La punzione della fistola arterovenosa in presenza di stent: precauzioni, rischi e possibilità

Abstract

Una corretta gestione e interventi di manutenzione ad hoc costituiscono due momenti fondamentali per garantire un uso duraturo della fistola arterovenosa (FAV). Il fallimento della FAV può essere dovuto a diverse cause, tra queste la stenosi è quella più frequente. Il trattamento delle complicanze può avvalersi di tecniche diverse, ma le più utilizzate oggi sono le procedure endovascolari per via percutanea. Oltre all’angioplastica (PTA), la possibilità di utilizzare gli stent e in particolare gli stentgraft (SG) ha contribuito a migliorare ulteriormente i risultati. Tuttavia, l’inserimento di questi dispositivi comporta l’impegno di un tratto di vaso più o meno lungo, per cui l’indicazione richiede un’attenta valutazione.

Il posizionamento di uno stentgraft limita infatti lo spazio per l’inserimento degli aghi e d’altra parte l’incannulamento del device è da scheda tecnica off label: il presente lavoro affronta il problema della punzione di questi dispositivi. Insieme ad una rapida overview, viene descritto un caso clinico di punzione continuativa di una FAV pluristentata, per oltre 9 anni, che lascia spazio alla discussione sulla possibilità di incannulare per lungo tempo questi device attraverso una corretta pianificazione.

Parole chiave: stent, stentgraft, incannulamento, fistola arterovenosa

Introduzione

A distanza di quasi 60 anni dalla sua ideazione, l’accesso vascolare di prima scelta per la dialisi resta la fistola arterovenosa nativa (FAV), nonostante vi siano oggi indicazioni a una maggiore personalizzazione. Accanto ai noti vantaggi rispetto ai cateteri venosi centrali (CVC), le FAV richiedono tuttavia non raramente interventi di revisione per il mantenimento della pervietà.  La causa di queste problematiche, nella maggior parte dei casi è da ricondurre alla presenza di una stenosi significativa sul decorso della vena arterializzata, che determina una progressiva riduzione del flusso e una possibile evoluzione verso la trombosi. Le tecniche che, a discrezione dell’operatore, possono essere utilizzate per il mantenimento o il recupero della pervietà possono essere quelle chirurgiche “open” o quelle percutanee endovascolari [13]. Negli ultimi anni, per la minore invasività e i buoni risultati, il ricorso a queste ultime è aumentato, con un ruolo anche dei nefrologi interventisti [4]. L’angioplastica transluminale (PTA) è diventata ormai il trattamento di prima linea con cui, a seconda della sede e delle caratteristiche della stenosi, è possibile ottenere subito un buon risultato e continuare ad usare l’accesso: tuttavia le recidive sono frequenti in tempi variabili [5] e la risposta alla PTA non è sempre soddisfacente. È noto, inoltre, che la PTA esercita un barotrauma sul vaso e un danno endoteliale che favorisce ulteriormente l’iperplasia neointimale che sottende la stenosi. L’utilizzo della PTA con palloni medicati, che rilasciano farmaci antiproliferativi nella parete vascolare sede di stenosi (DEB), ha mostrato alcuni vantaggi sul rischio di restenosi [6]. Senza dubbio però gli stent, introdotti a partire dagli anni ‘90, hanno rappresentato una svolta nel trattamento della stenosi e di altre lesioni come gli pseudoaneurismi.

 

Caratteristiche degli stent e indicazioni d’uso per l’accesso vascolare

Gli stent endovascolari sono strutture simil tubulari che forniscono un supporto endoluminale meccanico alla parete vasale. Vengono distinti in Bare Metal Stent (BMS), stent in nitinolo, e stent graft (SG) o stent ricoperti. I BMS, primi ad essere utilizzati, erano costruiti in acciaio inossidabile, ma presentavano limiti importanti, soprattutto la rigidità e le modifiche di alcune caratteristiche al momento del dispiegamento, nonché possibili distorsioni quando posizionati in punti di angolatura del vaso.  Per ovviare a questi problemi sono stati sviluppati gli stent in nitinolo (nickel-titanium alloy), noti come SMART (Shape Memory Alloy Recoverable Technology) che hanno la caratteristica di espandersi fino ad un prederminato diametro alla temperatura corporea (shape memory) [7]. Tuttavia, anche questi device presentano dei limiti, primo fra tutti la recidiva di stenosi intrastent da iperplasia neointimale, dovuta alla migrazione di cellule endoteliali e muscolari lisce attraverso le fenestrature dello stent. Gli stentgraft sono stati progettati proprio per limitare questo problema: essi sono costituiti da uno stent metallico ricoperto di dacron o PTFE che offre una completa copertura della parete venosa con l’esclusione del tessuto neo intimale al di fuori del lume; questa caratteristica, tuttavia, non esclude del tutto la possibilità di una recidiva, in particolare alle estremità (edge stenosis) [8].

Alcuni lavori hanno dimostrato che l’impiego degli SG nel trattamento delle stenosi migliora la sopravvivenza dell’accesso, sia negli accessi protesici che nei vasi venosi centrali, riportando una pervietà primaria significativamente superiore rispetto alla PTA [911]; una metanalisi recente condotta su 4 trial randomizzati controllati conferma questo dato [12].

