La tossicità renale degli inibitori tirosin chinasici: un problema emergente dalla ricerca alla pratica clinica

Abstract

Gli inibitori della tirosina chinasi (TKI, Tyrosine Kinase Inhibitors) hanno contribuito a rivoluzionare la terapia farmacologica dei tumori essendo piccole molecole, somministrabili per via orale, in grado di modulare in maniera altamente selettiva vie di segnalazione coinvolte nella crescita del tumore e nell’angiogenesi. Tuttavia, l’utilità clinica dei TKI può essere talvolta limitata dalla comparsa di effetti avversi, che possono colpire diversi tessuti e organi, compresi i reni. Questa revisione della letteratura scientifica ad oggi disponibile offre una panoramica generale degli studi che documentano incidenza e caratteristiche cliniche della nefrotossicità correlata all’esposizione a TKI ed esplora i meccanismi molecolari alla base dell’intricata relazione tra TKI e tossicità renale. Viene qui discusso il razionale biologico delle manifestazioni renali associate al trattamento con agenti TKI selettivi, sottolineando l’importanza di un’accurata valutazione del rischio e di strategie di gestione personalizzata dei pazienti in trattamento con TKI.

Una conoscenza approfondita dei meccanismi molecolari della nefrotossicità indotta da TKI è cruciale non solo per migliorare l’attuale utilizzo clinico di questi preziosi strumenti terapeutici ma anche per poter sviluppare nuove terapie farmacologiche sempre più efficaci e sicure.

Parole chiave: inibitori della tirosina chinasi, rene, nefrotossicità, tumore

Introduzione

Gli inibitori delle tirosin chinasi (TKI, Tyrosin Kinase Inhibitors) sono una importante classe di farmaci che ha permesso di ridefinire il panorama della farmacoterapia dei tumori, grazie alle numerose applicazioni in un ampio spettro di contesti patologici, dalla leucemia mieloide cronica a diverse tipologie di tumori solidi, compresi carcinomi renali. Il loro meccanismo d’azione consiste in una inibizione selettiva di enzimi tirosin chinasi, un gruppo eterogeneo di proteine coinvolte nelle cascate di segnalazione cellulari, che governano un ampio spettro di processi cellulari vitali, tra cui il ciclo cellulare, la migrazione, la proliferazione, la differenziazione e la sopravvivenza [1].

Il loro meccanismo di azione altamente selettivo ha portato a risultati clinici molto interessanti, documentando ottima efficacia associata a elevati tassi di sopravvivenza [2]. Sebbene il potenziale terapeutico dei TKI sia ben documentato e ampiamente riconosciuto, l’utilizzo sempre più su ampia scala di TKI ha portato ad evidenziare la comparsa di effetti collaterali, talvolta anche di grado severo. Recenti dati clinici e di farmacovigilanza hanno documentato in particolare la possibilità di forme diverse di tossicità renale che possono essere associate all’assunzione di questi farmaci [3].

La tossicità renale dei TKI rappresenta un problema emergente, non solo per il loro sempre più esteso utilizzo ma anche per la maggior sopravvivenza dei pazienti e di conseguenza una maggior durata di queste terapie.

L’obiettivo principale di questa revisione della letteratura è quello di analizzare la complessa interazione tra esposizione a TKI e rischio di tossicità renale, evidenziando elementi di criticità e possibili indicazioni per il contenimento del rischio tossicologico.

 

Meccanismo d’azione

Gli enzimi tirosin-chinasi possono essere classificati come proteine tirosin-chinasi recettoriali (RTK, Receptor Tyrosin Kinase), proteine tirosin-chinasi non recettoriali (NRTK, Non Receptor Tyrosin Kinase) e proteine chinasi a doppia specificità (DSTK, Dual specificity protein kinases) in grado di fosforilare residui di serina, treonina e tirosina. Le RTK sono recettori transmembrana che includono recettori del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGFR), recettori del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR), recettori dell’insulina (famiglia InsR) e la famiglia di recettori ErbB, che comprende il recettore umano 2 del fattore di crescita epidermico (HER2) e i recettori del fattore di crescita epidermico (EGFR). Esempi di DSTK sono le chinasi delle proteine mitogeno-attivate (MEK), che sono principalmente coinvolte nelle vie di segnalazione MAP.

Nel contesto dell’oncogenesi, la disregolazione delle tirosin chinasi può innescare una proliferazione cellulare e una sopravvivenza incontrollata, promuovendo lo sviluppo e la progressione tumorale.

Esistono quattro meccanismi principali di trasformazione oncogenica che coinvolgono processi tirosin chinasi-dipendenti:

  • trasduzione retrovirale di un proto-oncogene corrispondente a una tirosin chinasi, concomitante a cambiamenti strutturali [4];
  • riarrangiamenti genomici, come traslocazioni cromosomiche, che danno luogo a proteine di fusione oncogeniche contenenti un dominio catalitico di tirosin chinasi e parte di una proteina non correlata (ad esempio, Bcr-Abl nelle leucemie Philadelphia-positive);
  • mutazioni gain-of-function o piccole delezioni nelle tirosin chinasi (ad esempio, KIT nei tumori stromali gastrointestinali);
  • sovraespressione delle tirosin chinasi a seguito di amplificazione genica (ad esempio, EGFR in diversi tumori solidi) [5].

I TKI sono piccole molecole progettate per inibire l’attività delle tirosin chinasi, attraverso il legame competitivo con il sito di legame dell’adenosina trifosfato (ATP) della chinasi o mediante la modulazione della conformazione della chinasi [6]. Gli inibitori di tipo 1 si legano alla conformazione attiva, mentre gli inibitori di tipo 2 riconoscono la forma inattiva dell’enzima. Poiché le proteine chinasi presentano forti omologie nel sito di legame dell’ATP, i TKI spesso non sono specifici per una singola chinasi e mostrano reattività crociata con altri enzimi, con conseguenti rischi di comparsa di effetti di tossicità off-target.

Oltre alla loro azione di inibizione di cascate di segnale di sopravvivenza nelle cellule tumorali, i TKI esercitano la loro influenza sull’ambiente microscopico del tumore, inducendo in particolare l’arresto dell’angiogenesi [7]. Mediante l’inibizione dell’angiogenesi, i TKI non solo rallentano la crescita del tumore, ma, attenuando la formazione di nuovi vasi sanguigni, riducono anche la capacità del tumore di metastatizzare e infiltrare i tessuti circostanti, ostacolando quindi l’accesso del tumore ai nutrienti essenziali e all’ossigeno.

 

TKI e tossicità renale

Sebbene i TKI abbiano contribuito a rivoluzionare la farmacoterapia tumorale, l’equilibrio delicato tra efficacia terapeutica e potenziali effetti avversi condiziona il loro impiego clinico. L’utilizzo di questi farmaci, infatti, è associato ad una serie di tossicità in particolare a carico della cute (con effetti che possono includere secchezza, ispessimento o screpolatura della cute, bolle o rash cutaneo del palmo delle mani o della pianta dei piedi), del tratto gastrointestinale (diarrea, nausea/vomito, dolore addominale, dispepsia e stomatite/dolore orale), e del sistema cardiovascolare (ipertensione, prolungamento dell’intervallo QT, eventi tromboembolici). Inoltre l’assunzione di TKI può portare a compromissione della funzionalità renale, con rischio di insufficienza renale e/o insufficienza renale acuta, in alcuni casi anche con esito fatale. Sebbene il rischio di nefrotossicità sia comune a molti trattamenti farmacologici chemioterapici, il tipo di danno indotto a livello renale può variare anche significativamente da una classe di farmaci ad un’altra. Ad esempio, farmaci chemioterapici come il cisplatino e la ciclofosfosfamide, inducono solitamente un danno tubulare, portando a necrosi o lesione tubulare acuta. Al contrario, i TKI causano più frequentemente glomerulopatia caratterizzata da podocitopatia o microangiopatia trombotica [3]. Il danno glomerulare da TKI si traduce in proteinuria, spesso associata a ipertensione arteriosa e raramente anche ad alterazioni elettrolitiche come ipofosfatemia, ipocalcemia e iponatremia. Tali alterazioni renali, se persistenti, possono causare una riduzione persistente del filtrato glomerulare, fino a malattia renale cronica terminale [8]. Tra questi effetti avversi, la proteinuria è quello con una maggiore incidenza, la cui comparsa può costringere ad una revisione del regime posologico, non esistendo ad oggi un trattamento farmacologico adeguato a contrastarla efficacemente. Le percentuali di incidenza di proteinuria possono essere anche piuttosto drammatiche e, come ad esempio recentemente documentato per lenvatinib e regorafenib [9, 10], la riduzione del dosaggio che ne consegue può mettere a rischio l’efficacia del trattamento farmacologico stesso.

