filtrazione glomerulare.

Gli autori si sono basati sui dati dello studio HEMO, uno studio nazionale, multicentrico, randomizzato e controllato che ha confrontato gli effetti di un protocollo dialitico intensivo (spKt/v urea 1,65) rispetto a uno standard (spKt/v urea 1,25). Esso presentava tra i criteri di esclusione una clearance dell’urea residua >1,5 ml/min/ 35 L di volume di distribuzione dell’urea, considerata come FRR trascurabile nella clinica.

Nello studio della Toth-Manikowski sono stati inclusi 1280 soggetti di cui era disponibile un campione plasmatico prima dell’inizio dello studio HEMO (Daugirdas JT, Depner TA, NDT 2018) e sono stati messi a confronto i pazienti con FRR, definita come output urinario ≥250 ml/giorno, con i pazienti che non l’avevano [n. 433 (34 %) vs n. 847 (66%)]. I primi risultavano essere più anziani (59 contro 57 anni, P = 0,007), erano in dialisi da un tempo inferiore (1,8 contro 4,3 anni, P <0,001), avevano bisogno di tassi minori di ultrafiltrazione (volume relativo rimosso 3,8% vs 4,1%, P <0,001) e avevano livelli di β2 microglobulina significativamente più bassi. Tra gli 8 soluti testati (p–cresolo solfato, indoxil solfato, ippurato, fenilacetilglutammina, trimetilammina ossido, dimetilarginina asimmetrica e simmetrica e metilguanidina), 7 presentavano livelli più bassi nei pazienti con FRR e, tra questi, i pazienti con FRR più bassa presentavano concentrazioni più alte. Inoltre, considerando la FRR al basale e a un anno, si è visto che i pazienti che mantenevano una FRR avevano una più bassa mortalità per tutte le cause, compresi mortalità cardiovascolare e eventi cardiovascolari (trend in riduzione, P non statisticamente significativo).

Questo studio evidenzia come la FRR sia espressione di una clearance dei soluti, sia attraverso la filtrazione glomerulare che la secrezione tubulare, che non può essere sostituita dal trattamento dialitico. E proprio l’impossibilità di allontanare questi soluti con la dialisi potrebbe contribuire all’aumento della mortalità dei pazienti in dialisi e al miglior outcome che hanno i pazienti in dialisi con FRR.

Diversamente dagli altri soluti, il p-cresolo solfato presentava livelli più alti nei soggetti con FRR; sebbene la motivazione sia ancora da definire, un ruolo potrebbe averlo il microbiota intestinale che si è dimostrato essere alterato nei pazienti con insufficienza renale cronica fino all’ESRD e che determina l’aumento di alcune sostanze, tra cui il p-cresolo solfato, mediante meccanismi di aumentata produzione e accumulo a livello intestinale.

Questo studio apre quindi le porte a una visione diversa per i pazienti in dialisi, per cui l’obiettivo non deve essere solo il raggiungimento di un’adeguata efficienza dialitica ma anche la preservazione della FRR (con effetti sulla sopravvivenza); similmente, nel caso dei pazienti con ESRD (i pazienti incidenti alla dialisi), sarebbe opportuno un approccio individualizzato e un più ampio impiego dell’approccio incrementale allo scopo di preservare FRR, che si è dimostrata, in definitiva, “NON clinicamente trascurabile”.

 

Approfondimento: Articolo originale su Nephrology Dialysis Transplantation:
https://doi.org/10.1093/ndt/gfz042

Impatto sulla Web Community:
https://oxfordjournals.altmetric.com/details/57215517

 

3) Canagliflozin, inibitore di SGLT-2, non solo antidiabetico, ma anche arma promettente per contrastare la nefropatia diabetica

M. Taurisano

 La nefropatia diabetica rappresenta una delle principali cause di insufficienza renale cronica terminale. Le strategie terapeutiche attualmente impiegate per ridurne la progressione sono rappresentate da uno stretto controllo glicemico e dall’impiego di farmaci che agiscono attraverso il blocco del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS).

Recentemente, ad arricchire il potenziale armamentario farmacologico dei farmaci antidiabetici, si sono affacciati sulla scena gli inibitori del Sodium GLucose Transporter 2 (SGLT-2). Questo co-trasportatore agisce a livello renale, nel tubulo contorto prossimale, riassorbendo glucosio in co-trasporto con il sodio. Inizialmente questa categoria farmacologica nasceva come farmaco glicosurico ed ipoglicemizzante per il controllo della malattia diabetica.

Studi successivi hanno dimostrato che questa classe di farmaci è anche in grado di esercitare un effetto nefro- e cardio-protettivo, indipendentemente dalla riduzione dei livelli glicemici.