Oltre al trattamento delle stenosi che non rispondono in maniera soddisfacente alla PTA (stenosi residua persistente superiore al 50%) e delle re-stenosi precoci (prima dei tre mesi), altre indicazioni degli SG sono la riparazione di rotture di vaso in corso di procedure endovascolari e il trattamento di aneurismi e di pseudoaneurismi nei siti di venipuntura delle fistole native e protesiche [8]. Sono riportate in letteratura diverse esperienze preliminari in cui il loro utilizzo si è dimostrato un’efficace alternativa nella riparazione di pseudoaneurismi da venipuntura rispetto alla correzione chirurgica o all’abbandono dell’accesso [13, 14]. Le linee guida specificano che gli stentgraft andrebbero posizionati in casi selezionati ed evitando i siti di venipuntura per preservare l’uso dell’accesso [15].

Pur essendo il posizionamento dello stentgraft una competenza dell’angioradiologo o del chirurgo vascolare, il nefrologo dovrebbe condividere l’indicazione al posizionamento e conoscere le implicanze sulla strategia di incannulamento della FAV [16]. Infatti, anche se lo stenting è caratterizzato da una minore invasività e maggiore rapidità procedurale rispetto alla chirurgia, esso pone il problema della perdita di un tratto di vaso sfruttabile dal punto di vista chirurgico, per esempio una prossimalizzazione [17], e della potenziale perdita di spazio a disposizione per inserire gli aghi.

 

Il problema dell’incannulamento degli stentgraft

Gli SG attualmente in commercio non sono da scheda tecnica idonei all’incannulamento; essi sono più sottili e meno robusti rispetto ai BMS e il materiale metallico dello scaffold può frammentarsi ed estrudere dopo ripetute punzioni con aghi di grosso calibro. La puntura reiterata è una pratica off label sulla quale le esperienze in letteratura sono limitate e controverse.

Mentre alcuni lavori, pur non riportando esiti negativi, non si esprimono a favore dell’incannulamento [13], altri raccomandano di non incannulare gli SG, descrivendo le possibili complicanze [1719]. Mallios riporta il 30% di complicanze infettive con SG posizionati in siti di venipuntura di FAV brachiocefaliche [17]. Vesely documenta come la puntura reiterata provochi la rottura delle maglie di nitinol costituenti l’armatura con protrusione dei filamenti all’interno del lume del vaso, evento che può ostacolare il flusso dell’accesso ed innescare un processo trombotico [14]. I filamenti possono protrudere anche verso l’esterno, attraversando la cute, con possibili conseguenze per gli operatori (puntura accidentale, estrusione di materiale infetto) e per il paziente (infezione da corpo estraneo nel sito di protrusione) con eventuali ripercussioni anche di tipo medico-legale [19].

In letteratura sull’argomento è possibile trovare solo case report e piccole casistiche, che descrivono casi di pseudoaneurismi dei siti di incannulamento corretti attraverso il posizionamento di stentgraft. Il lavoro di Niyyar e altri più recenti riportano esperienze negative con accessi protesici sottoposti a stenting e successivo incannulamento [17, 20].  Non mancano tuttavia esperienze positive con venipunture ripetute che hanno permesso di continuare ad utilizzare accessi che altrimenti sarebbero stati abbandonati [21]. Ryan et al. descrivono già nel 2003 quattro casi in cui lo SG (Wallgraft) veniva utilizzato per l’intera lunghezza dell’accesso vascolare allo scopo di correggere pseudoaneurismi da venipuntura ad area; lo stentgraft veniva poi incannulato di routine in assenza di recidive pseudoaneurismatiche e con un’ottima pervietà primaria [22]. Rhodes et al. nel 2005 sottoponevano a venipuntura routinaria 6 SG (Wallgraft) concludendo che il dispositivo poteva resistere all’incannulamento reiterato senza distorsione o rotture che limitassero il flusso dell’accesso [23]. Più recentemente, lo studio retrospettivo di Bavare descrive 12 casi di FAV native trattate con lunghi segmenti di stentgraft allo scopo di recuperare tratti trombizzati, o in altri casi correggere stenosi determinanti problemi di maturazione della FAV. L’incannulamento dello SG era ritenuto in questi casi rescue per accessi che altrimenti sarebbero stati abbandonati. Sulla base dei risultati, gli autori avevano proposto un algoritmo di salvataggio che passando attraverso PTA ripetute per ottenere la maturazione o il recupero dell’accesso, terminava con il posizionamento di SG anche di lunghezza considerevole.  Questa operazione, altra possibile indicazione degli SG per le situazioni di primary non maturation, trasformava un accesso altrimenti inutilizzabile in quello che gli autori definivano con il termine di stentula [24].

Infine, nello studio prospettico di Drouven erano stati inclusi 11 pazienti (5 con protesi e 6 con FAV native), in cui il 72% degli SG erano posizionati per recidiva stenotica e il 18% per una trombosi acuta. Tutti gli 11 pazienti ricevevano due aghi per trattamento dialitico, 5 con entrambi gli aghi nel device (45,5%), gli altri 6 con uno solo (54,5%). Il tempo medio per l’incannulamento dello SG era di 13 giorni. Nei pazienti con un fallimento del PTFE l’incannulamento era ritardato per minimizzare i rischi di pseudoaneurisma o di bleeding persistente. Le immagini a disposizione mostravano i dispositivi integri dopo diversi mesi di punzione [25]. Infatti, qualora sia necessario incannulare uno SG, diversi lavori in letteratura suggeriscono di attendere 2-4 settimane dal posizionamento, periodo necessario perché una risposta infiammatoria promuova l’ispessimento di parete del vaso e dei tessuti in contatto con il segmento stentato e l’incorporamento del materiale del graft nel tessuto sottocutaneo [26]. Lo sviluppo di tessuto denso sottocutaneo, infatti, inibirebbe il bleeding perivasale e il sanguinamento alla rimozione degli aghi [23, 27]. Il timing per l’eventuale incannulamento dello SG dopo l’inserimento dipende anche dalle indicazioni d’uso e dal tempo di riassorbimento dell’eventuale trombo; in caso di esclusione di un aneurisma, per esempio, è prudente aspettare fino ad un mese contro pochi giorni nel caso di trattamento di una stenosi [26].

