HIF-ɑ: il nuovo target per il trattamento dell’anemia nella MRC. Aspetti molecolari della via di attivazione sequenze HREs

Abstract

Roxadustat è un inibitore reversibile della prolin-idrossilasi (PHD) del fattore inducibile dell’ipossia, somministrato per via orale, approvato recentemente in Italia per la sua sicurezza ed efficacia nel trattamento dell’anemia secondaria a malattia renale. Lo scopo di questo articolo è illustrare i principali meccanismi molecolari responsabili dell’attivazione dei geni HREs, che hanno catturato l’attenzione dei nefrologi.

Parole chiave: Roxadustat, EPO, HIF, fibrosi, infiammazione, stress ossidativo

Introduzione

Il fattore inducibile dell’ipossia (HIF), antico sistema biologico con lo scopo di proteggere l’organismo dai danni dell’ipossia acuta e cronica, è il regolatore chiave della risposta alle variazioni della pressione parziale dell’ossigeno nel sangue dei mammiferi [1]. L’omeostasi dell’ossigeno è fondamentale per il corretto sviluppo nelle varie fasi della vita: dalla gestazione intrauterina (una bassa tensione di ossigeno durante lo sviluppo embrionale e fetale è essenziale per processi come vasculogenesi e angiogenesi) alla vita adulta [2]. La proteina HIF è un fattore di trascrizione elica-loop-elica, molecola eterodimero costituita da una subunità ɑ ossigeno sensitiva e una subunità ß costitutiva chiamata anche idrocarburo arilico traslocatore nucleare del recettore (ARNT) [3]. L’attività di HIF-ɑ è direttamente regolata dal dominio strutturale della prolil-idrossilasi  (PHD), un enzima sensibile alle variazioni di ossigeno [4]. Sono stati identificati 3 isoforme di PHD: PHD1, PHD2, PHD3, e 3 di HIF-ɑ: HIF-1α (826 aa), HIF-2α (870 aa), HIF-3α (557 aa) e un solo sottotipo di HIF-β (789 aa) [5]. HIF-1α e HIF-2α presentano una similitudine del 85%.  

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Nefropatia cronica del trapianto: focus sul ruolo della microinfiammazione

Abstract

La nefropatia cronica del trapianto è una condizione patologica multifattoriale presente in una larga percentuale di reni trapiantati la cui comprensione è stata accelerala dall’estesa applicazione della biologia molecolare e dall’impiego della biopsia protocollare in molti centri nefro-trapiantologici. Grazie a queste innovazioni, si è compreso che questo processo può comparire molto precocemente nel post-trapianto e che la microinfiammazione parenchimale gioca un ruolo chiave. Molte condizioni patologiche, anche precoci (come il danno da ischemia/riperfusione, la presenza di rigetti cellulari e umorali, e le infezioni virali e batteriche) possono contribuire alla genesi della fibrosi renale. Da un punto di vista prettamente biologico, il danno cronico inflammatorio-mediato del graft è orchestrato da cellule immunitarie (principalmente macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) e cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi. Molti degli elementi chiave di questi pathway biologici potrebbero rappresentare in futuro ottimi bersagli terapeutici. Al momento, però, non esiste una terapia specifica per arginare questa condizione, ma appare evidente che l’impiego di una immunosoppressione sostenibile (utilizzo combinato di più farmaci alle più basse dosi possibili) e l’attenzione alle comorbidità (dedicando sufficiente tempo al follow-up clinico e incrementando il network multi-specialistico) sia la via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento della progressione delle lesioni croniche del graft e una sua maggiore sopravvivenza.

Parole chiave: Nefrologia, Trapianto renale, Microinfiammazione, Fibrosi, Immunosoppressione

Introduzione

Sebbene la sopravvivenza ad un anno del rene trapiantato sia significativamente migliorata, quella a lungo termine è ancora non ottimale con un’incidenza di perdita del graft dopo 15-20 anni di circa il 40-50% [1].