 

Meccanismi molecolari della tossicità renale da TKI

La comprensione dei possibili meccanismi alla base di questo importante effetto avverso comune a diversi TKI utilizzati nella pratica clinica risulta quindi essere fondamentale per implementare un uso corretto e sicuro di questa classe di farmaci. Numerosi sono gli studi clinici e preclinici che hanno tentato di delucidare i meccanismi molecolari sottesi alla nefrotossicità da TKI, sottolineando in particolare il ruolo chiave svolto dal fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF, Vascular Endothelial Growth Factor), una proteina essenziale per la crescita dei vasi sia in condizioni fisiologiche che patologiche. La proteinuria infatti è strettamente correlata alla distruzione dell’integrità della barriera di filtrazione glomerulare, che è composta da podociti, una membrana basale glomerulare e cellule endoteliali.  L’interferenza con la cascata di segnalazione del VEGF indotta dai TKI determina una patologia renale che si manifesta con perdita delle finestre endoteliali nei capillari glomerulari, proliferazione delle cellule endoteliali glomerulari (endoteliosi), perdita di podociti e proteinuria [11]. In condizioni fisiologiche, il VEGF è espresso costitutivamente dai podociti e, una volta rilasciato a livello glomerulare, si lega al suo recettore (VEGFR, Vascular Endothelial Growth Factor Receptor) presente sulle cellule endoteliali. Il cross-talk cellulare tra podocita ed endotelio mediato da VEGF è di fondamentale importanza per il mantenimento dell’integrità strutturale e funzionale del glomerulo. I farmaci TKI, inibendo i processi di attivazione della cascata di segnale mediata dai recettori del VEGF, interferiscono con questo meccanismo fisiologico di comunicazione cellulare, compromettendo la funzionalità glomerulare. La conseguenza è una maggiore vulnerabilità dell’endotelio glomerulare con aumentato rischio di microaneurismi e di sviluppo di ialinosi focale e segmentaria. Le cellule endoteliali, rese sofferenti dall’inibizione della segnalazione VEGF-dipendente, possono iniziare una abnorme produzione compensatoria di fattori pro-angiogenici, che a loro volta portano a sofferenza podocitaria, aggravando il danno renale ed aumentando il rischio di comparsa di proteinuria.

Recenti studi meccanicistici hanno permesso di chiarire meglio i meccanismi molecolari sottesi alla tossicità glomerulare che si manifesta conseguentemente all’esposizione a farmaci TKI in grado di interferire con la funzionalità chinasica dei recettori del VEGF (Figura 1). Ad esempio, i TKI possono inibire nei podociti l’espressione della proteina Neuropilina-1 (NRP1), che svolge un ruolo fondamentale per un corretto cross-talk tra le cellule endoteliali e i podociti stessi, contribuendo in questo modo alla comparsa di una sofferenza podocitaria [12]. Un’altra proteina chiave, la cui espressione è inibita in presenza di TKI, è la proteina WT1, un fattore di trascrizione specifico dei podociti che regola in questa popolazione cellulare la produzione di VEGF e di altre molecole effettrici come la podocalixina e la nefrina. Pazienti con una ridotta espressione basale di WT1 risultano essere più suscettibili alla tossicità renale dei TKI con una maggiore incidenza di proteinuria [13]. Anche la chemochina CXCL12 e il suo recettore CXCR4, espressi rispettivamente su podociti e cellule endoteliali, svolgono un ruolo essenziale nel reclutamento di cellule pro-angiogeniche in sinergia con il sistema di VEGF/VEGFR. Nella proteinuria indotta da TKI, l’espressione del sistema CXCL12/CXCR4 risulta essere alterato, suggerendo pertanto un suo contributo nella comparsa di anomalie di comunicazione tra l’endotelio e la componente podocitaria [14]. Tuttavia, altri dati di letteratura dimostrano che una aumentata espressione di CXCL12 nei podociti migliora la proteinuria e la perdita della funzionalità podocitaria, portando in questo caso ad ipotizzare possibili effetti protettori di questo pattern chemochinico [15].

Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.
Figura 1. Target farmacologico dei farmaci TKI diretti contro il VEGFR e meccanismi molecolari sottesi alla loro tossicità renale.

Queste evidenze sperimentali di tipo meccanicistico trovano conferma in studi clinici che documentano rischi di effetti avversi di tipo renale, in particolar modo proteinuria, in pazienti in trattamento con farmaci TKI in grado di interferire selettivamente con il sistema recettoriale VEGF/VEGFR (Tabella I).

La comparsa di proteinuria come effetto collaterale dei TKI non è solo da imputare all’interferenza con il sistema recettoriale del VEGF, ma può anche essere secondaria all’aumento della pressione intraglomerulare conseguente ad una ipertensione arteriosa, che rappresenta un altro effetto collaterale tipico dei TKI. Poiché ipertensione e proteinuria spesso si manifestano contemporaneamente, non è chiaro se entrambi questi fenomeni si presentino in maniera indipendente oppure se ci sia un rapporto causale tra i due eventi avversi.

È importante inoltre sottolineare che complicazioni renali sono documentate anche per altri farmaci TKI che interferiscono con altre tipologie di enzimi tirosin-chinasi, diversi dal sistema recettoriale VEGF/VEGFR. Ad esempio, manifestazioni di tossicità renale, inclusa nefrite tubulointerstiziale, nefropatia membranosa, e nefropatia da IgA, sono state documentate in seguito a trattamento con gefitnib, un inibitore selettivo della tirosin chinasi del recettore per il fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) [16]. Tossicità renali sono state registrate anche in seguito alla somministrazione di ibrutinib, un potente inibitore della tirosin chinasi di Bruton (BTK), coinvolta nelle vie del segnale del recettore per l’antigene dei linfociti B (BCR) e del recettore per le citochine. In questo caso sono state riportati danni tubulari acuti e nefrite tubulointerstiziale con elevati livelli di creatinina sierica, dovuti probabilmente ad un danno di tipo endoteliale [17].

Oltre al target farmacologico, anche la via di eliminazione può impattare sull’incidenza di tossicità renale. La maggior parte dei TKI presentano come principale via di eliminazione quella renale, favorendo l’accumulo di farmaco nei reni e quindi un maggiore rischio di tossicità a livello locale. Sorafenib, ad esempio, è un inibitore multi-target non selettivo con una ridotta tossicità renale, in parte dovuta al fatto che questo farmaco utilizza come via di eliminazione principale il sistema epatico/biliare. Un altro TKI con scarsa tossicità renale è l’imatinib, farmaco che presenta una elevata selettività di interferenza con la proteina di fusione BCR-ABL e che viene eliminato principalmente per via fecale. Tuttavia, anche per imatinib sono documentati casi di tossicità renale in letteratura, riconducibili a polimorfismi genetici che possono facilitare un maggiore accumulo cellulare del farmaco anche a livello renale [18]. Particolare attenzione va infatti posta nei confronti di polimorfismi a carico di proteine di trasporto di membrana, la cui variazione di espressione e di funzionalità condiziona la capacità del farmaco di accumularsi nella cellula, con conseguenze clinicamente rilevanti sia in termini di efficacia del trattamento farmacologico sia in termini di rischi di comparsa di resistenze. Infatti i TKI presentano un assorbimento attivo, condizionato dai livelli di espressione e attività di specifiche pompe di influsso e di efflusso. Pertanto, una alterata espressione di trasportatori di membrana responsabili dell’attraversamento di membrana dei TKI può modificare significativamente la concentrazione intracellulare di TKI e quindi condizionare la capacità del farmaco di inibire enzimi tirosin chinasi con alterazioni clinicamente rilevanti del profilo di efficacia/sicurezza del farmaco stesso [19].