 

Un caso istruttivo di punzione di stentgraft

Nella nostra esperienza il ricorso all’utilizzo degli SG è consolidato grazie ad una stretta collaborazione con il Servizio di Radiologia Interventistica presente in sede. L’indicazione più frequente è la stenosi dell’arco cefalico, tuttavia sempre più spesso gli SG sono utilizzati in altre sedi in caso di recidive stenotiche o di pseudoaneurismi.  In alcuni casi, nonostante si cerchi sempre di evitarla, la punzione del dispositivo diventa inevitabile.

A questo riguardo riportiamo il caso di una paziente affetta da nefropatia policistica sottoposta a confezionamento di FAV omero cefalica dx all’età di 63 anni. A distanza di 16 mesi dal confezionamento e nell’arco di 5 anni e mezzo la paziente è stata sottoposta a numerose procedure angioradiologiche di PTA e di posizionamento di SG che, nel tempo, hanno occupato l’intera lunghezza del vaso, dalla piega del gomito fino all’arco cefalico (Figura 1).

Figura 1: FAV omerocefalica con completo stenting (Stentula).
Figura 1: FAV omerocefalica con completo stenting (Stentula).

Il primo intervento è stata la correzione contemporanea di una stenosi post-anastomotica e dell’arco cefalico con PTA, seguita 5 mesi dopo dall’inserimento di uno SG nel tratto intermedio. Successivamente, la strategia totalmente endovascolare, ogni volta discussa collegialmente, è stata il risultato di un susseguirsi di stenosi e recidive stenotiche nei diversi segmenti della FAV. L’alternativa chirurgica con apposizione di bridge protesici non è stata ritenuta vantaggiosa, in questo caso particolare, anche se deve essere sempre tenuta in conto come possibile soluzione. A distanza di 5 anni dal confezionamento dell’accesso, dopo il posizionamento di un altro SG nell’ultimo tratto di FAV libera, l’incannulamento avveniva esclusivamente negli stentgraft. Questa modalità, è stata proseguita fino ad oggi, e a distanza di 14 anni dal confezionamento di fatto la paziente dializza attraverso la sua FAV pluristentata.

Nel corso degli anni la sorveglianza dell’accesso ha consentito di programmare interventi di manutenzione anche se, a causa di complicanze ostruttive, è stato necessario ricorrere al posizionamento di due CVC temporanei in vena femorale e un CVC tunnellizzato per brevi periodi. Si è potuto portare avanti un programma di trattamento dialitico notturno di 6 ore con aghi 17G senza difficoltà particolari nell’utilizzo dell’accesso, se non una maggiore resistenza all’introduzione dell’ago. Ai fini di una maggiore attenzione alla rotazione dei punti di infissione degli aghi, si sono dimostrati più efficaci la messa a disposizione di materiale iconografico bedside sull’anatomia dell’accesso e le indicazioni precise per la rotazione, piuttosto che una generica raccomandazione fatta inizialmente. Purtroppo, difatti, questa spesso cade disattesa esitando più frequentemente nella punzione ad area della FAV [28]. Ciò è accaduto almeno per il periodo iniziale anche nella nostra paziente, e probabilmente ha contribuito allo sviluppo di una parte delle complicanze (per es. piccoli pseudoaneurismi) (Figura 2) che hanno richiesto un successivo inserimento di stentgraft.

Figura 2: pseudoaneurisma sul decorso della FAV con stentgraft.
Figura 2: pseudoaneurisma sul decorso della FAV con stentgraft.

 

Conclusioni

Gli stent sono device molto utili per il mantenimento delle pervietà degli accesi vascolari dialitici. Il loro utilizzo risente dei diversi ambiti lavorativi e dell’esperienza personale, non ultimo della collaborazione/disponibilità di esperti in tecniche endovascolari. Il caso descritto non ha la finalità di voler privilegiare una soluzione endovascolare piuttosto che chirurgica nel salvataggio dell’accesso, ma di richiamare l’attenzione sulle corrette modalità operative in presenza di una FAV pluristentata.  Per le indicazioni e la corretta gestione occorre un confronto puntuale tra gli specialisti dell’accesso vascolare e gli infermieri di dialisi. Se i primi sono le figure che concordano le indicazioni, è l’utilizzatore finale, cioè l’infermiere, che deve essere informato correttamente e tempestivamente della sede dello stenting e della modalità di utilizzo. Identificare con precisione sulla cute le aree da evitare, quando possibile, e pianificare una sistematica rotazione delle sedi di punzione, qualora questa debba comprendere il dispositivo, rappresentano punti fondamentale per ottenere buoni risultati [22]. Inoltre, la punzione con tecnica ecoassistita può rivelarsi utile per ridurre le complicanze e allo stesso tempo per ottenere un regolare monitoraggio strumentale bedside [25]. Se tutto viene correttamente pianificato, questa procedura, benché ancora off label, può rappresentare una valida opzione rescue utilizzabile per anni.