Per anni la genesi del danno cronico del rene trapiantato è stata attribuita principalmente agli inevitabili e cronici effetti nefrotossici degli inibitori della calcineurina (CNI, ciclosporina e tacrolimus). Questo assioma è stato ampiamente validato dallo Studio Symphony che ha sottolineato come l’utilizzo di basse dosi di CNI (principalmente tacrolimus) fosse associato ad una migliore sopravvivenza del graft a 3 anni [2]. Questi risultati avevano innescato nella comunità trapiantologica internazionale la tendenza a minimizzare la terapia immunosoppressiva (spesso anche in pazienti a maggiore rischio immunologico).

Tuttavia, negli ultimi anni, grazie all’utilizzo della biologia molecolare (in particolare delle scienze omiche) [3] e allo sviluppo di programmi di biopsie protocollari [4], si è compreso che questa strategia aveva importanti limitazioni e il danno cronico da CNI coinvolgeva un numero di pazienti meno ampio rispetto a quanto si pensasse in passato e non tendeva ad evolvere molto rapidamente [5]. Inoltre, si è chiarito che il danno cronico del graft può comparire anche molto precocemente nel post-trapianto e avere connotazioni fisiopatologiche molto complesse [6].

Infatti, la fibrosi del rene trapiantato (meglio definita come infiammazione interstiziale/atrofia tubulare, IF/TA) non rappresentava più una semplice “cicatrizzazione parenchimale”, ma un processo complesso, inevitabile, dinamico e progressivo indotto da molti fattori patologici e caratterizzata da un significativo rimodellamento dell’interstizio associato ad un’eccessiva produzione/deposizione di matrice fibrillare extracellulare (ECM) [7] con conseguente alterazione della normale architettura del tessuto renale e della microperfusione che portava allo sviluppo di insufficienza d’organo (fino all’end-stage renal disease).

L’IF/TA è diagnosticabile istologicamente in circa il 40% dei reni trapiantati 3-6 mesi dopo il trapianto [8, 9] e coinvolge circa il 65% degli organi a 2 anni [10].

Dati della letteratura hanno poi sottolineato che questa condizione ha un drammatico impatto sull’outcome. Infatti, la sopravvivenza del trapianto a 10 anni è del 90-95% nei pazienti con istologia normale, dell’80-85% nei pazienti con IF/TA (senza vasculopatia) e del 40-45% nei pazienti che sviluppano IF/TA associata a vasculopatia [4].

In questo contesto fisiopatologico, inoltre, la microinfiammazione dell’organo svolge un ruolo chiave e può contribuire ad accelerare lo sviluppo delle lesioni parenchimali croniche e del danno funzionale dell’organo trapiantato [11]. L’infiammazione nelle aree cicatriziali/fibrotiche è stata ampiamente riconosciuta dalla classificazione Banff che ha coniato il termine di IF/TA con infiammazione (i-IF/TA). In particolare, i-IF/TA rispecchia il grading di Banff i (con soglie uguali), ma viene applicato solo al parenchima corticale cicatrizzato [12].

Questa condizione, segnalata per la prima volta nel 2009, è associata ad una peggiore sopravvivenza dell’organo trapiantato e rappresenta una risposta al danno tissutale acuto derivante da molte forme di insulto parenchimale (come rigetti acuti e cronici mediati da cellule T e anticorpi) innescato spesso da uno stato di sotto-immunosoppressione farmacologica [13,14].

 

Cenni di biologia del danno fibrotico del rene trapiantato associato alla microinfiammazione parenchimale

Da un punto di vista prettamente biologico, nel danno fibrotico associato alla micro-infiammazione, le lesioni iniziali coinvolgono diversi tipi cellulari (come macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) [15] e implicano il coinvolgimento di cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi come i miofibroblasti (derivati ​​da cellule mesenchimali residenti), i fibroblasti, i fibrociti (derivati dal midollo osseo), le cellule epiteliali, le cellule endoteliali e i periciti attivati ​​da citochine pro-fibrotiche e fattori di crescita secreti dai linfociti dopo danno dell’endotelio [16, 17].