Principio attivo Targets farmacologici  

Indicazioni d’uso approvate EMA (anno di approvazione)

Tossicità renale
Axitinib VEGFR1/2/3, PDGFRβ

RCC (2012)

Proteinuria, Insufficienza renale
Cabozantinib VEGFR1/2/3, RET, Met, Kit,TrkB, Flt3, Axl, Tie2, ROS1

MTC (2014), RCC (2016), HCC (2016)

Proteinuria, insufficienza renale, lesione renale acuta, nefrite
Lenvatinib VEGFRs, FGFRs, PDGFR, Kit, RET

RCC (2016)

Insufficienza renale, urea ematica aumentata, necrosi tubulare renale

Regorafenib VEGFR1/2/3, BCR-Abl, B-Raf, B-Raf(V600E), Kit

CRC (2013), GIST (2013)

Proteinuria
Sunitinib VEGFR1/2/3, PDGFRα/β, Kit, Flt3 RCC (2006), GIST (2006) Insufficienza renale
Tivozanib VEGFR2 RCC (2017) Proteinuria
Vandetanib VEGFRs, EGFRs, RET, Brk, Tie2, MTC (2012) Insufficienza renale
Tabella I. Tossicità renale correlata al trattamento con TKI diretti contro il VEGFR.
Axl: anexelekto AXL receptor tyrosine kinase; BCR-Abl: breakpoint cluster region-Tyrosine-protein kinase ABL1; B-Raf: v-raf murine sarcoma viral oncogene homolog B1;Brk: Breast tumor kinase Tyrosine-protein kinase; CRC: Colorectal cancer; EGFRs: Epidermal Growth Factor Receptors.;Fms: Feline McDonough Sarcoma;Flt3: fms related receptor tyrosine kinase 3; GIST: Gastrointestinal stromal tumor; HCC: Hepatocellular carcinoma; Kit: Stem cell growth factor receptor; Lck: lymphocyte-specific protein tyrosine kinase; Met: MET proto-oncogene, receptor tyrosine kinase; MTC: Medullary thyroid cancer; PDGFRβ: Platelet-Derived Growth Factor Receptor beta; Ph+ CML: Philadelphia chromosome-positive chronic myeloid leukemia; RCC: Renal cell carcinoma; RET: REarranged during Transfection ;ROS1: Proto-oncogene 1 receptor; Tie2: Angiopoietin 1 receptor ;TrkB: Tyrosine Kinase B receptor ;VEGFR: vascular Endothelial Growth Factor Receptor.

 

Conclusioni

La scelta terapeutica del TKI più adatto deve essere effettuata con attenzione, tenendo conto della salute generale del paziente, delle comorbidità, e con una particolare attenzione al grado di funzionalità renale. I dati di letteratura ad oggi disponibili suggeriscono l’importanza di monitorare la funzionalità renale ed evidenziare segni precoci di tossicità, che, se trascurati, possono portare a forme diverse di disfunzione d’organo, con un rischio particolarmente elevato di comparsa di proteinuria. La proteinuria TKI-dipendente è dovuta principalmente ad una alterata comunicazione tra cellule endoteliali e podociti a livello glomerulare. Il danno endoteliale conseguente all’esposizione a TKI può essere causa di una aumentata espressione compensatoria di fattori pro-angiogenici che, a loro volta, contribuiscono ad esacerbare l’insufficienza podocitaria. Una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici alla base della tossicità renale dei TKI è fondamentale non solo per ottimizzare i protocolli di somministrazione dei TKI attualmente disponibili in clinica ma anche per poter progettare e sperimentare nuove molecole con profili di efficacia e sicurezza sempre migliori e in grado di limitare i rischi di farmacoresistenza, che possono condizionare gravemente la rilevanza clinica degli approcci farmacologici ad oggi disponibili in ambito chemioterapico.

 

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Xenotrapianto: risultati recenti e ostacoli da superare

Abstract

Lo xenotrapianto, o trapianto tra individui di specie diverse, è stato a lungo studiato con l’obiettivo di risolvere la carenza di organi, tessuti e cellule umane per il trapianto clinico. Decenni di ricerca hanno convinto gli scienziati che il maiale è la specie donatrice più appropriata. Infatti, oltre alle numerose somiglianze anatomiche e fisiologiche del maiale con l’uomo, l’allevamento di questo si presta a fornire il gran numero di animali necessario a soddisfare la domanda clinica.

Negli ultimi anni, la ricerca nel campo dello xenotrapianto di organi solidi ha compiuto progressi sensazionali. In particolare studi in vitro e ricerche precliniche, che utilizzano il primate non umano come ricevente di organi di maiale, hanno chiarito i principali ostacoli immunologici e fisiologici allo xenotrapianto e hanno fornito una migliore comprensione dei meccanismi alla base delle lesioni osservate nel rigetto di uno xenotrapianto. Tutto ciò ha portato allo sviluppo di maiali donatori geneticamente modificati più compatibili con l’uomo.

Questa revisione della letteratura illustra i principali ostacoli immunologici, fisiologici e di biosicurezza da superare nello xenotrapianto di organi solidi. Sono anche riportati alcuni spunti di discussione riguardanti sia il donatore ideale che la selezione dei candidati più adatti per i primi studi clinici. Particolare attenzione è stata riservata alle procedure di xenotrapianto di rene. La revisione della letteratura recente suggerisce che mai come oggi gli ostacoli critici di natura immunologica e fisiologica sono percepiti come superabili.

Parole chiave: xenotrapianto, rene, maiale ingegnerizzato, selezione del paziente, fisiologia

Introduzione

La disponibilità molto limitata di organi, cellule e tessuti umani rimane la più grande barriera all’espansione della medicina dei trapianti. In tutto il mondo il divario tra la richiesta di organi e il numero di trapianti eseguiti è ampio ed in aumento. Questo ha spinto la comunità scientifica internazionale a cercare fonti alternative di organi, cellule e tessuti, con particolare attenzione allo sviluppo di nuove conoscenze anche nel settore dello xenotrapianto.

Con il termine xenotrapianto (dal greco xenos: straniero) oggi si intende qualsiasi procedura di trapianto, impianto o infusione in un ricevente umano di cellule, tessuti o organi vivi di provenienza da altra specie animale. Nello stesso termine si comprendono fluidi, cellule, tessuti o organi umani che abbiano avuto un contatto ex vivo con cellule, tessuti o organi di altra specie animale.

Lo xenotrapianto offre almeno in teoria parecchi vantaggi (numero illimitato di cellule, tessuti e organi; organi di ogni taglia; cellule, tessuti e organi disponibili in maniera elettiva; cellule, tessuti e organi privi di infezioni; rispetta le barriere culturali alla donazione di organi umani da donatore deceduto) e sin dal diciannovesimo secolo si cominciò ad esplorarne l’applicazione clinica nell’uomo mediante trasfusioni di sangue o trapianti di cute e/o organi solidi di specie animali non umane con perdita precoce dello xenotrapianto nel giro di minuti o ore, nella maggior parte dei casi.

I primati non umani figurano tra le specie donatrici utilizzate nei primi studi clinici. Questo impiego, tuttavia, è associato a problemi di natura etica, economica e di biosicurezza che hanno spostato l’attenzione dei ricercatori verso il maiale quale potenziale specie donatrice per l’uomo. Il maiale, infatti, oltre ad avere anatomia e fisiologia per molti aspetti simili all’uomo, comporta minori problemi di natura etica; basti pensare che, per soli scopi alimentare, negli Stati Uniti ogni anno vengono macellati più di 50 milioni di maiali. Inoltre, il maiale permette di ottenere rapidamente un grande numero di donatori grazie al breve periodo di gestazione, alla pluriparità e alla rapida crescita della progenie.

In questa breve revisione della letteratura, verranno illustrati gli avanzamenti delle conoscenze nel settore dello xenotrapianto. Particolare attenzione sarà rivolta ai risultati conseguiti nello xenotrapianto di rene che, dopo i traguardi importanti raggiunti nel settore della ricerca preclinica, hanno permesso l’avvio delle prime applicazioni cliniche dello xenotrapianto dal maiale all’uomo.

 

Applicazione clinica dello xenotrapianto: le barriere da superare

a) Gli ostacoli immunologici

Il rigetto anticorpo-mediato

La componente umorale della risposta immunitaria è da sempre considerata la barriera principale alla sopravvivenza a breve e lungo termine di un organo xeno-trapiantato.

Come nel trapianto tra individui della stessa specie (allo-trapianto), anche in un contesto xenogenico gli anticorpi possono innescare diversi tipi di rigetto, in particolare il rigetto iperacuto (hyperacute rejection o HAR) e il rigetto acuto anticorpo-mediato (acute humoral xenograft rejection o AHXR).