 

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Ultrasonografia vascolare nell’allestimento e nella sorveglianza della fistola artero-venosa: esperienza monocentrica

Abstract

L’incremento dell’età media dei pazienti che iniziano il trattamento emodialitico cronico e la maggiore prevalenza tra gli stessi di patologie ad elevato impatto sul sistema cardio-vascolare, determinano maggiori difficoltà nell’allestire una fistola artero-venosa (FAV).

La scelta dei vasi da utilizzare per il confezionamento dell’accesso vascolare per dialisi è avvenuta in passato essenzialmente attraverso l’esame obiettivo degli arti superiori. Le linee guida internazionali attualmente suggeriscono l’esecuzione di un ecocolordoppler (ECD) a completamento dell’esame fisico in tutti i pazienti candidati al confezionamento di una FAV. L’esame ultrasonografico vascolare costituisce altresì in fase post-operatoria un momento fondamentale per un’adeguata sorveglianza dell’accesso.

Nel nostro Centro abbiamo condotto un’analisi retrospettiva finalizzata ad analizzare, se e in quali termini, l’utilizzo dell’ECD nella pratica clinica abbia avuto delle ripercussioni sulla sopravvivenza degli accessi vascolari.

Sono stati a tal proposito individuati tre periodi storici, in relazione alla modalità di esecuzione della valutazione vascolare pre-intervento e della sorveglianza della FAV che ha visto, nelle tre fasi osservate, la progressiva integrazione dei parametri clinici con quelli ultrasonografici.

L’analisi dei dati ha evidenziato una migliore sopravvivenza statisticamente significativa per tutti gli accessi vascolari valutati cumulativamente e per le FAV distali nella terza fase rispetto alle precedenti, nonostante una percentuale di pazienti over 75 maggiore in quest’ultimo periodo (48% versus 28%).

In conclusione, riteniamo che l’approccio integrato, clinico ed ultrasonografico, sia indispensabile per identificare il sito più idoneo per il confezionamento di un accesso vascolare e per garantirne una buona funzionalità nel tempo.

Parole chiave: emodialisi, fistola arterovenosa, ecocolordoppler, monitoraggio, accesso vascolare

Introduzione

Un trattamento emodialitico adeguato necessita di un accesso vascolare ben funzionante nel tempo.

I pazienti affetti da insufficienza renale cronica (CKD) al IV° stadio (eGFR <30 ml/min), devono pertanto essere accuratamente studiati al fine di poter avviare il trattamento sostitutivo con un accesso vascolare idoneo [1].

I dati della letteratura e le linee guida internazionali in merito indicano la fistola artero-venosa (FAV), allestita con vasi nativi, quale accesso di prima scelta per un minore rischio d’infezione e trombosi, una migliore sopravvivenza, minori costi correlati alla necessità di ospedalizzazione se paragonati alla FAV protesica o al catetere venoso centrale tunnellizato (CVCt) [2].

Nei pazienti affetti da CKD il corretto utilizzo del patrimonio vascolare degli arti superiori costituisce un momento fondamentale ai fini del futuro confezionamento di una FAV. L’attuale incremento dell’età media dei pazienti a inizio trattamento emodialitico cronico e la maggiore prevalenza negli stessi di patologie ad elevato impatto sul sistema cardio-vascolare (diabete mellito, angiosclerosi, arteriopatia obliterante polidistrettuale), determinano maggiori difficoltà nell’allestire una FAV che garantisca buona efficienza dialitica e sufficiente durata nel tempo [3].

Tra le FAV native, il gold standard è rappresentato dalla FAV radio-cefalica distale con anastomosi a livello del polso: essa è associata ad un minor rischio sindrome di steal [4] e, al contrario di una FAV prossimale (omero-cefalica; omero-basilica), raramente sviluppa una elevata portata, causa non trascurabile di scompenso cardiaco nei pazienti uremici.

Basile et al. in uno studio prospettico hanno analizzato il rapporto tra Qa FAV ed output cardiaco e concludevano che una portata uguale o maggiore a 2000 ml/min rappresenta il giusto cut-off nel predire il rischio di scompenso cardiaco cronico ad alta gittata [5].

La FAV distale non è sempre proponibile e può andare incontro a scarsa maturazione e a conseguente fallimento, tuttavia la sua realizzazione, ove possibile, permette un più corretto utilizzo del patrimonio vascolare del singolo paziente e la possibilità per il medesimo di poter usufruire dell’eventuale confezionamento nel tempo di ulteriori accessi che richiedano l’utilizzo di vasi posti in sede più prossimale.

Altra tipologia di accesso vascolare che può essere considerato prima del confezionamento di una FAV prossimale è quella mid-arm, con l’utilizzo del tratto prossimale dell’arteria radiale. Essa è caratterizzata da una portata inferiore rispetto alla prima, ed in genere è ben tollerata anche nei pazienti anziani, diabetici o con vasculopatia periferica [6].

La scelta dei vasi da utilizzare per il confezionamento dell’accesso vascolare per dialisi è avvenuta in passato essenzialmente attraverso l’esame obiettivo degli arti superiori: un attento esame fisico ed anamnestico permette di raccogliere alcune importanti informazioni sul circolo venoso superficiale e sul circolo arterioso:

  • palpabilità delle vene superficiali, valutazione del loro calibro e decorso
  • palpabilità dei polsi arteriosi
  • presenza di cicatrici chirurgiche o aree di distrofia cutanea
  • presenza di pace-maker (PM)
  • pregressi traumi/fratture o interventi chirurgici a carico degli arti superiori o precedenti accessi vascolari
  • storia di pregressi posizionamenti di CVC
  • segni di pregressa reiterata venipuntura, segni di tromboflebite in atto o pregressa
  • presenza di comorbidità rilevanti (scompenso cardiaco, grave valvulopatia, cardiopatia ischemica, patologie della coagulazione).