L’effetto nefroprotettivo è determinato da un meccanismo di feedback negativo: l’incremento del carico di sodio in arrivo alla macula densa (secondario all’inibizione del riassorbimento di glucosio e sodio nel tubulo prossimale) causa una ridotta attivazione del RAAS, principale elemento di progressione del danno renale in quanto è alla base dell’iperfiltrazione glomerulare.

L’effetto glicosurico inoltre esercita un potere osmotico sulle urine nel tubulo determinando un aumentata perdita di acqua libera con effetto diuretico. Questo comporta una riduzione del volume effettivo circolante con miglioramento dell’emodinamica cardiaca.

Grazie all’accumularsi di queste evidenze, si è voluto esplorare in modo sistematico i reali benefici degli inibitori di SGLT-2 sulla progressione della nefropatia diabetica.

Recentemente sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati di un trial clinico randomizzato controllato sull’effetto del Canagliflozin versus placebo nella progressione della nefropatia diabetica (The Canagliflozin and Renal Endpoints in Diabetes with Established Nephropathy Clinical Evaluation: CREDENCE study; Trial n. NCT02065791).

Per tale studio sono stati arruolati 4401 pazienti con diabete mellito di tipo 2 e malattia renale cronica (eGFR compreso tra 30 e 90 ml/min/1,73 m2), albuminurica (Albumin to Creatinine Ratio ACR compreso tra 300 e 5000 mg/g), randomizzati in due gruppi a ricevere Canagliflozin, 100 mg al giorno, o placebo, dopo aver avviato stabilmente terapia di blocco del RAAS.

I due gruppi di studio sono stati seguiti per un follow-up mediano di 2,62 anni. L’outcome composito primario comprendeva il raggiungimento di ESRD (trapianto o dialisi per almeno 30 giorni o eGFR <15 ml/min/1,73 m2 sostenuto per almeno 30 giorni), o il raddoppio del valore di creatininemia basale, o la morte per cause renali o cardiovascolari.

In merito all’outcome composito primario i risultati ottenuti hanno mostrato una frequenza di 43,2 eventi per 1000 nel gruppo di trattamento rispetto a 60,1 eventi per 1000 nel gruppo placebo, con un rischio relativo più basso del 30% (HR 0,70, IC 95% 0,59-0,82, p=0,00001).

Sono stati inoltre valutati outcome intermedi come il valore di emoglobina glicata, il valore dell’ACR e la velocità di riduzione dell’eGFR, risultati tutti significativamente minori nel gruppo di trattamento rispetto al gruppo placebo.

Tali risultati mostrano come questa categoria farmacologica possa concretamente determinare un rallentamento della progressione della malattia renale cronica, rappresentando una valida possibilità per questa categoria di pazienti, vista l’elevata incidenza di malattia renale terminale in pazienti con nefropatia diabetica.

 

Approfondimento: Articolo originale su New England Journal of Medicine:
https://doi.org/10.1056/NEJMoa1811744

 

4) L’IgA prediction tool: uno strumento per valutare il rischio di progressione nella glomerulonefrite cronica a depositi mesangiali di IgA

A. Montinaro

Sebbene la glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA (IgAN) sia la patologia glomerulare primitiva più frequente a livello mondiale, è ancora oggi difficile valutare la prognosi della stessa nel medio-lungo termine al momento della diagnosi. La patologia risulta estremamente eterogenea per quanto riguarda il rischio di progressione verso l’insufficienza renale cronica o l’ESRD, e questo porta spesso al trattamento di individui con basso rischio di progressione della stessa. La biopsia renale, oltre a permettere di porre la diagnosi, è un elemento imprescindibile nella valutazione dell’attività della malattia nei pazienti con questa glomerulopatia e spesso mostra quadri del tutto variabili come entità degli aspetti proliferativi mesangiali e del danno cronico parenchimale pur in presenza di quadri clinici apparentemente sovrapponibili. Questa estrema variabilità determina una difficoltà nella gestione delle terapie immunosoppressive e/o a base di inibitori del sistema renina-angiotensina e del follow-up dei pazienti.