Il rigetto iperacuto avviene a distanza di minuti o ore dal trapianto a causa del legame di anticorpi del ricevente formatisi prima del trapianto d’organo. La successiva attivazione della cascata del complemento determina un danno endoteliale severo, formazione di trombi e deposito di fibrina. Si osserva accumulo di neutrofili nei capillari del trapianto, e occlusione trombotica dei capillari stessi con conseguente necrosi fibrinoide. Il risultato finale è una rapida e irreversibile perdita dell’organo [1].

Come nell’allotrapianto, il rigetto acuto anticorpo-mediato di uno xenotrapianto avviene a distanza di giorni o mesi dal trapianto ed è solitamente indotto dalla produzione da parte del ricevente di una risposta anticorpale de novo verso antigeni dell’organo trapiantato. Le caratteristiche istologiche dell’AHXR comprendono deposizione di IgM, IgG, C4d e C5b-9, perdita di integrità capillare, necrosi delle cellule endoteliali ed estesi depositi di fibrina. Gli aspetti istologici delle lesioni sono in gran parte influenzati dall’isotipo e dalla specificità degli anticorpi coinvolti, dal tipo di organo trapiantato, dalle caratteristiche del donatore dell’organo e dall’intervento immunosoppressivo messo in atto per prevenire il rigetto anticorpo-mediato [2, 3]. L’AHXR può essere causato da IgM o IgG. In entrambi i casi l’attivazione della cascata del complemento rappresenta un elemento chiave nello sviluppo del danno che dovrà essere accuratamente controllata [4]. La citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente (ADCC), l’attivazione della cascata infiammatoria, l’induzione di un fenotipo pro-coagulativo con conseguente attivazione della coagulazione e della trombosi rappresentano ulteriori meccanismi di danno legati alla risposta umorale nei confronti degli xeno-antigeni.

Nel contesto dello xenotrapianto grande attenzione è stata rivolta verso i carboidrati legati alle proteine o ai lipidi di superficie delle cellule quali principali antigeni bersaglio. Il target più importante degli anticorpi naturali o de novo umani è il residuo αGal (Galα(1,3)Galβ4Glc-Nac-R), un dimero di galattosio (Galα(1,3)Gal) legato alla N-acetil-lattosamina, sintetizzato dall’enzima α1,3-galactosiltransferasi (α1-3 GalT), un enzima presente nei mammiferi ma non nell’uomo e nei primati non umani del Vecchio Mondo [5]. Grazie ai progressi della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica, sono stati ottenuti maiali knock-out (KO) per il gene a1-3GT (animali quindi privi dell’epitopo αGal: animali GTKO) [6].

Tuttavia, l’αGal non è l’unico epitopo glucidico riconosciuto dagli anticorpi xeno-reattivi umani.  Grazie alle ricerche pre-cliniche degli ultimi anni sono stati individuati altri due target glucidici supplementari, il Neu5GC e il Sda.

L’antigene Neu5GC fa parte della famiglia degli acidi sialici e deriva dalla idrossilazione dell’acido N-acetilneuraminico (Neu5AG). Tale reazione è catalizzata dall’enzima CMP-Neu5Ac-idrossilasi (CMAH) presente nei tessuti di molti mammiferi ma non nell’uomo. Per questa ragione tale residuo risulta essere immunogenico per l’uomo. Anche in questo caso è stato possibile ottenere maiali ingegnerizzati privi degli enzimi α1-3 GalT e CMAH e il loro impiego ha dimostrato di avere effetti benefici al fine di diminuire sia il legame che la citotossicità degli anticorpi umani diretti contro le cellule di maiale [7].

Studi successivi hanno tuttavia dimostrato che quasi il 100% dei sieri umani possiede anche IgM e IgG dirette verso l’Sda, un antigene di un gruppo sanguigno raro sintetizzato dalla β1,4-N-acetilgalactosamiltranferasi [8].

L’avvento della tecnologia CRISPR/Cas9, una tecnica di editing del genoma altamente precisa, efficace e di facile utilizzo, ha permesso di generare maiali knock-out per tutte le glicotransferasi/idrossilasi precedentemente descritte [9].

Uno studio recente ha dimostrato che l’uomo di solito non possiede anticorpi preformati verso questi animali “triple knock out” (TKO) [10].  Tuttavia, alcuni soggetti presentano anticorpi diretti contro il maiale TKO. Ulteriori approfondimenti hanno evidenziato che tali anticorpi riconoscono antigeni del complesso di maggiore istocompatibilità del maiale (swine leukocyte antigen, SLA) di classe I e II [10, 11]. Questo risultato non è del tutto inatteso, giacché i sistemi maggiori di istocompatibilità porcino (SLA) e umano (HLA) hanno tipicamente una omologia di circa il 75% a livello di sequenza amminoacidica ed hanno una struttura tridimensionale molto simile [10].

Rigetto cellulo-mediato dello xenotrapianto

Come nell’allotrapianto, anche uno xenotrapianto può attivare una risposta cellulo-mediata in aggiunta ad una potente risposta umorale. È stato infatti dimostrato che sia le cellule dell’immunità innata sia quelle della immunità adattativa possono causare un danno ai tessuti ed agli organi xenogenici, spesso a causa dell’esistenza di diverse incompatibilità molecolari recettoriali tra specie e della conseguente disregolazione dei segnali di attivazione/inibizione che governano finemente le cellule del sistema immunitario.

Nel caso dell’immunità innata è stato ad esempio dimostrato che le cellule NK infiltrano rapidamente xenotrapianti suini perfusi ex vivo con sangue umano.  L’attivazione dei recettori NKp44 or NKG2D delle cellule NK umane da parte di ligandi espressi sulle cellule di maiale, quali ad esempio l’ULPB, associata al mancato riconoscimento delle molecole SLA-1 da parte dei recettori inibitori delle NK umane, porta alla lisi cellulo-mediata delle cellule di maiale. In un contesto xenogenico, inoltre, le cellule NK oltre a mediare l’ADCC interagiscono con i linfociti B della zona marginale della milza mediante l’interazione tra CD40 e CD154, e stimolano la produzione di anticorpi xenoreattivi con un meccanismo linfocita T-indipendente [12].

Un ruolo fondamentale nel rigetto di uno xenotrapianto è rivestito dai monociti e macrofagi che consentono l’attivazione e il reclutamento dei linfociti T CD4+ e CD8+ ed esercitano la loro attività fagocitica. Anche in questo caso la mancata compatibilità tra il recettore inibitore dei macrofagi umani SIRP-α ed il CD47 sulle cellule di maiale favorisce l’attività fagocitica dei macrofagi [13].

Anche le cellule T sono coinvolte nel rigetto di uno xenotrapianto. L’analisi istologica di organi di maiale trapiantati nel primate non umano e rigettati spesso evidenzia infiltrati di cellule T CD4+ e CD8+ associati a monociti/macrofagi, cellule B e NK. Analogamente al contesto allogenico, le cellule T dell’uomo possono reagire contro le cellule di maiale riconoscendo direttamente le molecole SLA o possono riconoscere indirettamente gli xenoantigeni processati presentati dall’MHC-self. Il riconoscimento dell’antigene in un contesto xenogenico per via indiretta da parte dei linfociti T CD4+ risulta essere più vigoroso rispetto al contesto allogenico, probabilmente a causa del maggior numero di xenoantigeni presentati dalle antigen presenting cells (APC) umane [14]. Inoltre, è stato riportato che i principali epitopi xenogenici riconosciuti indirettamente dalle cellule T sulle APC umane sono antigeni derivati dalle molecole SLA di classe I [14]. È stato anche dimostrato che particolari alleli SLA sono in grado di indurre una risposta cellulare molto elevata. Allo stesso modo, soggetti con particolari configurazioni alleliche HLA sono risultati “strong responders” verso cellule di maiale [15]. Questi dati sottolineano che un’accurata selezione del donatore e del ricevente è importante per proteggere l’organo trapiantato non solo dalla risposta umorale ma anche da quella cellulo-mediata.