Le linee guida internazionali attualmente suggeriscono l’esecuzione di un ecocolordoppler (ECD), a completamento dell’esame fisico, in tutti i pazienti candidati al confezionamento di una FAV. Esso consente, in fase preoperatoria, la scelta dei vasi più idonei all’intervento e, in fase post-operatoria, rappresenta un momento fondamentale per un’adeguata sorveglianza dell’accesso e la diagnosi precoce di eventuali cause di malfunzionamento suscettibili di correzione [7].

L’ECD fornisce, infatti, numerose e dettagliate informazioni sul circolo venoso superficiale e profondo e sul circolo arterioso dell’intero arto superiore, consente altresì valutazioni emodinamiche e morfologiche permettendo di identificare eventuali varianti anatomiche.

Lo studio vascolare pre-intervento effettuato di routine ha permesso di incrementare negli anni la percentuale di FAV confezionate con vasi nativi a scapito della FAV protesiche, nonché di migliorare la sopravvivenza nel tempo, attraverso una più adeguata sorveglianza e la identificazione precoce delle complicanze [89].

Il mapping artero-venoso pre intervento fa riferimento ai parametri di seguito riportati:

  1. Parametri arteriosi (Fig.1):
  • diametro dell’arteria radiale: un diametro minimo di 2 mm è stato correlato ad una elevata percentuale di pervietà primaria ad un anno (83%) [10]
  • spessore e qualità intima-media: l’incremento dello stesso correla con un peggior outcome della FAV [11]
  • flusso/compliance vascolare nel test dell’iperemia reattiva: un valore dell’indice di resistenza (IR) >0,7 in fase di iperemia reattiva è correlato ad un fallimento precoce dell’accesso vascolare [12]
  • presenza di calcificazioni vascolari
  • presenza di lesioni steno-ostruttive
Figura 1: Parametri arteriosi
Figura 1: Parametri arteriosi
  1. Parametri venosi (Fig.2):
  • pervietà del vaso e struttura di parete: lume anecogeno, comprimibilità del vaso, parete sottile
  • diametro e distensibilità della vena cefalica: 2 mm senza elastocompressione, 2,5 mm con elastocompressione [13]
  • profondità: <6 mm rispetto al piano cutaneo, al fine di consentire un’agevole venipuntura
  • decorso: deve essere sufficientemente rettilineo
  • presenza di circoli collaterali a meno di 5 cm dall’anastomosi [14].
Figura 2: Parametri venosi
Figura 2: Parametri venosi

Una FAV si definisce matura quando il diametro venoso permette la venipuntura con aghi di grosso calibro e la portata raggiunge i 600 ml/min, il diametro del vaso 6 mm, con un decorso del vaso a non più di 6 mm di profondità rispetto al piano cutaneo.

Appare auspicabile che i pazienti in emodialisi siano sottoposti ad una regolare sorveglianza dell’accesso vascolare, finalizzata alla diagnosi precoce delle cause di malfunzionamento dell’accesso. In particolare, l’identificazione di stenosi emodinamicamente significative (riduzione maggiore del 50% del lume vasale) e la valutazione del trend della portata dell’accesso, incrementano in modo significativo il tasso di pervietà riducendo di conseguenza l’incidenza di trombosi della FAV [15].

In merito alla sorveglianza degli accessi vascolari, i metodi di screening per la ricerca di stenosi significative sono stati suddivisi in quelli di I e II generazione [16]:

  1. Metodi di I generazione:
  • il monitoraggio fisico
  • vigilanza della pressione FAV (valutazione di pressione venosa dinamica, intra accesso e statica)
  • test del ricircolo
  • riduzione dell’efficienza dialitica (riduzione kt/v ed URR).
  1. Metodi di II generazione, permettono di calcolare la portata dell’accesso:
  • screening diluzionale
  • ECD.

La misurazione della portata a livello dell’arteria brachiale al di sopra del gomito tramite ECD rappresenta il miglior modo per sorvegliare una FAV; una portata <500 ml/min o una sua riduzione progressiva nel tempo sono altamente predittive di stenosi [1].

La trombosi, di fatto, rappresenta quasi sempre una causa di fallimento tardivo, con innumerevoli conseguenze cliniche negative, che determinano un incremento della frequenza di ospedalizzazione e della spesa sanitaria, nonché della morbidità e mortalità dei pazienti in emodialisi cronica [17].

 

Materiali e metodi

Nel nostro Centro abbiamo condotto un’analisi retrospettiva finalizzata ad analizzare se ed in quali termini l’utilizzo dell’ECD nella pratica clinica in ambito nefrologico abbia avuto delle ripercussioni sulla sopravvivenza degli accessi vascolari.

Sono stati a tal proposito individuati tre periodi storici (Tab. I), in relazione alla modalità di esecuzione nel Centro di:

  • valutazione vascolare pre-intervento
  • sorveglianza della FAV.
Pre-intervento Sorveglianza
2000-2004:
  • esame fisico
  • eventuale flebografia
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD (se presente indicazione clinica, ma non in ambito nefrologico)
2005-2009:
  • esame fisico
  • avvio mapping vascolare in ambito nefrologico
  • monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • inizio uso ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
2010-2015:
  • esame fisico
  • mapping vascolare di routine in ambito nefrologico
  •  monitoraggio clinico
  • test del ricircolo, scadimento efficienza dialitica
  • ECD per ricerca stenosi e misurazione portata:
    • ogni 90 giorni per le FAV protesiche
    • su indicazione clinica per le FAV native
    • ad un mese da procedure interventistiche e successivamente ogni 6 mesi
Tabella I: Tre fasi storiche in relazione alla modalità di esecuzione di valutazione vascolare pre-intervento e di sorveglianza della FAV

Sono stati altresì definiti i parametri cui fare riferimento tanto per la fase di studio pre-operatoria, quanto per quella di sorveglianza (Tab. II).