In un lavoro recentemente pubblicato su JAMA da SJ Barbour e collaboratori dell’International IgA Nephropathy Network, si propone un nuovo strumento per predire, al momento della diagnosi di IgAN, l’outcome della stessa a 12-84 mesi. Lo studio ha incluso 3927 pazienti (età media 35,4 anni) provenienti da diverse aree geografiche e comprendenti la coorte VALIGA, una coorte di Nanjing in Cina e una coorte di Tokio, stratificati per età, gruppo etnico, proteinuria, pressione arteriosa (PA) ed eGFR al momento della biopsia renale, oltre che per il pattern di lesioni istologiche, riassunte nella classificazione MEST. Non è stato incluso nel modello la presenza o meno di “crescent. Gli autori affermano che questa mancanza è stata compensata dall’item riferito all’uso di trattamenti immunosoppressori, che risulta essere un surrogato della presenza o meno di crescent cellulari, poiché tutti i pazienti con lesioni floride e funzione renale accettabile dovrebbero essere sottoposti a tale regime terapeutico. Il modello statistico utilizzato è stato quello della regressione multipla secondo Cox, con una serie di statistiche derivate. Inoltre, in una coorte di 2781 pazienti derivata dalla prima, sono stati sviluppati due tipi di modelli predittivi: uno che ha preso in esame solo i criteri clinici, eGFR, proteinuria e PA al tempo della diagnosi (clinical model) e altri due che invece includevano anche le caratteristiche istopatologiche; di questi, il primo includeva solo la classificazione MEST (limited model), mentre il secondo includeva anche razza/gruppo etnico, età, terapie immunosoppressive o antagonisti del RAAS e interazione della proteinuria con PA o T score al MEST (full model). È stato calcolato il rischio dell’end-point combinato a distanza di 5 anni dalla diagnosi. La capacità predittiva del modello è stata validata su un gruppo di 1146 soggetti appartenenti a varie coorti europee ed asiatiche.

In particolare, questo tool predice il rischio di declino della funzione renale del 50% o di evoluzione verso l’ESRD ad un certo numero di mesi dalla diagnosi, laddove la migliore performance si otteneva per una stima a 5 anni e fino a 7 anni (rispettivamente il 50% e il 70% percentile del follow-up dei pazienti della coorte).

Gli autori ritengono che circa il 75% dei pazienti con basso rischio di evoluzione della patologia siano trattati nei trial clinici; al contrario, il 33% di pazienti con forme aggressive all’esame istologico, che non presentano tuttavia i criteri clinici di attività della patologia, non subisce un trattamento immunosoppressivo adeguato alla gravità della stessa. Il modello fornito definisce come ad alto rischio i pazienti con percentuale di progressione superiore al 12% e pertanto suscettibili di trattamento. I modelli predittivi che hanno dimostrato una performance migliore sono i due che includevano il MEST.

I vantaggi di questo studio sono molteplici: la numerosità e la multi-etnicità del campione ne consente l’uso in tutto il mondo attraverso una rapida App per cellulare oppure una Web App [https://qxmd.com/calculate/calculator_499/international-igan-prediction-tool]; l’uso della classificazione istologica Oxford (punteggio MEST) è universalmente usata per la descrizione istologica dei pazienti con IgAN.

I principali limiti di questo studio, al contrario, sono la netta prevalenza di pazienti estratti da coorti giapponesi e cinesi (oltre il 50% del totale) nonché la mancata presenza di individui di etnia afro-americana (<1%). Sono assenti inoltre pazienti di età superiore ai 45 anni. Risulta discutibile la scelta di non inserire la presenza di crescent nei fattori predittivi di outcome, ormai comunemente usato nel grading istologico Oxford (MEST-C) e altamente predittivo dell’aggressività della patologia nel medio-lungo termine.

 

Approfondimento: Articolo originale su JAMA:
https://doi.org/ 10.1001/jamainternmed.2019.0600

Impatto sulla Web Community:
https://jamanetwork.altmetric.com/details/58973339

 

5) Octreotide-LAR negli stadi avanzati di insufficienza renale nell’ADPKD (ALADIN 2): trial multicentrico randomizzato controllato e doppio cieco

S. Matino

La malattia policistica renale autosomica dominante (ADPKD) è una patologia genetica che colpisce milioni di persone al mondo, caratterizzata da progressiva perdita della funzione renale fino all’ESRD. Il meccanismo molecolare intracellulare che porta alla formazione e crescita delle cisti è legato all’equilibrio del calcio e dell’cAMP. La somatostatina agisce come inibitore dell’adenilato-ciclasi sia in vitro che in vivo e rappresenta uno stimolo anti-proliferativo cellulare e di inibizione della secrezione di fluidi: per queste caratteristiche è stata studiata ed utilizzata in diversi trials.