Complessivamente, i dati ottenuti in vitro e in vivo sottolineano in maniera incontrovertibile l’esistenza di una vigorosa risposta T-mediata verso organi xenotrapiantati che deve essere controllata con farmaci immunosoppressori convenzionali o attraverso il blocco delle molecole co-stimolatorie. In particolare, l’approccio maggiormente perseguito è il blocco della via di attivazione CD40-CD154, mediante anticorpi monoclonali anti-CD40 o anti-CD154, che risulta essere efficace anche nel prevenire la risposta anticorpale linfocita T-dipendente.

b) Fisiologia

La sperimentazione condotta in modelli clinicamente rilevanti suggerisce che gli organi di maiale sono sufficientemente simili a quelli umani da poterne soddisfare le necessità fisiologiche e funzionali. Esistono tuttavia delle differenze fisiologiche che vanno approfondite al fine di permettere una possibile applicazione clinica di successo.

È esperienza di tutti i gruppi di ricerca che la sopravvivenza di un organo xeno-trapiantato nel modello maiale-primate sia gravemente limitata da una alterata regolazione della cascata della coagulazione, spesso associata a trombosi [16, 17]. Le cause sono essenzialmente riconducibili a: attivazione delle cellule endoteliali dell’organo che assumono un profilo pro-coagulante; espressione del Fattore Tissutale sulle piastrine del ricevente indotta dalle cellule endoteliali di maiale; incompatibilità molecolari che impediscono a molecole anticoagulanti endoteliali del maiale di controllare adeguatamente fattori della coagulazione del primate. A tal proposito è stato dimostrato che: la molecola Tissue Factor Pathway Inhibitor (TFPI) di maiale non blocca efficientemente il complesso TF/Fattore VIIa umano; la trombomodulina di maiale lega la trombina umana ma non permette un’attivazione adeguata della proteina C umana; il Fattore di von Willebrand suino contribuisce all’eccessiva attivazione della coagulazione e trombosi nel primate. L’alterata regolazione della coagulazione porta in molti casi allo sviluppo di microangiopatia trombotica con perdita dell’organo, si associa frequentemente a coagulopatia da consumo con sanguinamenti importanti e non sembra dipendere solamente dalla risposta anticorpo mediata [18].

Focalizzando l’attenzione sugli aspetti anatomici, il rene di maiale ha la stessa organizzazione del rene umano ma possiede un minor numero di nefroni ed un numero ridotto di nefroni con ansa di Henle lunga [19]. Conseguentemente, rispetto all’uomo, i reni di maiale hanno una ridotta capacità di concentrare l’urina. Tuttavia il rene di maiale è in grado di mantenere gli elettroliti principali (compresi sodio, potassio e cloro) in un range fisiologicamente normale [20]. La velocità di filtrazione glomerulare (GFR) ed il flusso ematico renale sono sostanzialmente sovrapponibili tra uomo e maiale, così come è paragonabile la proteinuria tra le due specie. Rimangono tuttavia delle differenze tra maiale e primate. Ad esempio, l’osmolalità delle urine è più bassa nel maiale. Allo stesso modo vi sono delle differenze considerevoli a livello dei mediatori ormonali che regolano la funzionalità renale nelle due specie, il cui impatto reale nell’uomo potrà essere definitivamente chiarito solo dopo i primi trial clinici. In particolare: (i) l’angiotensinogeno umano non sembra essere un substrato ottimale per la renina prodotta dal rene di maiale e resta quindi da definire l’efficienza del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) dopo uno xenotrapianto; (ii) l’ormone antidiuretico umano (ADH) è strutturalmente diverso da quello suino e risulta meno potente verso i recettori presenti sull’organo di maiale. Questo potrebbe portare ad una diminuzione nel riassorbimento dell’acqua e a una ridotta capacità di concentrare le urine dopo uno xenotrapianto; (iii) sebbene molto simile a quella umana, l’eritropoietina renale del maiale non sembra essere in grado di stimolare adeguatamente l’eritropoiesi nel primate, cosa che potrebbe spiegare l’anemia sistematicamente osservata dopo xenotrapianto di rene nel primate non umano [21, 22]. Il pH ematico è simile tra uomo e maiale. Tuttavia, resta ancora da chiarire la capacità del rene di maiale di espellere i fosfati e l’impatto del rene di maiale sui meccanismi di regolazione dei livelli del calcio e del fosfato.

c) Biosicurezza dello xenotrapianto

Come nell’allotrapianto, anche lo xenotrapianto è associato al rischio di infezioni legato all’impiego di terapie immunosoppressive, che prevengono il rigetto ma che abbassano anche le difese immunologiche del soggetto trapiantato nei confronti delle infezioni. In questo caso però, oltre alle infezioni comuni causate da patogeni nell’uomo (quali ad esempio il virus citomegalico (CMV) o il virus di Epstein-Barr (EBV) umani), vi è anche il rischio potenziale di trasmissione di infezioni di origine suina.

Al momento, i patogeni che potrebbero essere problematici in ambito xenogenico sono: (i) quelli che rimangono in forma latente a livello intracellulare in un soggetto asintomatico come il citomegalovirus di maiale (pCMV), l’herpes virus linfotropico di maiale (PHLV), il virus dell’epatite E (HEV) e i retrovirus endogeni del maiale (Porcine Endogenous RetroVirus o PERV); (ii) eventuali microrganismi ancora ignoti che pertanto richiedono un continuo monitoraggio post trapianto [23].

Il pCMV e il PHLV sono due herpes virus con capacità di infettare le cellule umane. L’infezione da pCMV può causare nell’organo trapiantato una attivazione endoteliale e una coagulopatia sistemica e può portare a rigetto dello xenotrapianto, mentre i PHLV potrebbero causare linfomi nell’ospite infettato. Sino ad oggi infezioni da pCMV erano state riportate solo in modelli preclinici nei quali la loro presenza era stata dimostrata essere inequivocabilmente correlata con una ridotta sopravvivenza di uno xenotrapianto [2426]. Recentemente è stata riportata un’inaspettata infezione da pCMV nel paziente ricevente un cuore di maiale nella sperimentazione clinica condotta dall’Università di Maryland, il cui impatto sarà fonte di ulteriori approfondimenti [27].

Per quanto riguarda i PERV, ne esistono 3 sottotipi: il PERV-A, PERV-B e PERV-C. I PERV- A e -B hanno un tropismo per le cellule umane, mentre il PERV-C non è in grado di infettare le cellule umane. Il PERV-C può però permettere la formazione della variante ricombinante PERV-A/C che è in grado di infettare le cellule umane e replicarsi in maniera maggiore del PERV-A [28]. Tuttavia, è importante sottolineare che a tutt’oggi non esistono evidenze di infezioni da PERV sia in modelli preclinici maiale-primate non umano che nei recenti studi clinici [2932].

È degno di nota che molti dei patogeni potenzialmente presenti negli animali donatori possono essere eliminati. In particolare, recentemente è stato possibile generare una linea di maiali nei quali i PERV sono stati inattivati grazie all’applicazione della tecnica di editing genomico CRISPR/Cas9 [3335]. In ogni caso, sebbene il rischio di trasmissione all’uomo di infezione attraverso uno xenotrapianto appaia oggi molto limitato, esso deve comunque essere contenuto al massimo. A questo scopo è necessaria anche una minuziosa sorveglianza microbiologica degli animali donatori cresciuti in allevamenti barrierati, i cosiddetti animali “designated pathogen-free” (DPF). Questa designazione è riservata a maiali saggiati per una lista di potenziali patogeni umani e suini che sono stati esclusi dall’allevamento. Inoltre, le misure di sicurezza dello xenotrapianto devono prevedere il monitoraggio rigoroso e per tutta la vita dei riceventi di uno xenotrapianto (e preferibilmente dei loro contatti stretti), la raccolta di campioni da archiviare in biobanche per possibili indagini retrospettive, nonché lo sviluppo e validazione di test PCR quantitativi altamente sensibili per valutare la possibile presenza virus porcini nelle cellule umane.