Riferimenti nella fase di pre-intervento: Riferimenti nella fase di sorveglianza:
Esame fisico:

Presenza e consistenza dei polsi arteriosi (brachiale, radiale, ulnare)

Valutazione del reticolo venoso superficiale con elastocompressione: palpabilità, e decorso dei vasi

Monitoraggio clinico:

Presenza e trasmissione del thrill, prolungato sanguinamento a fine dialisi, difficoltà al posizionamento degli aghi

Flebografia:

Valutazione pervietà e calibro dei vasi venosi scarsamente palpabili

Parametri dialitici:

Test ricircolo urea >10%, scadimento trend della efficienza dialitica (riduzione dello 0.2 Kt/v)

Mapping Vascolare:

–        Arteria: calibro della a. radiale uguale o maggiore di 2 mm, profilo velocimetrico trifasico, test iperemia reattiva IR uguale e inferiore a 0.7

–        Vena: pervietà del vaso ed integrità di parete, calibro maggiore o uguale a 2.5 mm con elastocompressione (avambraccio), calibro uguale o maggiore di 4 mm per protesi

Parametri ultrasonografici:

Portata inferiore a 500 ml/min, trend con riduzione maggiore del 25%

Riscontro di aree di stenosi superiori al 50% (PSV > 400 cm/s o PSV ratio >2)

Tabella II: Parametri di riferimento

Tecnica chirurgica

Le FAV con vasi nativi sono state tutte confezionate in anestesia locale (ropivacaina 7.5%) con anastomosi latero-terminale per le FAV distali e prossimali, e latero-laterale o latero-terminale per le FAV mid-arm, con lunghezza del tratto anastomotico 5-7 mm.

Le FAV protesiche tutte in politetrafluoroetilene (PTFE), coniche 4-7 mm (gore-tex STRETCH), sono state confezionate in anestesia plessica (levobupivacaina 2%, ropivacaina 5%) con conformazione a loop fra arteria omerale e vena basilica, o conformazione retta fra arteria omerale e vena omerale o ascellare.

Dopo il primo anno di collaborazione con il chirurgo, tutti gli accessi sono stati eseguiti da equipe nefrologica.

Tecnica ultrasonografica

Al fine di decidere l’arto da utilizzare ed il tipo di accesso da confezionare, il nefrologo ha eseguito ECD usando sonda lineare L4-15 mHz eseguendo scansioni longitudinali e trasversali dei vasi esaminati con utilizzo del doppler pulsato per le valutazioni velocimetriche, facendo riferimento ai parametri specificati nella Tab. II.

Il numero dei pazienti prevalenti, compresi i pazienti incidenti, nei tre periodi considerati è stato di 130 ±6 pazienti, con una percentuale di CVCt che è gradualmente aumentata: 13% nel primo periodo, 18% nel a secondo periodo 22% nel a terzo periodo.

Al fine di prevenire il fallimento precoce dell’accesso, tutti i pazienti sottoposti ad intervento di confezionamento di FAV hanno avviato terapia antiaggregante (acido acetilsalicilico 100 mg) salvo quelli che eseguivano terapia con anticoagulante orali per altre motivazioni cliniche [18].

Metodo statistico

Per l’analisi statistica sono state utilizzate le curve di sopravvivenza secondo Kaplan-Meier al fine di valutare le differenze nei tre periodi osservati. Il livello di significatività definito come p <0.05.

 

Risultati

La sopravvivenza cumulativa degli accessi vascolari nei tre periodi osservati è apparsa migliore nel terzo periodo di osservazione in modo statisticamente significativo (P <0.05) rispetto ai precedenti (Fig. 3).

Figura 3: FAV totali
Figura 3: FAV totali

È stata successivamente condotta una analisi statistica specifica mirata alla valutazione della sopravvivenza di ciascuna tipologia di accesso realizzato nei tre periodi. L’analisi dei dati ha evidenziato per la FAV distale una migliore sopravvivenza, statisticamente significativa (p< 0.05), nella 3° coorte rispetto alle prime due (Fig. 4).

Figura 4: FAV distale
Figura 4: FAV distale

Per la FAV mid-arm, confezionata in due dei tre periodi osservati, si è evidenziata una migliore sopravvivenza nel terzo rispetto al secondo periodo, ma senza significatività statistica (Fig. 5).

Figura 5: FAV mid-arm
Figura 5: FAV mid-arm

Per la FAV prossimale si è osservato un trend di miglior sopravvivenza nella 3° coorte rispetto alle prime due, ma anche in questo caso senza significatività statistica (Fig.6).

Figura 6: FAV prossimale
Figura 6: FAV prossimale

Per la FAV protesica sono state osservate minime differenze nei tre periodi osservati prive di rilevanza statisticamente significativa (Fig.7).