Riguardo all’impiego di un analogo della somatostatina nell’ADPKD, Perico e colleghi hanno recentemente pubblicato i risultati di un trial multicentrico (ALADIN-2), doppio cieco, randomizzato e controllato, che ha studiato l’azione dell’octreotide-LAR (Long Acting Release) confrontato al placebo in una coorte di 100 pazienti ADPKD adulti con GFR misurato (mGFR) compreso tra 15 e 40 ml/min. Sono stati considerati come outcome primari i cambiamenti sul volume renale totale (TKV) e GFR misurato (mGFR), ma anche le modifiche sui volumi epatici e gli outcome compositi renali (secondari). Il primo dato evidente è che il TKV aumenta meno ad 1 anno (5,2% vs 8,8%) ed anche a 3 anni (29,9% vs 37,1%) nei pazienti trattati con octreotide-LAR, con un delta maggiore nel primo anno. Sono stati riscontrati risultati analoghi considerando il TKV aggiustato per l’altezza (htTKV). In maniera inaspettata, invece, il filtrato glomerulare misurato a 6 mesi si riduce maggiormente nei pazienti ai quali si somministra il farmaco (11,3% vs 7,0%), per presentare poi, dal 6° mese fino al 3°anno, un declino con differenza non statisticamente significativa (0,56 ml/min/anno, p <0,295). Si è ipotizzato che questo fenomeno sia correlato alla riduzione dell’iperfiltrazione glomerulare compensatoria. Dei pazienti trattati con octreotide-LAR, 9/51 (rispetto a 21/49 pazienti trattati con placebo) hanno raggiunto il raddoppio del valore di creatinina o l’ESRD (p <0,026; <0,009 se aggiustato per sesso, età, sCr e TKV). La differenza risulta statisticamente significativa, ma con un campione numerico ancor più basso, se consideriamo l’ESRD come endpoint singolo (3/51 vs 8/49). È possibile dare un’interpretazione assoluta a tale dato considerando il piccolo campione numerico? Se così fosse, questo risultato potrebbe rappresentare una svolta importante nell’evoluzione della malattia. Va sottolineato che i pazienti giunti ad ESRD appartenevano tutti ad uno stadio IV sec K-DOKI.

Nel trial si evidenzia, inoltre, un effetto antiproteinurico nel gruppo con octreotide-LAR, probabilmente legato alla riduzione dell’iperfiltrazione glomerulare. Sempre nel medesimo gruppo si riscontra una ridotta osmolarità urinaria, più evidente nei pazienti con volume renale maggiore, considerata un fattore di rischio per l’ESRD.

Precedenti studi (DIPAK1 ed ALADIN) sono stati effettuati con analoghi della somatostatina, lanreotide ed octreotide-LAR rispettivamente, in pazienti con insufficienza renale lieve-moderata (eGFR >40 ml/min o >60 ml/min). I risultati sono stati in entrambi i casi incoraggianti sull’incremento volumetrico renale rispetto a quelli sulla funzione renale.

Per spiegare i diversi effetti sul GFR nel trial ALADIN-2, si può considerare lo stadio avanzato di malattia renale cronica dei pazienti arruolati, con una presenza maggiore di possibili evoluzioni verso l’ESRD. Si può inoltre considerare la diversa efficacia farmacologica che lanreotide ed octreotide-LAR potrebbero avere a confronto o nei diversi stadi di malattia renale.

Nel trial ALADIN 2 l’octreotide-LAR ha messo in evidenza la manifestazione di effetti collaterali come la diarrea, che rientrava spontaneamente, la formazione di sludge biliare e calcoli biliari evidenziati ecograficamente, ed un lieve incremento della glicemia mattutina a digiuno, non confermata durante il giorno e con HbA1c. Il profilo di sicurezza del farmaco sembra essere sovrapponibile a quello dimostrato nello studio ALADIN ma, considerato il numero dei pazienti che lo hanno assunto ed il periodo di somministrazione relativamente breve, sarà necessario acquisire dati con esposizioni più lunghe. Allo stesso modo trials su campioni più ampi di pazienti con grado severo di danno renale potranno confermare o meno l’azione protettiva che permetterebbe di raggiungere meno frequentemente l’ESRD.

 

Approfondimento: Articolo originale su PLOS Medicine:
https://doi.org/10.1371/journal.pmed.1002777

Impatto sulla Web Community:
https://journals.plos.org/plosmedicine/article/metrics?id=10.1371/journal.pmed.1002777

 

6) Effetti dell’idrossiclorochina sulla proteinuria nella glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA

P. Suavo-Bulzis

La nefropatia a depositi mesangiali di IgA (IgAN) è la glomerulopatia primitiva più frequente su scala mondiale. Essa conduce ad un inevitabile, seppur lento, declino della funzione renale: il 30% dei pazienti affetti progredisce verso un’insufficienza renale cronica terminale. Attualmente, il fattore prognostico fisiopatologico più rilevante per il danno della funzione renale è la proteinuria persistente. I farmaci inibitori del RAAS sono gli antiproteinurici utilizzati come prima linea; nelle forme di IgAN più gravi, con proteinuria elevata e riscontro istologico di lesioni prognosticamente gravi, vengono utilizzati i corticosteroidi. L’efficacia di questi ultimi è dibattuta, mentre ben noti sono gli effetti collaterali. Perciò è diventata prioritaria l’identificazione di nuove terapie per questa patologia.