 

Ingegnerizzazione dell’animale donatore ideale per uno xenotrapianto

Da quanto sopra esposto è evidente che l’immunità naturale e adattiva, così come l’infiammazione e le deregolazioni della coagulazione, sono tutti fattori che possono contribuire alla perdita prematura di uno xenotrapianto di maiale nell’uomo. Di conseguenza gli esperti del settore sono convinti che diversi approcci dovranno essere necessariamente applicati in maniera sinergica per contrastare i vari meccanismi immunitari e non coinvolti in questo processo [36]. In particolare, a questo punto si pensa che una sopravvivenza a lungo tempo di uno xenotrapianto potrà essere possibile solo con l’impiego di agenti immunosoppressori diretti contro l’attivazione del complemento e contro la risposta T e B, possibilmente in combinazione con nuove linee di suini transgenici knock-out e knock-in per diversi geni umani (Tabella 1). Molteplici studi in vitro e in vivo hanno dimostrato in maniera convincente che ad oggi la miglior fonte di organi di maiale per lo xenotrapianto deve prima di tutto essere priva degli epitopi zuccherini maggiormente riconosciuti dalla risposta immunitaria anticorpale. Questo è reso possibile attraverso l’ingegnerizzazione di linee di maiali GalTKO/ CMAHKO/ β4GalNT2KO. Inoltre, la linea donatrice dovrà esprimere una o più molecole regolatorie della cascata del complemento umano (hCD46, hCD55, hCD59), una o più molecole regolatorie della cascata della coagulazione (trombomodulina e recettore della proteina C endoteliale [EPCR]), e preferibilmente anche molecole umane anti-infiammatorie/anti-apoptotiche (hHO-1, hA20). In aggiunta appare preferibile che l’animale donatore sia transgenico per molecole in grado di modulare l’attività fagocitica dei macrofagi (quali hCD47). Infine, per poter contrastare la crescita dell’organo di maiale dopo il trapianto, è stata suggerita un’ulteriore manipolazione genetica in grado di silenziare il gene del recettore dell’ormone della crescita (GH-KO). È degno di nota che organi con queste caratteristiche sono già stati utilizzati nei recenti xenotrapianti nell’uomo eseguiti in Alabama e nel Maryland [27, 32].

Data l’evidenza che le molecole SLA di classe I e II possono costituire un bersaglio per l’immunità umorale e cellulare dell’uomo, sono in corso diversi tentativi sperimentali per eliminare tali antigeni dagli organi di maiali donatori [37, 38].

Infine, alla luce di quanto spiegato sopra, è chiaro che l’ingegnerizzazione del donatore potrà anche contribuire ad aumentare i livelli di sicurezza dello xenotrapianto.

Ingegnerizzazione Applicazione in clinica
Obiettivo Tipo Xeno-rene

([31])

Xeno-rene

( [32])

Xeno-cuore

([27])

Rimozione di determinanti antigenici
α1,3-galactosiltransferasi (GALT) Knock-out
Idrossilasi CMP-Neu5Ac (CMAH) Knock-out
β1,4 N-acetilgalactosaminil transferasi (β4GalNT2) Knock-out
Regolazione della cascata del complemento
CD46 umano Transgene
CD55 umano Transgene
CD59 umano Transgene
Regolazione della cascata della coagulazione
Inibitore del fattore tissutale umano (TFPI) Transgene
Trombomodulina umana Transgene
Recettore endoteliale della proteina C umana Transgene
CD39 umano Transgene
Regolazione della infiammazione e dell’apoptosi
A20 umano Transgene
Emeossigenasi-1 (HO-1) umano Transgene
Controllo della fagocitosi
CD47 umano Transgene
SIRPα umano Transgene
Controllo della risposta cellulo-mediata
MHC-Classe I (MHC-I-KO) Knock-out
FAS ligand (CD95L) umano Transgene
Prevenzione dell’infezione da PERV
Geni PERV Knock-out
Regolazione della crescita dell’organo
Recettore dell’ormone della crescita Knock-out
Tabella 1: Ingegnerizzazione di linee di maiali per possibili applicazioni pre-cliniche e cliniche dello xenotrapianto

  

Primi trials clinici e selezione dei candidati per procedure di xenotrapianto

Una volta identificato ed ottenuto il donatore ottimale per una applicazione clinica dello xenotrapianto, rimane da stabilire quali pazienti possano essere eticamente selezionati per i primi trials clinici [39, 40]. Nel caso del trapianto di rene, alcuni ricercatori hanno proposto che i candidati ideali per uno xenotrapianto potrebbero essere quei pazienti in lista d’attesa per un allotrapianto con ridotta aspettativa di vita (inferiore ai 2 anni) i quali difficilmente potrebbero ricevere un organo da donatore umano. In questo caso i pazienti in attesa di un trapianto di rene sono i candidati ideali, in quanto, a differenza dei pazienti in attesa di un cuore, l’organo trapiantato potrebbe essere rimosso qualora si registrasse insufficienza d’organo, o sviluppo di infezioni con necessità di interruzione della terapia immunosoppressiva. In questo caso, infatti, il paziente potrebbe tornare in dialisi ed essere mantenuto in vita. Altri hanno proposto che possibili candidati potrebbero anche essere pazienti in età avanzata e condizioni fisiche accettabili, per i quali si prevede una lunga permanenza in lista d’attesa. Questi soggetti potrebbero voler prendere in considerazione lo xenotrapianto renale al fine di migliorare la propria qualità di vita, senza le restrizioni imposte dalla dialisi cronica mentre sono in attesa di un allotrapianto. Altra categoria di pazienti potenzialmente candidabili per i primi xenotrapianti di reni è costituita da coloro i quali hanno una alta probabilità di ricorrenza di malattia in caso di un possibile allotrapianto, ma non nel caso dello xenotrapianto, come la glomerulopatia da C3 o la nefropatia da IgA [41, 42].

Infine, meritano particolare attenzione i pazienti iperimmunizzati di qualsiasi età con alti livelli di anticorpi anti-HLA (PRA superiore al 99%), per i quali la probabilità di avere accesso a un allotrapianto è praticamente nulla. In questo caso i possibili candidati allo xenotrapianto saranno coloro nei quali gli anticorpi anti-HLA non cross-reagiscono con gli antigeni SLA del maiale donatore. Naturalmente il maiale ideale in questo caso è rappresentato dall’animale ingegnerizzato privo di molecole SLA.

 

Recenti risultati preclinici ed avvio degli studi clinici nello xenotrapianto di rene

Come precedentemente riportato, lo xenotrapianto di rene rappresenta la procedura più appropriata per l’inizio della sperimentazione clinica nell’uomo. Questa affermazione risulta anche sostenuta dai risultati favorevoli ottenuti di recente sia in ambito preclinico nel primate non umano che nell’uomo.

La più lunga sopravvivenza di uno xenotrapianto di rene di maiale salvavita in un primate non umano riportata in letteratura è di 499 giorni [43]. Tale risultato è stato possibile mediante l’applicazione sinergica di strategie innovative atte a controllare sia l’immunità umorale che la risposta T cellulo-mediata. Inoltre i reni xenotrapiantati sono stati ottenuti da maiali GalTKO transgenici per la molecola regolatrice del complemento hDAF (CD55). I macachi rhesus riceventi sono stati selezionati tra quelli con titoli più bassi di anticorpi anti-donatore preformati mediante cross-match donatore/ricevente. La terapia di induzione prevedeva l’utilizzo di un anticorpo monoclonale anti-CD4, mentre la terapia di mantenimento consisteva nella inibizione del pathway costimolatore CD40-CD154 mediante l’impiego di un anticorpo monoclonale anti-CD154 in combinazione con micofenolato mofetile e steroidi. Questi risultati enfatizzano l’importante ruolo delle cellule T-CD4+ nel rigetto dello xenotrapianto di rene e ribadiscono la necessità di utilizzare inibitori delle molecole co-stimolatorie nella terapia immunosoppressiva dopo xenotrapianto.

Alla luce di questi studi preclinici molto incoraggianti è stato autorizzato negli Stati Uniti l’avvio delle prime applicazioni nell’uomo dello xenotrapianto di rene. Sino ad oggi sono stati riportati in letteratura tre casi di soggetti in stato di morte cerebrale, ma con conservate funzioni cardiovascolari, che hanno ricevuto uno xenotrapianto di rene. In due casi sono stati trapiantati un rene da maiale GTKO che comprendeva anche tessuto timico del maiale con l’obiettivo di modulare la risposta T-cellulare [31]. La terapia immunosoppressiva è stata fatta utilizzando micofenolato mofetile e metilprednisolone. La sperimentazione è durata 54 ore, dopo di che l’organo è stato espiantato. Per tutta la durata della sperimentazione i reni xenotrapiantati sono rimasti ben perfusi, la filtrazione glomerulare è aumentata ed hanno continuato a produrre abbondanti quantità di urina; i livelli di creatinina si sono ridotti, senza comparsa di proteinuria. L’analisi istologica ha escluso la presenza di rigetto anticorpo- o cellulo-mediato, anche se in un caso sono stati evidenziati depositi focali di C4d. In aggiunta non è stato evidenziato alcun segnale di deregolazione della cascata della coagulazione.