I fattori alla base dello sviluppo rapido di questa condizione sono molteplici, tra cui: 1) gli inevitabili effetti del danno da ischemia-riperfusione; 2) le infezioni virali (principalmente BK virus) e batteriche (spesso ricorrenti); 3) l’insorgenza e il numero di episodi di rigetto acuto cellulare ed umorale (anche forme subcliniche e borderline).

Come ampiamente riportato in letteratura [15, 17, 18], il processo fibrotico dell’organo trapiantato è indotto da una rete biologica multifattoriale e finemente regolata. Nella fase iniziale l’infiammazione intra-parenchimale, parte integrante dei meccanismi di difesa dell’ospite in risposta al danno, si attiva e, se non risolta, può portare allo sviluppo di un danno fibrotico [19]. In questo contesto, diverse citochine pro-infiammatorie, pro-fibrotiche e molecole di adesione vengono prodotte/secrete causando cambiamenti del microambiente locale e inducendo un reclutamento di cellule immuno-infiammatorie che, interagendo con diversi tipi cellulari nel rene, possono perpetuare la risposta fibrotica [19]. Inoltre, gli infiltrati infiammatori (inclusi neutrofili, macrofagi e linfociti T e B), potenziano il processo fibrotico e, attivando le cellule endoteliali capillari peri-tubulari, possono facilitare il reclutamento di nuove cellule mononucleate [11] che, infiltrando i tessuti, secernono citochine fibrotiche (come il TGF-β1).

Altre citochine coinvolte nel reclutamento di cellule infiammatorie sono: la proteina chemiotattica dei monociti-1 (MCP-1), la proteina infiammatoria dei macrofagi-1 (MIP-1) e la proteina infiammatoria dei macrofagi-2 (MIP-2) [20]. La sovra-espressione di queste molecole rilasciate dalle cellule tubulari danneggiate crea un gradiente di infiltrazione di monociti/macrofagi infiammatori e cellule T nei siti interessati dal processo patologico che alimenta il pathway immuno-infiammatorio (e pro-fibrotico).

In una successiva fase di attivazione, il network biologico descritto porta all’attivazione dei miofibroblasti, un ampio gruppo di cellule coinvolte nella produzione di componenti dell’ECM e che derivano da molteplici fonti, tra cui fibroblasti, fibrociti, cellule epiteliali renali che subiscono transizione mesenchimale (EMT) e periciti [16].

Durante questa condizione, poi, le cellule subiscono profondi cambiamenti morfologici e funzionali tra cui: iper-espressione dei marcatori mesenchimali (vimentina, α-actina del muscolo liscio, fibronectina), rilascio di metallopeptidasi della matrice (MMP) -9 e -2, aumento della motilità, riduzione della citocheratina e della E-caderina [21] e cambiamento nella composizione dei proteoglicani eparan solfato (HSPG) [22].

L’HSPG più abbondante nelle cellule epiteliali tubulari renali è il sindecano-1 che promuove la riparazione e la sopravvivenza tubulare renale dopo danno, e la cui funzione sembra essere correlata al miglioramento funzionale nel trapianto renale sottoposto a danno da I/R [23]. Diversi fattori possono modulare il sindecano-1, tra cui l’eparanasi (HPSE), un’endo-β-D-glucuronidasi che scinde le catene di eparan solfato in frammenti da 4 a 7 kDa e che è stata implicata nella patogenesi di diverse malattie renali [24] tra cui la nefropatia diabetica e la patologia cronica del graft [25].