Il gruppo di studio cinese guidato da Li-Jun Liu ha focalizzato la sua attenzione sull’idrossiclorichina (HCQ), un farmaco immunoregolatore ampiamente utilizzato in patologie immunologiche sistemiche come le collagenopatie. Essa sembrerebbe possedere effetti immunoregolatori pleiotropici, inibendo l’attivazione delle cellule infiammatorie, sopprimendo la presentazione di autoantigeni, inibendo i toll-like receptors (TLR) e la produzione di citochine e chemochine. Dal punto di vista fisiopatologico, anche la IgAN è stata definita come un disordine del sistema immunitario; il tessuto linfoide associato alle mucose sarebbe principalmente coinvolto tramite l’attivazione di monociti e linfociti (in seguito al legame ai TLR) con conseguente proliferazione di linfociti B, switch ad IgA e produzione di classi di IgA anomale che, in circolo, si legano ad autoanticorpi e formano immunocomplessi che si depositano a livello renale con conseguente attivazione del complemento e successivo danno. L’effetto antiproteinurico della HCQ sembrerebbe dovuto ad un’inibizione del segnale dei TLR a livello mucosale e renale con riduzione dell’infiammazione e del clone anomalo di IgA.

Il gruppo cinese ha arruolato 60 pazienti in questo studio randomizzato e in doppio cieco. I criteri di inclusione sono stati: età tra i 18 e i 75 anni, diagnosi istologica di IgAN, eGFR >30 ml/min/1,73 m2 e proteinuria compresa tra 0,75 e 3,5 g/24 ore, nonostante la somministrazione della terapia massima tollerata di inibitori del RAAS per almeno 3 mesi. A 30 pazienti è stata somministrata HCQ con posologia adeguata alla funzione renale, agli altri 30 è stato invece somministrato placebo.

L’outcome primario dello studio è stato definito dalla variazione in termini percentuali della proteinuria tra il tempo zero ed i sei mesi. Nel gruppo in terapia con HCQ, la variazione percentuale della proteinuria è stata significativamente più importante rispetto al gruppo placebo (-48,4% vs 10%). Dopo sei mesi, la proteinuria mediana nel gruppo HCQ era significativamente inferiore che nel gruppo placebo (0,9 g/24h vs 1,9 g/24h). Tra gli outcome secondari, sono stati valutati la variazione percentuale di eGFR e la frequenza degli episodi di macroematuria, non statisticamente significativi nei due gruppi. Anche la differenza dei valori pressori tra i due gruppi non si è dimostrata significativa. Durante lo studio, nessun paziente ha mostrato gravi o irreversibili reazioni avverse al farmaco; L’HCQ, inoltre, non aumenta il rischio di infezioni.

Nonostante i limiti di questo studio, ossia il campione limitato ed arruolato in un solo centro e la brevità del follow-up, esso potrebbe indurre a considerare l’HCQ come un’alternativa valida in pazienti affetti da IgAN con proteinuria e controindicazione all’utilizzo di corticosteroidi.

 

Approfondimento: Articolo originale su American Journal of Kidney Diseases:
https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2019.01.026

Impatto sulla Web Community:
https://plu.mx/plum/a/?doi=10.1053/j.ajkd.2019.01.026

 

7) Stima della funzione renale nei soggetti anziani e diabetici: abbiamo gli strumenti giusti?

V. Colucci, V. Montinaro

La valutazione della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) è alla base del lavoro quotidiano del nefrologo. La stadiazione della malattia renale cronica (CKD) è infatti basata prevalentemente sul dato quantitativo del GFR, in aggiunta al dato quantitativo della albuminuria; entrambi questi parametri permettono di formulare una stima del rischio di evoluzione di ogni singolo paziente verso l’ESRD. Risulta pertanto chiaro che lo strumento usato per valutare il GFR deve essere quanto più accurato e preciso possibile. Date le difficoltà procedurali nel misurare il GFR (studi di clearance renale o plasmatica di marcatori endogeni o esogeni), da alcuni anni sono stati sviluppati degli strumenti indiretti, basati su modelli matematici che mettono in correlazione la valutazione plasmatica dei marcatori endogeni con misurazioni del GFR effettuate su coorti di pazienti con metodi di riferimento. Abbiamo a disposizione quindi delle formule (MDRD, CKD-EPI basata su concentrazione plasmatica di creatinina, cistatina C o entrambe) che permettono di “stimare” il GFR (eGFR). Secondo le raccomandazioni K-DIGO, è preferibile utilizzare la formula CKD-EPI basata su creatinina o, in alcuni casi particolari o quando abbiamo bisogno di un test di conferma, quella basata su cistatina C o il GFR misurato. I pazienti diabetici rientrano nella popolazione in cui la stima del GFR è spesso poco accurata anche per via dell’interferenza dell’iperglicemia. D’altronde, nonostante il diabete rappresenti una delle principali cause di ESRD, ci sono pochi studi sulla determinazione più puntuale del GFR in soggetti affetti da diabete mellito tipo 1 (T1D) di lunga durata.