Questi risultati sono stati in parte replicati da un secondo gruppo di ricerca [32]. In questo caso, una volta accertata la morte celebrale, il paziente è stato nefrectomizzato e sono stati trapiantati entrambi i reni ottenuti da un maiale ingegnerizzato con 10 modifiche genetiche (riportate nella Tabella 1). La sperimentazione è stata condotta per 74 ore durante le quali la funzionalità renale è stata mantenuta in termini di produzione di urina anche se la clearance della creatinina non è migliorata. Istologicamente sin dall’inizio si è osservata una microangiopatia trombotica di grado moderato che non è progredita nel tempo e che non era associata a depositi di anticorpi, di complemento o a rigetto cellulo-mediato.

A questo punto è importante sottolineare che in entrambi questi studi, che si sono avvalsi di maiali donatori con alto profilo di sicurezza (DPF) associato a monitoraggio microbiologico assiduo del ricevente, non c’è stata nessuna evidenza di trasmissione di infezione all’uomo, in particolare da PERV.

Nonostante il breve periodo di follow-up legato alla particolare condizione sperimentale utilizzata, questi studi fanno ben sperare che organi appropriatamente ingegnerizzati in combinazione con un adeguato protocollo immunosoppressivo siano in grado di svolgere le normali funzioni fisiologiche di un rene in vista di una più ampia applicazione clinica futura.

 

Conclusioni

La carenza cronica di organi, cellule e tessuti umani per la cura di malati, unita al loro sempre più crescente fabbisogno, ha dato un grosso impulso alla ricerca di fonti alternative di organi. In quest’ambito lo xenotrapianto rappresenta una delle vie correntemente esplorate dai ricercatori. In particolare, grazie alla sua somiglianza anatomica e fisiologica con l’uomo, alla sua crescita veloce e ad aspetti economici ed etici, il maiale è stato individuato come la specie più promettente per una possibile applicazione clinica dello xenotrapianto.

Una migliore comprensione dei meccanismi immunitari responsabili del rigetto di uno xenotrapianto ha permesso di ottenere animali ingegnerizzati maggiormente compatibili con l’uomo e lo sviluppo di nuove terapie immunosoppressive. Allo stesso modo è stato possibile generare animali in grado di superare alcune incompatibilità fisiologiche tra maiale e primate, e con un aumentato profilo di sicurezza.

Questi progressi hanno permesso di prolungare significativamente la sopravvivenza di xenotrapianti di maiale nel primate non umano e hanno consentito l’avvio prudente di sperimentazioni cliniche nell’uomo fino ad oggi ritenute impossibili.

 

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The history of renal transplantation in France

Abstract

The history of renal transplantation in France began with 2 surgeons from Lyon, M. Jaboulay and A. Carrel. The latter initiated the proper techniques of vascular suture, performed the first experiments in animals, initially in Lyon, then in Chicago with C. Guthrie and demonstrated that failure in obtaining a prolonged success was due to an immunological rejection of the graft. Trials in humans began in France in the 1950s with transplants from healthy donors. All ended in failure, although in 1953 the conjunction of a donor mother and a previous irradiation of the recipient allowed a survival of 3 weeks in the patient. J. Hamburger in France and J. Murray in the USA tried transplantations in monozygotic twins, then dizygotic ones, which represented the first successes. A decisive jump occurred with the arrival of immunosuppressors (combination of azathioprine and prednisone) which allowed R. Küss to win the first success in recipients that were unrelated to their donors. At the same time, J. Dausset described the Human Leucocyte Antigen (HLA) groups, markers of tissular immunogenicity, thus allowing the most appropriate donors to be selected. To the living donors were added soon the patients in irreversible coma, which made it possible to increase the number of grafts. Despite obstacles and doubts, kidney transplantation developed rapidly and was accepted as the most efficient treatment of chronic renal failure. The role of French and American physicians was decisive in this success.

Keywords: transplantation, kidney, history

The early beginnings

Organ transplantation is an old idea. It is not easy to say with precision where and by whom the first trials were realized. It is reported that Saint Cosmo and Saint Damian grafted a Moorish leg to replace the necrotic leg of a patient, an event that was considered to be a miracle. In the sixteenth century, Gaspare Tagliacozzi successfully performed autografts of the nose but failed in the allografts (1). The eighteenth century saw the development of unsuccessful animal graft experiments. The pioneers of renal transplantation in France were two surgeons in Lyon: Mathieu Jaboulay (1860-1913) and Alexis Carrel (1873-1944). Mathieu Jaboulay implemented on the dog an original process of non-stenosing arterial suture with separate U-shaped points after interposition or not of an arterial fragment (2). He tried in 1906 the xenograft of a pig kidney and then of a goat kidney to the bend of the elbow of two women with renal insufficiency (3). It was a failure, but it showed the feasibility of the technique. Alexis Carrel developed the end-to-end vascular suture techniques that are still widely used in transplantation. This was published in the “Journal de médecine de Lyon” (4, 5). In 1906, he moved to the USA where he worked with Charles Guthrie in Chicago. Both of them realized organ transplantations in animals and published a number of scientific articles where they described the successive improvements of their techniques of vascular anastomoses. They demonstrated for the first time that a vein could be substituted to an artery and reported their experiments of organ transplantations (6, 7). Their main conclusion was that using appropriate techniques of vascular suture, autografts were most of the time successful in animals whereas homografts never were. Alexis Carrel wrote at this time: “From a clinical standpoint, the transplantation of organs may become important and may open new fields in biology and therapy” (8). He was awarded the Nobel prize in 1912 “in recognition of his work on the vascular suture and the transplantation of blood cells and organs”, He accepted in 1908 a position at the Rockfeller Institute in New York where he stayed until 1939. He realized the first fully functional renal self-transplantation on a bitch and was the first to study the chemical composition of the urine from the transplant, to describe the histology of the rejected kidney showing “an important infiltration of small round cells around the vessels and the collecting ducts”, to hypothesize the responsibility of the spleen and the bone marrow in the production of antibodies and to suggest utilization of irradiation to diminish the immune capacity of the leukocytes (6, 9). He concluded that: “an animal which has undergone a double nephrectomy and the grafting of both kidneys from another animal can secrete almost normal urine with his new organs, and live in good health, at least for a few weeks. This demonstrates that it is possible to reestablish efficiently the functions of transplanted kidneys” (9). Alexis Carrel can be considered as the main pioneer of renal transplantation. He was also at the origin of tissue culture. He returned to France in 1939. Unfortunately, the end of his life was clouded by the defense of eugenism in his book “L’Homme, cet inconnu (Man, this unknown)”.

 

Unsuccessful attempts of renal transplantation in man in France (1950-1952)

The first homograft of a human kidney in man was performed by Yuri Voronoy (1895-1961) in 1936 in Kiev (10). He transplanted in the thigh of a uremic patient a kidney from a healthy man who had died in an accident. The transplant did not function and the recipient died 2 days later. Human kidney transplantations started in France in the fifties. From 1950 to 1952 almost ten renal transplantations were performed after removal of a kidney from guillotined criminals immediately after their execution or from patients in whom a kidney had to be removed for therapeutic reasons. Several teams were active: René Küss (Paris), Charles Dubost (Paris), Marcel Servelle (Strasbourg). Early failures occurred in each case, but these trials allowed progress in the surgical technique to be realized. In particular, René Küss described the ideal heterotopic position of the grafted kidney in the iliac fossa with anastomosis of the renal vein to the iliac vein, of the renal artery to the hypogastric artery and of the ureter to the bladder. These unsuccessful trials were published in the “Mémoires de l’Académie de Chirurgie” in 1951 (11-13). These failures did not discourage French surgeons and nephrologists, and in 1952, Jean Hamburger and Louis Michon performed the graft of one kidney of his mother in a young man whose the only kidney had been removed after a fall from a ladder. For the first time a survival of 3 weeks was observed (14). This intervention was widely reported by the media and had a worldwide impact. It showed that the main problem to be solved remained the immunological rejection of the graft as written by the authors: “After the 17th day of the transplant, no complication disturbed evolution; but the satisfaction that was derived from this observation was followed by the most intense anxiety six days later due to the sudden arrest of the transplanted kidney”. The challenge did not seem achievable at that time as evidenced by this 1955 citation of David Hume: “In the present state of our knowledge, renal homotransplatation does not seem to be justified in the treatment of human diseases” (15). There were two approaches to address this difficult issue: to find a donor the most genetically related to the recipient, to treat the recipient so as to attenuate and, if possible, control the reject of the graft.

