Novembre Dicembre 2016 - Specialità e professioni a colloquio

Documento guida per l’assistenza al fine vita

Abstract

In Italia è vacante la legge che norma il fine vita, il medico deve trarre insegnamento dalla giurisprudenza. di merito.

Presa come guida la Sentenza Suprema Corte Cassazione, 16/10/2007, n° 21748 è presentato un modulo pratico ed utilizzabile per il Paziente, per il Tutore ed il Medico che guida il percorso di assistenza del fine vita.

Il documento rispetta e tutela la volontà, la dignità e l’informazione del Paziente, si oppone agli accanimenti e conferma la sacralità della vita. Permette di registrare la cura dei sintomi che avvicinano la morte, pone il rapporto medico-paziente su valori di intelligenza e di fiducia.

Parole chiave: assistenza fine vita, sentenza cassazione 21748/2007

 

Premessa

Molte volte ho pensato a come desidero morire, sapendo che a tutti è impossibile conoscere data, luogo e modalità.

Io vorrei la mia morte così; ho cercato di renderla possibile ad altri.

  • Essere certo della diagnosi (sostengo che il “secondo parere” è un diritto per tutti, la medicina pubblica lo dovrebbe garantire a tutti).
  • Essere informato sulla prognosi in valori percentuali e di sopravvivenza per alimentare la speranza sempre.
  • Essere certo che chi mi fornirà assistenza è a conoscenza della legge e/o della giurisprudenza dello Stato in cui ho vissuto.
  • Scegliere il luogo, se possibile (ospedale, hospice, o casa).
  • Scegliere il medico di fiducia.
  • Sapere che al medico scelto è attribuita la responsabilità diretta della mia cura; questi si avvale di altri “consulenti”.
  • Avere vicino il fiduciario unico che controlli siano rispettate le mie volontà, scegliendo la persona che ho amato e mi ama.
  • Avere garanzia della terapia palliativa iniziata secondo il percorso che sarà documentabile in cartella clinica.
  • Avere sempre vita, fino a quando è presente vita di relazione.
  • Evitare tutti gli accanimenti terapeutici con dichiarazioni anticipate, in presenza di sintomi che minano la qualità della vita stabilita secondo i miei criteri.
  • Rendere utile il mio caso “unico” agli altri con una raccolta dei miei dati.
  • Avere tutto il percorso documentato.
  • Avere applicati i Diritti del malato terminale (allegati).

Nota “Per i credenti la vita non finisce con la morte, ma continua. É la morte che fa parte della vita.”

I punti sopra indicati riportano principi ed emozioni personali originanti dall’esperienza di 40 anni di attività in Nefrologia e dall’assistenza a migliaia di pazienti morti, sono privi di valore scientifico, ma seguono insegnamenti ricevuti dalla lettura della Sentenza Corte Suprema Cassazione del 16 ottobre 2007, n° 21748

Il nefrologo assiste i Pazienti per moltissimi anni, pare doveroso che lo stesso medico trovi un percorso razionale, vicino alla scienza, rigoroso alle leggi e al servizio dell’Uomo per il fine vita di coloro che ha assistito.

Il Documento il “Foglio della vita” cerca di soddisfare queste esigenze.

1) Percorso razionale. Il documento è steso come modulo, suscettibile di modifica o miglioramento, pertanto ha una propria razionalità di percorso ed è il punto di partenza per Paziente, medico e tutore.

2) Vicino alla scienza. Il nefrologo ha il compito, come tutti i medici, di dovere gestire il fine vita avvalendosi dello specialista in cure palliative, la terapia palliativa intesa come cura dei sintomi è reperibile nella letteratura e non necessita di ulteriori ricerche. Il documento fa riferimento ai sintomi che intervengono più frequentemente prima della morte.

3) Rispettoso delle le leggi. Il Medico deve rispettare le Leggi della Nazione in cui vive. In Italia non è presente legge sul fine vita. In vacanza di legge, i Medici debbono prendere insegnamento dalla Sentenza Suprema Corte Cassazione, 16/10/2007, n° 21748.

Il documento presentato riprende, seppure parzialmente, i punti della Sentenza. La Sentenza guida l’attività del medico nell’assistenza al fine vita.

4) A servizio dell’Uomo. Il documento pone al centro delle decisioni l’Uomo malato, di cui tutela la dignità, il diritto all’informazione e alle scelte.

Il documento non riprende volutamente temi etici e non utilizza calcolatori o “domande sorprendenti” privilegia l’intelligenza dell’Uomo, il rispetto della volontà del Paziente e la sacralità della vita.

Il protocollo è diviso in quattro parti.

  1. Documento per il Paziente è il documento che deve essere firmato dal Paziente, in qualunque stato di salute o malattia. Deve essere letto e firmato (Allegato 1).
  2. Documento per il Tutore o Fiduciario. è il documento che deve essere firmato dal tutore. Deve essere letto e firmato (Allegato 2).
  3. Documento per il Medico di fiducia. è il documento che deve essere firmato dal Medico di fiducia. Deve essere letto e firmato (Allegato 3).
  4. Documento per la cartella clinica della Struttura ove è in carico assistenziale il Paziente (Allegato 4).

Nei quattro documenti sono presenti parti comuni, sono le molte ripetizioni di citazioni della Sentenza della Corte Suprema Cassazione del 16 ottobre 2007, n° 21748.