In un recente studio canadese di Daniel Scarr, Bruce Perkins e collaboratori di varie istituzioni di Toronto e di Boston, sono stati valutati i parametri di performance di varie formule per calcolare eGFR in soggetti anziani affetti da diabete tipo 1, comparati con soggetti normali della stessa età media (entrambi i gruppi con normofunzione renale).

Sono stati studiati complessivamente 66 pazienti diabetici da almeno 50 anni e 73 soggetti non diabetici (età media 65 anni, 55% donne). Il GFR è stato misurato (mGFR) per mezzo della clearance dell’inulina (valori espressi dopo normalizzazione per superficie corporea standard); inoltre, per tutti i soggetti, è stato stimato l’eGFR con la formula dell’MDRD, la CKD-EPI basata su creatinina, cistatina C o entrambe, e la formula basata sui livelli plasmatici di β2-microglobulina di Inker. I parametri di performance delle formule valutati rispetto alla clearance dell’inulina sono stati:

  • il bias, considerato come la percentuale media di discostamento rispetto a mGFR,
  • la precisione, cioè l’entità della deviazione standard di stime ripetute con la stessa formula,
  • l’accuratezza, la proporzione dei valori di eGFR che si discostavano più del 20% rispetto al mGFR.

I risultati hanno evidenziato che l’mGFR non era statisticamente differente fra pazienti e controlli (103 ± 17 vs. 105 ± 19 ml/min/1,73 m2, rispettivamente, P=0,39). Tutte le formule presentavano un bias significativo compreso tra -15 e -30 ml/min/1,73 m2, P<0,001), con l’eccezione della formula basata su β2-microglobulina, che presentava invece un bias non statisticamente diverso (1,9 ml/min/1,73 m2, P=0,61). In termini di bias, le formule basate su cistatina C avevano il maggior discostamento rispetto a mGFR. Sul fronte della precisione, invece, la formula basata su β2-microglobulina aveva la minore precisione (SD 43,5 ml/min/1,73 m2, P<0,001). Per quanto riguardava l’accuratezza, la più bassa si otteneva con le formule basate su cistatina C (69,1%, P<0,001). Questi risultati si riscontravano sia nel gruppo di diabetici che nel gruppo di controllo.

Da questi dati emerge quindi che le formule usate comunemente nella popolazione anziana con normofunzione renale hanno una scarsa performance. Emerge la possibilità di raggiungere un migliore risultato usando la formula basata su β2-microglobulina, purtroppo inficiata però da una scarsa precisione. Il fatto che le formule siano state sviluppate usando come metodo di riferimento la clearance plasmatica di 125I-iotalamato e non la clearance renale dell’inulina può aver contribuito a questi risultati. È insomma altamente auspicabile una più accurata definizione del parametro che permette di definire la CKD.

In definitiva, nei soggetti anziani con normofunzione renale, sia normali che diabetici, le formule in uso per valutare l’eGFR tendono a non essere accurate; si devono fare maggiori sforzi per identificare uno strumento utile ad una migliore definizione dei pazienti con CKD che richiedono sorveglianza sanitaria, sia esso una formula diversa per calcolare eGFR oppure un metodo di facile esecuzione per misurare mGFR.

 

Approfondimento: Articolo originale su Kidney International Reports:
https://doi.org/10.1016/j.ekir.2019.02.010

Impatto sulla Web Community:
https://plu.mx/plum/a/?doi=10.1016/j.ekir.2019.02.010

 

8) Mortalità nella nefropatia da IgA: uno studio di coorte basato su una popolazione nazionale

C. Villani

La glomerulonefrite a depositi mesangiali di IgA (IgAN) è la forma più frequente di glomerulonefrite primitiva. L’incidenza è data da circa 2-10 casi per 100.000 persone-anno. Il decorso della malattia può variare da forme asintomatiche e non progressive a forme aggressive, a lenta o rapida evoluzione. Un paziente su quattro evolve in ESRD entro 20 anni dalla diagnosi.

Nel corso degli anni, diversi studi hanno cercato di identificare fattori prognostici predittivi della possibile evoluzione verso l’ESRD, quali gli aspetti istologici che evidenziano un’estesa glomerulosclerosi e fibrosi interstiziale, la presenza di uno stato ipertensivo o di una proteinuria da moderata a elevata all’ atto della biopsia renale, l’evidenza di una creatininemia superiore a 1,5 mg/dl, l’età adulta o il sesso maschile.