 

The first successes

The three main pioneers of successful renal transplantation in France were a nephrologist, Jean Hamburger, an urologist, René Küss and an immunologist, Jean Dausset. They addressed the main problem still unresolved that was the immunological rejection of the graft.

 

Jean Hamburger (1909-1992), after having been the assistant of Louis Pasteur Vallery-Radot at Broussais Hospital, created the first department of nephrology in France at Necker Hospital in Paris (Figure 1). His main collaborators were Gabriel Richet, Jean Crosnier and Jean-Louis Funck-Brentano. He was the first president of the International Society of Nephrology and chaired the first International Congress of Nephrology (Evian and Geneva, 1960). In addition to his scientific achievements, he was a writer and published several books on the human fate, in particular “La Puissance et la fragilité: Essai sur les métamorphoses de la médecine et de l’homme (Power and fragility: An essay on the metamorphoses of medicine and man)”. His achievements in the progress of renal transplantation are numerous and were inspired by his conviction that “The great destiny of man is to refuse his destiny”. He succeeded in diminishing the immune rejection with total body irradiation of the recipient and matching the HLA characteristics of the donor and of the recipient. As mentioned above, he was the first to realize a transplant from a mother to her son with a survival of 3 weeks and was the second (5 months after Joseph Murray) to obtain a successful transplant between dizygotic twins genetically different (rejection of a skin graft from the donor by the recipient, dissimilar blood groups) after sub-lethal irradiation and isolation in a sterile room (16). The recipient died 26 years later from a bladder carcinoma. This was followed by a successful transplant from a cousin that was rejected 18 years later, which necessitated a second transplant. The recipient was still living 32 years after the first transplant. In 1964, he transplanted a cadaver kidney in a patient who lived more than 25 years. He also demonstrated the successful treatment of acute rejection (15 days after surgery) with prednisone. In 1965, Jean Hamburger drew conclusions from the review of his first 45 transplantations (17). He found that 29 of them were in a satisfactory condition after 6 months with a normal blood pressure and a mean glomerular filtration rate of 73 ml/min. Cellular infiltration was visible in all renal biopsy specimens, but tended to diminish later. Glomerular lesions and progressive interstitial fibrosis were observed more rarely. In late crises, even if biopsy specimens showed gross oedema and cellular infiltration, a satisfactory reversal could be obtained. As a whole, one could be optimistic on the future of renal transplantation.

 

René Küss (1913-2006) was head of the department of urology in “La Pitié” Hospital in Paris (Figure 2). His main collaborator was Marcel Legrain, head of the department of nephrology in the same hospital. Their purpose was to realize successful transplantation between unrelated persons. The results obtained by Joseph Murray and Jean Hamburger in dizygotic twins left a persistent doubt about the possible role of an induction of this tolerance by an exchange of cells during the intra-uterine life. The answer to this question was given by René Küss and Marcel Legrain who realized in 1960 at Foch Hospital, for the first time, three successful renal grafts outside of gemellarity, once between brother and sister and twice without any kinship. These successes were due to the efficacy of the conditioning with an immunosuppressive treatment including 6-mercaptopurine and prednisone (18). The grafts functioned for 5, 17 and 18 months, respectively, and were followed by other successful grafts between unrelated donors and recipients (19). Therefore, total body irradiation was no longer needed. René Küss was awarded the Medawar Prize in 2002 for his contribution to kidney transplantation. This prize was simultaneously attributed to Georges Mathé who was the first to realize bone marrow transplantations and participated in the first successful attempts by René Küss.

 

Jean Dausset (1916-2009) was head of the department of hemato-immunology at St Louis Hospital in Paris (Figure 3). He was appointed later professor at the “Collège de France”, which represents the highest distinction for researchers working in all fields of knowledge. He was the first to describe the HLA system of leucocyte and tissue groups which enables the selection of donors, in a series of publications between 1952 and 1963 (20, 21). His main collaborator was Jean Colombani. He was awarded the Nobel prize in 1980 for the discovery of the HLA groups. He created «France transplant»  in 1970 allowing the rapid transfer of a kidney from a donor with a compatible HLA group. Before him, Peter Medawar in UK had performed a series of skin homografts in rabbits in 1944. If he recognized the immunological nature of the rejections, he limited his observations to histological morphology (22). However, some years later, he inoculated intrauterine fetuses with spleen cells of a donor mouse to induce chimerism, which resulted in the acceptance of grafts of the donor by the chimeric mice. Therefore, he could conclude that homograft rejection was not obligatory. This discovery earned Peter Medawar the Nobel prize in 1966 (22).

Progresses in renal transplantation have also to be attributed in France to other researchers than Jean Hamburger, René Küss and Jean Dausset and the teams working with them. In 1959, Pierre Mollaret and Maurice Goulon defined a new entity, the irreversible coma, (“le coma dépassé”) in patients without any cerebral activity who were maintained in artificial survival by artificial breathing and whose hearts were still beating. Kidneys were removed from these patients after agreement of their family and successfully transplanted with results similar to those obtained with transplantations from related donors. Their studies were at the origin of a new stage in renal transplantation allowing their number to be greatly increased (23). To diminish the immune reaction was also the preoccupation of French teams. Jules Traeger and Jean Perrin proposed lymphocyte depletion by cannulation of the thoracic duct. The collected lymphocytes were utilized to prepare an anti-lymphocyte serum which found a place next to the couple azathioprine – prednisone (24). This treatment was quickly abandoned because of its side effects. It is the precursor of the use of monoclonal antibodies.

 

What did occur simultaneously in USA?

In parallel with the studies carried out in France, the United States were actively participating in this race towards the development of effective and well-tolerated renal transplants. In 1950, Richard Lawler (1896-1982) working in Chicago performed an intra-abdominal cadaveric renal transplant in a patient with polycystic renal disease after removal of one of his kidneys that functioned for 53 days (25). David Hume (1917-1973) working in Boston realized nine kidney transplantations between 1951 and 1953. The donors were patients who had died after surgery. Except in one case, the grafted kidneys were placed in the thigh and the ureter brought to the skin. Four kidneys only functioned, briefly for three of them, but for almost 6 months for the latter (26).The first real success was obtained in 1954 by Joseph Murray (1917-2012) with a graft between monozygotic twins. The recipient died 25 years later (27). This was followed in 1959 by 2 successful grafts between dizygotic twins after radiotherapy that were performed in collaboration with John Merrill (1917-1984) (28), but grafts between unrelated persons were rejected (29). Success was soon obtained by conditioning the recipient with azathioprine. Using this drug alone allowed Joseph Murray to win a first long-term success in 1962 (30). Chemical immunosuppression, then used by the different teams, too happy to abandon irradiation, contributed greatly to the development of renal transplantation. One year later, Thoma Starzl exhibited previously unmatched results relating the efficacy of azathioprine and cortisone (31).

 

Conclusion

In spite of all these progresses, everybody was not convinced of the future of renal transplantation at that time, even the most famous immunologists. Frank Macfarlane Burnett (Australia) was awarded the Nobel prize in 1960 for his works on immune tolerance and clonal selection. In a review entitled “The new approach to immunology” he wrote: “Much thought has been given to ways by which tissues or organs not genetically and antigenically identical with the patient might to be made to survive and function in the alien environment. On the whole, the present outlook is highly unfavorable to success…” (32). For this reason, we must be particularly grateful to the French and American medical doctors who persisted despite their failures in pursuing their quest for a successful renal transplant. The best conclusion is given by Thomas Starzl, who wrote in 1990: “These events and subsequent ones could not have transpired in the way they did without French pioneers, Hamburger the physician and Küss the surgeon, and their friends in Boston whose vision was greater than that given to most men and women. Workers in the two cities founded a clinical discipline where none existed before and then persisted despite allegations of folly or worse. The French successes with kidney transplantation over the three-year period from 1959 through early 1962 kept the flames alive when all other efforts were failing” (33).

 

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