Come recentemente dimostrato dal nostro gruppo, l’HPSE risulta iper-espressa e attivata dopo danno da I/R ed è in grado di rimodellare la matrice extracellulare, di indurre EMT e di controllare alcune delle complesse interazioni tra cellule tubulari renali e macrofagi (principalmente pro-infiammatori M1) che si infiltrano nel trapianto dopo il danno [26-29]. Questo crosstalk tra i macrofagi M1 e le cellule epiteliali tubulari renali, che coinvolge anche l’apoptosi, la produzione di pattern molecolari associati al danno (DAMP) e l’up-regulation del Toll-Like Receptor (TLR)-2 e TLR-4 nelle cellule epiteliali tubulari e le cellule endoteliali vascolari [30,31], promuove il rilascio di mediatori proinfiammatori, facilita la migrazione e l’infiltrazione dei leucociti, attiva le risposte immunitarie innate e adattative e potenzia la fibrosi renale [32].

Nella genesi e progressione del danno fibrotico infiammatorio-mediato del graft, come nel rene nativo, comunque, entrano in gioco anche le principali comorbidità (come malattia cardiovascolare, diabete, dislipidemia, obesità) che direttamente, o attraverso l’attivazione del pathway infiammatorio intra-parenchimale, possono indurre fibrosi e danno cronico del graft.

 

Potenziali approcci terapeutici

Strategie attuali

Per poter garantire una migliore sopravvivenza del graft e rallentare la progressione del danno cronico (soprattutto infiammatorio-mediato) è necessario gestire in maniera ottimale la terapia immunosoppressiva.

Nell’ultimo ventennio, una serie di studi clinici ha analizzato l’impatto della terapia immunosoppressiva (in particolare dei CNI) sulla genesi della fibrosi del rene trapiantato e sullo sviluppo della disfunzione cronica del trapianto (CAD) [33]. Tuttavia, l’esatto meccanismo biologico alla base del danno fibrotico farmaco-indotto non è stato ancora completamente definito.

I CNI sembrano causare fibrosi d’organo inducendo vasocostrizione renale e sistemica attraverso un aumento del rilascio di endotelina-1 [34], l’attivazione del sistema renina-angiotensina, una maggiore produzione di trombossano A2 e una ridotta produzione di vasodilatatori come l’ossido nitrico e la prostaciclina [35].

Questi farmaci possono anche causare stress ossidativo attraverso il disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa mitocondriale, l’inibizione del ciclo di Krebs e l’attivazione della glicolisi anaerobica nel citosol [36]. Inoltre, l’IF/TA associato alla tossicità da CNI è correlato all’aumento dell’espressione di mRNA di TGF-β intrarenale [37]. Il TGF-β può promuovere la fibrosi interstiziale diminuendo la degradazione e aumentando la produzione di proteine ​​della matrice extracellulare [38].

Comunque, i CNI a dosi più elevate rappresentano una possibile soluzione allo sviluppo delle lesioni indotte dal sistema immune e che si concretizzano con la genesi della chronic active antibody mediated rejection (CAMR). È evidente, però, che una strategia di potenziamento dei CNI può incrementare lo sviluppo di comorbidità (malattia cardio-vascolare, neoplasie, malattie infettive) riducendo potenzialmente la sopravvivenza del trapianto.

Pertanto, è indispensabile pensare a trattamenti terapeutici multi-farmacologici che permettano la minimizzazione o la sospensione dei CNI. In questa filosofia terapeutica gli inibitori di mammalian target of rapamycin (mTOR-I, Everolimus, Sirolimus) possono avere un ruolo chiave.

Bisogna, però, tenere presente che, anche per questa categoria farmacologica, la dose ha un ruolo chiave. Stanno, infatti, emergendo evidenze cliniche che sottolineano un possibile effetto duale ed opposto dose-correlato degli mTOR-I. Secondo recenti studi biomolecolari, basse dosi di questi farmaci possano avere effetti protettivi (o neutri) sulla fibrosi del trapianto, mentre a concentrazioni elevate possono indurre fibrosi principalmente attraverso EMT delle cellule tubulari renali [39-41].

Pertanto, visti questi studi, sarebbe auspicabile proporre una strategia terapeutica “sostenibile” che contempli l’utilizzo delle più basse dosi possibili di più farmaci immunosoppressori somministrati contemporaneamente (incluso gli mTOR-I).