Al contrario, pochi sono i dati presenti in letteratura tesi a cercare di stabilire quale sia la mortalità nei pazienti affetti da IgAN. Sebbene gli studi a riguardo abbiano suggerito che la mortalità sia aumentata nella popolazione con IgAN, la maggior parte di questi lavori hanno il limite di aver coinvolto singoli centri, o determinati sottogruppi di pazienti, come per esempio quelli già in fase di trattamento renale sostitutivo.

Un gruppo di lavoro svedese ha cercato, attraverso uno studio di coorte basato sulla propria popolazione, di definire il tasso di mortalità dei pazienti affetti da IgAN in confronto alla popolazione generale. A tal fine, sono stati selezionati i pazienti con diagnosi di IgAN accertata istologicamente mediante biopsia eseguita nel periodo tra il 1974 e il 2011. Per minimizzare il bias e possibili fattori di confondimento nell’analisi, i pazienti con IgAN sono stati confrontati con controlli sani selezionati dalla popolazione generale, ma anche con controlli secondari (fratelli e coniugi dei pazienti stessi). Utilizzando i dati presenti in tre registri nazionali, sono stati eseguiti i seguenti confronti: 3622 pazienti affetti da IgAN vs 18.041 controlli sani, 2773 pazienti IgAN vs 6210 fratelli e 2234 pazienti con IgAN vs i rispettivi coniugi. I principali outcomes erano morte ed ESRD.

Ma veniamo ai risultati: è vero che i pazienti con IgAN presentano una mortalità aumentata? Durante un follow-up mediano di 13,6 anni, 577 pazienti con IgAN sono deceduti (1,1%, 10,67 per 1000 persone-anno); nella popolazione di controllo, durante un follow-up mediano di 14,1 anni, vi sono stati 2066 decessi (0,7%, 7,45 per 1000 persone-anno). Ciò corrisponde ad un aumento del rischio di morte di 1,53 volte, ad un modesto incremento nel tasso di mortalità assoluta pari a 3,23 per 1000 persone-anno (pari ad un decesso aggiuntivo ogni 310 persone-anno) e ad una riduzione mediana dell’aspettativa di vita di 6 anni. Simili aumenti di rischio sono stati osservati anche nel confronto con i fratelli e con i coniugi. Nella popolazione affetta da IgAN, un caso in più ogni 54 persone-anno, evolveva verso ESRD. Tra le IgAN evolute in ESRD il tasso di mortalità era maggiore. La mortalità nei pazienti con IgAN in assenza di ESRD invece non era aumentata in modo significativo rispetto ai controlli, ai coniugi o ai fratelli. Tra i pazienti con ESRD, conseguente ad IgAN oppure provocata da altre cause, la mortalità complessiva non differiva.

La numerosità del campione e il lungo follow-up sono sicuramente punti di forza di questo studio. Invece, l’assenza dei dati clinici riconosciuti come fattori predittivi degli outcomes nelle IgAN è un fattore limitante: sarebbero auspicabili nuovi studi completi anche in questo senso.

 

Approfondimento: Articolo originale su Journal of the American Society of Nephrology:
https://doi.org/10.1681/ASN.2018101017

Impatto sulla Web Community:
https://asnjournals.altmetric.com/details/58830995

 

9) Trapianto adulto-bambino: alle fondamenta di nuove linee guida

P. Protopapa

Il trapianto renale rappresenta il trattamento di prima scelta in bambini affetti da insufficienza renale terminale, con vantaggi relativi alla crescita, alla qualità di vita e alla scolarizzazione. Sebbene la sopravvivenza del trapianto nel paziente pediatrico sia migliorata nel corso degli anni, persiste ad oggi un elevato rischio di perdita precoce del trapianto a causa di diverse complicanze. Tra le più frequenti vi è la sindrome compartimentale del trapianto allogenico (Allograft Compartment syndrome: RACS) causata dal posizionamento del graft in un piccolo spazio, con ipoperfusione, compressione del parenchima renale per il kinking dei vasi renali e dell’uretere del graft, con potenziali effetti che possono portare a danno tubulare acuto, trombosi dei vasi renali fino al fallimento del graft. Difatti, una chiusura muscolare priva di tensioni è determinante per evitare l’instaurarsi della RACS, condizione alla quale i piccoli riceventi sono maggiormente vulnerabili a causa del rene di grandi dimensioni. Un’ulteriore condizione da prevenire, possibile causa di precoce fallimento del graft nei pazienti pediatrici, è la trombosi vascolare, che ha un’incidenza del 2,6%-13,1%. Un adeguato flusso sanguigno arterioso ed un drenaggio venoso fluente sono fattori essenziali per ridurre il rischio di complicanze vascolari.