Figura 7: FAV protesica
Figura 7: FAV protesica

È stata inoltre effettuata una analisi per valutare le caratteristiche anagrafiche della popolazione inclusa nei tre periodi osservati. A dispetto della migliore sopravvivenza degli accessi nella terza coorte dei pazienti, essa ha evidenziato un progressivo incremento percentuale delle FAV confezionate nei soggetti over 75 dal primo periodo (28,3%) al terzo periodo (47,9%) (Fig. 8).

Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75
Figura 8: Numero di pazienti e numero di accessi in pazienti over 75

A completare l’analisi dei dati, è stata effettuata una valutazione sull’incidenza dei fallimenti precoci, considerata a 30 giorni dal confezionamento dell’accesso, che ha evidenziato un tasso di incidenza con trend in riduzione, dal 12,8% del primo periodo al 5,5% e 6,7% rispettivamente del secondo e terzo periodo.

 

Discussione

Pur con i limiti dello studio retrospettivo, l’analisi dei risultati evidenzia un miglioramento degli outcomes clinici in termini di pervietà globale dopo l’introduzione in ambito nefrologico della tecnica ultrasonografica in fase di progettazione e sorveglianza dell’accesso vascolare, e la sua integrazione con il monitoraggio clinico, dato peraltro ampiamente confermato in letteratura [19-20].

Nei tre periodi considerati la percentuale di pazienti diabetici (25-30%) ed obesi (8-10%) era sovrapponibile, pertanto i risultati non appaiono influenzati in modo significativo da tali variabili.

È al contrario evidente che il supporto ultrasonografico risulta fondamentale al fine incrementare il numero di FAV confezionate nel paziente anziano, essendo il dato percentuale delle FAV realizzate nel paziente over 75 incrementato dal 28% del primo periodo, al 48% del terzo periodo. Aspetto quest’ultimo non trascurabile se si considera che l’utilizzo del CVCt quale accesso definitivo per emodialisi è correlato ad un maggiore morbilità e mortalità del paziente uremico [17].

Di fatto, la sola età anagrafica non può costituire un limite al confezionamento di una FAV nel paziente anziano da avviare alla terapia dialitica [21].

L’analisi eseguita in relazione alla singola tipologia di FAV ha posto in evidenza un risultato chiaramente significativo in termini di sopravvivenza a favore delle fistole confezionate con vasi nativi. Nella fattispecie, il dato è apparso statisticamente significativo per le fistole radio-cefaliche, ma ha mostrato un trend in miglioramento anche per le fistole mid-arm e prossimali.

È altrettanto vero che nei tre periodi considerati, si è registrata una riduzione percentuale delle FAV radio-cefaliche rispetto al totale delle FAV realizzate, dal 57% della prima coorte, al 44% della seconda fino al 37% della terza. Tale aspetto è tuttavia essenzialmente da riferire alla realizzazione nel secondo e nel terzo periodo delle FAV mid-arm, tipologia di accesso in precedenza non confezionato, che ha determinato una riduzione percentuale anche della FAV prossimali. Il dato è sostanzialmente da riferire al metodico studio preoperatorio ed alla scelta del sito reputato più idoneo per il confezionamento dell’accesso che, in una popolazione con elevata percentuale di anziani, ha favorito l’utilizzo di vasi in sede più prossimale rispetto al polso ma ha anche permesso di utilizzare in modo adeguato ed efficace il tratto intermedio del braccio, prima di optare per il confezionamento di una FAV prossimale [22].

Non vi è stata alcuna variazione significativa, nei tre periodi considerati, della sopravvivenza delle FAV di tipo protesico, la cui percentuale nei tre intervalli ha registrato leggero progressivo incremento come numero assoluto. Tuttavia per tale tipologia di accesso è possibile evidenziare un miglioramento della sopravvivenza nella seconda e terza coorte rispetto alla prima a 12 e 24 mesi, ma peggiore a 36 mesi.

Il dato non appare di semplice interpretazione, pur con i limiti dovuti alla modesta numerosità del campione esaminato, un adeguato mapping vascolare preoperatorio è sembrato importante al fine di ridurre il tasso di insuccessi precoci, come per altro dimostrato in letteratura [16]. La sopravvivenza peggiorativa a distanza sembra invece ridimensionare il valore del controllo strumentale della FAV protesica, nei confronti della quale, nel nostro pool di pazienti, è stato effettuato un metodico controllo ECD con cadenza trimestrale, avvalorando in modo indiretto il concetto del ruolo di primo piano del monitoraggio clinico nell’ambito della sorveglianza dell’accesso vascolare per emodialisi [23].

Il numero di procedure interventistiche è progressivamente aumentato: dalle 31 eseguite nel primo periodo alle 36 nel secondo periodo fino a raggiungere le 52 nel terzo periodo. L’incremento di tali procedure, che tuttavia è apparsa contenuta in termini assoluti, conduce a nostro parere a due riflessioni: da una parte l’innegabile ruolo dell’ECD nell’identificazione precoce di lesioni stenotiche correggibili per via endovascolare, dall’altra, la necessità di ottimizzare il programma di sorveglianza strumentale, senza tuttavia eccedere nell’indicazione allo studio angiografico.

Appare evidente che un’azione integrata, clinica ed ultrasonografica, sia indispensabile al fine di perseguire due fondamentali obiettivi: identificare il sito più idoneo per il confezionamento di un accesso vascolare e garantire una corretta sorveglianza finalizzata al mantenimento di una buona funzionalità della fistola nel tempo [924].