Al fine di presentare un protocollo applicabile, pratico e scaricabile i quattro documenti sono presentati separatamente in formato PDF e sono i documenti che debbono essere presentati al Tutore, al Paziente e alla cartella clinica.

Ricopiamo, in continuo, solo la parte del Medico di fiducia nefrologo, lasciando alla facoltà del lettore, ai pazienti, ai possibili Tutori l’apertura degli altri documenti.

L’Autore giudica necessaria al Medico la lettura del 1 Documento per il Paziente ed il 4 Documento per cartella clinica.

Articolo 32 della Costituzione italiana

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Estratti dalla Sentenza Suprema Corte di Cassazione 16 ottobre 2007, n° 21748

Obblighi del medico

La vita è indispensabile presupposto per il godimento di qualunque libertà dell’uomo e, proprio per questo, non può ammettersi che la persona alieni ad altri la decisione sulla propria sopravvivenza o che il diritto si estingua con la rinuncia. Il diritto alla vita, proprio perché irrinunciabile ed indisponibile, non spetti che al suo titolare e non possa essere trasferito ad altri, che lo costringano a vivere come essi vorrebbero

Non è la vita in sé, che è un dono, a potere essere mai indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre artificialmente il vivere, oltre quel che altrimenti avverrebbe, solo grazie all’intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si costringe alla vita.

Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza.

É costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.

Il modo normale di garantire l’individualità di un uomo è l’autodeterminazione; ma quando l’autodeterminazione non è più possibile, perché la persona ha perso irreversibilmente coscienza e volontà, bisogna perlomeno assicurarsi che ciò che resta dell’individualità umana, in cui si ripone la dignità di cui discorrono gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, non vada perduta. E tale individualità andrebbe perduta qualora un’altra persona, diversa da quella che deve vivere, potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera personale dell’incapace per manipolarla fin nell’intimo, fino al punto di imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute.

Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. In questo si rispecchiano l’idea di non accanirsi in trattamenti futili, di sospendere e non erogare, a titolo di ostinazione irragionevole, trattamenti inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita.

Certamente non ci si deve permettere, neppure ed anzi a maggior ragione per chi sia incapace o abbia minorazioni, di distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute. Il che non toglie, tuttavia, che vi siano casi in cui, per il prolungamento artificiale della vita, non si dia riscontro di utilità o beneficio alcuno ed in cui, quindi, l’unico risultato prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della scienza medica nel vincere l’esito naturale della morte. Tale trionfo è però un trionfo vacuo, ribaltabile in disfatta, se per il paziente e la sua salute non c’è altro effetto o vantaggio.

Si sostiene che, quando il trattamento è inutile, futile e non serve alla salute, sicuramente esso esula da ogni più ampio concetto di cura e di pratica della medicina, ed il medico, come professionista, non può praticarlo, se non invadendo ingiustificatamente la sfera personale del paziente.

Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche.

Rifiuto delle cure

Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.

La soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, «in presenza di documentato rifiuto di persona capace», il medico deve «in ogni caso» «desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».

Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extra giuridiche, quindi squisitamente soggettive.
Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza.

Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.

Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.

Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.

Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte costituzionale sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996).

É costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.

Potere di rappresentanza tutore o fiduciario

Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.

La funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi:

  • quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione (tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso) sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona;
  • quando la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.

Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve dare incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.

Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza – proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità – si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.

Il quadro compositivo dei valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorché era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza.

In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente.
E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.

Assodato che i doveri di cura della persona in capo al tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità, si tratta di stabilire i limiti dell’intervento del rappresentante legale.

Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.

Non v’è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita.

Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte.

Nella sentenza 17 marzo 2003, il Bundesgerichtshof – dopo avere premesso che se un paziente non è capace di prestare il consenso e la sua malattia ha iniziato un decorso mortale irreversibile devono essere evitate misure atte a prolungargli la vita o a mantenerlo in vita qualora tali cure siano contrarie alla sua volontà espressa in precedenza sotto forma di cosiddetta disposizione del paziente (e ciò in considerazione del fatto che la dignità dell’essere umano impone di rispettare il suo diritto di autodeterminarsi, esercitato in situazione di capacità di esprimere il suo consenso, anche nel momento in cui questi non è più in grado di prendere decisioni consapevoli) – afferma che, allorché non è possibile accertare tale chiara volontà del paziente, si può valutare l’ammissibilità di tali misure secondo la presunta volontà del paziente, la quale deve, quindi, essere identificata, di volta in volta, anche sulla base delle decisioni del paziente stesso in merito alla sua vita, ai suoi valori e alle sue convinzioni.

Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.

La tragicità estrema di tale stato patologico – che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano – non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto l’idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l’altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili.

Dignità e qualità della vita

Ma – accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza – c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.

Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta.
All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale.

Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona.

Per altro verso, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorché appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce.

Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell’autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza – proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità – si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.

Nota. Il presente documento è costituito da Estratti di sentenza, pertanto, non corrisponde in toto alla Sentenza Suprema Corte di Cassazione 16 ottobre 2007, n° 21748, la cui conoscenza può derivare esclusivamente dalla lettura completa della Sentenza stessa.