Data la frequente asimmetria tra le dimensioni del rene del donatore ed il letto all’interno del quale può essere posizionato il graft nel ricevente, si rende necessario un approfondito studio pre-operatorio dell’approccio chirurgico. L’approccio intraperitoneale è tradizionalmente usato per allestire il letto di trapianto in piccoli ricevitori pediatrici di un rene adulto con peso inferiore a 20 kg. Questo approccio ha i vantaggi di un campo operativo esteso e di un’ampia esposizione dei grossi vasi, sebbene possa essere gravato da complicanze tra le quali l’ileo paralitico e l’ostruzione intestinale per aderenze. Recentemente, sebbene persista il rischio di RACS dato il limitato spazio, l’approccio extraperitoneale per l’utilizzo di un rene adulto è ritenuto accettabile per i riceventi con un peso superiore a 11,0-11,5 kg, mai sottoposti ad interventi chirurgici addominali maggiori prima del trapianto.

Lo scopo dello studio condotto da Muramatsu e colleghi e pubblicato su Pediatric Transplant era quello di comparare, mediante un’indagine retrospettiva, lo stato pre-operatorio, l’anastomosi vascolare, gli outcomes clinici e le eventuali complicanze tra gli approcci intra ed extraperitoneali per pazienti pediatrici con peso inferiore ai 15 kg. Sono stati inclusi nello studio 51 pazienti pediatrici, con peso inferiore ai 15 kg ed un follow-up post trapianto di 57 mesi (IQR 23,0-71,0), che sono stati sottoposti al loro primo trapianto renale da donatore adulto tra Marzo 2009 e Dicembre 2017, in assenza di anticorpi donatore specifico. I pazienti sono stati divisi in due gruppi in base all’approccio chirurgico:

  • Gruppo A, approccio intraperitoneale: 24 pazienti, età media 3,8±1,6 anni, altezza 83,7±6,5 cm, peso 10,5±1,8 kg;
  • Gruppo B, approccio extraperitoneale: 27 pazienti, età media 5,0±1,9 anni, altezza 95,3±7,3 cm, peso 13,0±1,4 kg.

I pazienti del gruppo A erano significativamente più giovani, e anatomicamente più bassi e leggeri, rispetto ai pazienti del gruppo B (P< 0,05); non vi era invece nessuna differenza statisticamente significativa relativa al sesso dei riceventi e dei donatori, al mismatch HLA, all’altezza, al peso o al BMI del donatore. Le nefropatie di base includevano anomalie congenite del rene e del tratto urinario (CAKUT n=24; 47,1%), anomalie del SNC (n=7; 13,7%), sclerosi mesangiale diffusa (n=4; 7,8%), malattia policistica recessiva (n=2; 3,9%), nefronoftisi (n=2; 3,9%), insufficienza renale acuta (n=2; 3,9%), e altre patologie (n=10; 40,7%).

Lo studio ha dimostrato come non vi fossero differenze statisticamente significative tra i due gruppi relativamente al tempo di ischemia calda e totale, al tempo di eliminazione della prima urina post-trapianto e al tempo vascolare anastomotico. Nel gruppo A, i tassi di sopravvivenza globale a 1, 3 e 5 anni erano rispettivamente del 100,0%, 97,3% e 97,3% vs 100,0%, 95,2% e 95,2% del gruppo B. I tassi di sopravvivenza del trapianto erano rispettivamente del 98,0%, 95,4% e 95,4% nel gruppo A e 96,3%, 91,7% e 91,7% nel gruppo B, differenze non statisticamente significative. Nessun paziente ha evidenziato segni riconducibili a RACS, indipendentemente dall’approccio al trapianto, ed entrambi i tipi di chirurgia hanno raggiunto risultati incoraggianti. Sebbene non vi sia ancora un limite di peso minimo per ricevere un rene adulto, lo studio ha dimostrato come l’approccio intraperitoneale sia possibile per tutti i riceventi di peso inferiore a 10 kg se il donatore ha un peso inferiore ai 70kg. Relativamente alla scelta dell’approccio, come già dimostrato in diversi studi, il R-Wt contestualizzato allo stato generale, alla patologia di base e alla condizione medica del ricevente sembra un valido indice per la scelta dell’approccio migliore.

Si rendono comunque necessari ulteriori studi per stabilire le linee-guida da seguire relativamente all’approccio chirurgico per il trapianto renale pediatrico, al fine di ridurre al minimo il rischio di eventuali complicanze e auspicando il raggiungendo dei migliori outcomes possibili per i piccoli pazienti affetti da insufficienza renale.

 

Approfondimento: Articolo originale su Pediatric Transplantation:
https://doi.org/10.1111/petr.13401

Impatto sulla Web Community:
https://wiley.altmetric.com/details/57846011