Alla luce di tali considerazioni e dell’esperienza da noi condotta, crediamo che un approccio multidisciplinare alla complessa problematica dell’accesso vascolare per emodialisi sia di fondamentale importanza: in tal senso in ambito nefrologico appare indispensabile la realizzazione di un settore specifico finalizzato alla valutazione ultrasonografica preoperatoria del paziente da indirizzare ad un programma di emodialisi, nonché alla sorveglianza dei pazienti medesimi nel tempo [25].

Il nefrologo dovrebbe costituire il riferimento clinico del team multidisciplinare, che vede coinvolti anche chirurghi vascolari, angioradiologi ed infermieri di dialisi ed in tal senso interagire con le figure menzionate e con esse decidere in merito alla creazione dell’accesso vascolare, alla gestione del medesimo ed alla risoluzione di eventuali problemi connessi al suo utilizzo.

Tale team multidisciplinare dovrebbe avere il compito fondamentate di definire il life-plan individuale del paziente con uremia terminale, nello specifico definire la sede e il timing di confezionamento dell’accesso vascolare nonché garantire l’adeguata sorveglianza nel tempo. Ogni scelta andrebbe effettuata in maniera prospettica tenendo presente che il paziente uremico nell’arco della sua storia dialitica potrebbe avere la necessità di confezionare più accessi [26].

Risulta a nostro parere importante acquisire e mantenere in ambito nefrologico le risorse umane e le competenze adeguate per poter garantire con continuità la realizzazione della FAV in tempi corretti e nel sito più idoneo, realizzando di fatto un primo livello clinico assistenziale sul tema specifico. Appare altresì fondamentale che tale attività sia coordinata con un secondo livello clinico assistenziale che vede attive le altre figure professionali coinvolte.

Chirurghi vascolari ed angioradiologi appaiono indispensabili per la risoluzione delle complicanze connesse all’utilizzo degli accessi vascolari nonché per la realizzazione di accessi complessi, ma estremamente importante è mantenere una costante attività di sorveglianza e collaborazione con infermieri della sala di dialisi che spesso costituisce la prima sede in cui è possibile verificare l’adeguato funzionamento dell’accesso vascolare o la eventuale presenza degli iniziali segni di malfunzionamento.

 

Conclusioni

In conclusione, crediamo di poter affermare che programmi formativi volti a consolidare le competenze di carattere ultrasonografico vascolare in ambito nefrologico possano essere rilevanti al fine di migliorare gli outcomes clinici della fistola artero-venosa per emodialisi.

Riteniamo anche che l’ausilio dell’ECD non possa in nessuna fase di cura sostituire l’importanza dell’esame fisico e della sorveglianza clinica che rimangono fondamentali per garantire una migliore sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti uremici.

È auspicabile altresì che ogni unità operativa di Nefrologia e Dialisi effettui un monitoraggio continuativo dei propri dati e che valuti nel tempo la sopravvivenza delle FAV e l’incidenza di complicanze ad esse correlate, al fine di poter al meglio modulare la strategia operativa, sempre nel rispetto delle linee guida di riferimento in merito.

  

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Appropriatezza del dispositivo di incannulazione nella gestione della FAV

Abstract

L’incannulazione della FAV in emodialisi utilizza un dispositivo notoriamente dannoso che inoltre espone l’operatore ad un elevato rischio di puntura accidentale. La decennale esperienza giapponese, che ha introdotto con un eccellente tasso di successo un nuovo dispositivo per l’incannulazione rappresentato da una cannula in plastica mandrinata, offre una interessante prospettiva da indagare.

L’obiettivo di questa revisione è verificare se siano descritti in letteratura dei vantaggi nell’utilizzo della cannula in plastica mandrinata in emodialisi rispetto all’ago tradizionale in metallo, in relazione al trauma vascolare meccanico ed emodinamico, adeguatezza del trattamento, comfort del paziente e sicurezza dell’operatore. Lo studio è stato condotto mediante ricerca, revisione e selezione di articoli scientifici attraverso motori di ricerca e riviste specializzate di settore.

Le peculiarità del dispositivo permettono di ampliare le possibilità attualmente esistenti nella pratica dell’incannulazione in emodialisi, producendo outcomes positivi per il paziente e l’operatore. Ciononostante, emerge necessità di ulteriori studi ed un aggiornamento del design del presidio.

Parole chiave: cannula per emodialisi, incannulazione dell’accesso vascolare, fistola arterovenosa

Introduzione

La fistola artero-venosa (FAV) autologa è a tutt’oggi considerata dalle più recenti linee guida di settore [1, 2], il gold standard tra gli accessi vascolari per il trattamento emodialitico, in rapporto al minor tasso di complicanze ed ai maggiori tempi di sopravvivenza. Ciononostante, la sua fragilità è sottolineata da possibili complicanze che possono emergere durante il processo di maturazione, o post-maturazione, spesso correlate all’infissione di aghi metallici [3].

Un’appropriata tecnica di incannulazione dovrebbe andare di pari passo con l’oculata scelta del device: il giusto ago per il giusto paziente. A tal proposito dovrebbero essere valutati bisogni e rischi individuali considerando le preferenze del paziente stesso, valorizzando in tal modo una presa in carico personalizzata e centralizzata, allo scopo di rafforzare la possibilità di raggiungere migliori outcomes in termini di sopravvivenza della FAV e comfort dell’assistito. Il processo di decisione dovrebbe quindi avvenire in discussione con il paziente, mediante una valutazione olistica dei suoi bisogni. Le linee guida 2018 della British Renal Society sui principi per una buona procedura di incannulazione [2] raccomandano come questa debba essere orientata a minimizzare il danno arrecato all’AV, le complicanze, il dolore e l’ansia correlati all’incannulazione.

 

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