Questa filosofia è stata recentemente riportata nello studio Transform [42]. Questo ampio studio osservazionale, prospettico, e retrospettivo, internazionale multicentrico ha dimostrato la non inferiorità del trattamento combinato di mTOR-I a basse dosi con CNI a basse dosi versus la classica triplice terapia immunosoppressiva (Dosi standard di CNI associate a citostatici) e il positivo impatto sullo sviluppo di comorbidità (come le infezioni virali).

Resta implicito che l’impiego di altri preparati farmacologici come il Belatacept possa essere un’utile strategia per raggiungere questo target [43].

In aggiunta, il controllo delle comorbidità (anche attraverso la modulazione della terapia immunosoppressiva) può aiutare a rallentare la progressione della fibrosi. Negli ultimi anni, gli inibitori dei trasportatori sodio-glucosio tipo 2 (SGLT2) hanno mostrato interessanti potenzialità cardio-nefro-protettrici candidandosi a possibili nuove armi terapeutiche da sfruttare in ambito trapiantologico [44].

Nuovi potenziali agenti anti-fibrotici

Sulla base di recenti osservazioni, un gran numero di farmaci innovativi sono stati proposti per rallentare la progressione della fibrosi renale in nefrologia [45] (anche se scarsamente sperimentati in campo trapiantologico): (a) anticorpi neutralizzanti contro diverse isoforme di TGF-β [46]; (b) pirfenidone (5-metil-1-fenil-2(1H)-piridone), un derivato della piridina disponibile per via orale che inibisce la formazione di collagene e che mostra proprietà antifibrotiche in una varietà di modelli in vitro e animali di fibrosi epatica e renale [47], e usato per trattare la fibrosi polmonare idiopatica [48]; (c) tranilast (e i suoi derivati ​cinnamoyl antranilati), un farmaco antiallergico che inibisce il rilascio di mediatori chimici dai mastociti [49]; (d) THR-123 (Thrasos Therapeutics, Canada), un piccolo agonista peptidico della bone morphogenetic protein (BMP)-7, somministrato per via orale, funziona attraverso la segnalazione della activin-like kinase (ALK3) per sopprimere l’infiammazione, l’apoptosi e l’EMT, e la fibrosi in diversi modelli murini di danno renale acuto e cronico [50]; (e) pentossifillina, inibitore della fosfodiesterasi (PDE) che ha dimostrato di inibire l’espressione di connective tissue growth factor (CTGF) indotta da TGF-β1 così come l’espressione di collagene di tipo I e α-SMA [51]; (f) inibitore di Nox1/4, GKT137831 (Genkyotex) che ha soppresso la produzione di ROS e l’espressione genica fibrotica e ha attenuato la fibrosi (principalmente nel modello animale con nefropatia diabetica) [52].

Tuttavia, al momento, nessuno di loro è stato testato nel trapianto di rene. Pertanto, dovrebbero essere intrapresi più studi e sperimentazioni cliniche per valutare meglio la loro efficacia terapeutica e tossicità in questo contesto clinico.

 

Conclusioni

La nefropatia cronica del trapianto è un evento che può iniziare molto precocemente nel post-trapianto e che, in una larga percentuale dei casi, è associato all’attivazione di un pathway immuno-infiammatorio intra-parenchimale. Al momento, sono in corso una serie di studi finalizzati all’analisi e all’identificazione di nuovi elementi potenzialmente coinvolti nell’ esteso pathway pro-fibrotico del rene trapiantato, ma non dobbiamo dimenticare che fattori come la terapia immunosoppressiva, l’ipertensione, l’anemia e l’obesità sono ancora implicati nella genesi del danno cronico “non immuno-infiammatorio” del graft. In attesa di innovativi agenti terapeutici, l’utilizzo “ragionato e personalizzato” degli attuali farmaci antirigetto (principalmente CNI+mTOR-I) e l’attenzione alle comorbidità (non dimenticando di dedicare tempo al follow-up e incrementare il network multi-specialistico) è una via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento delle lesioni croniche del graft. Tutte queste considerazioni, affrontate nel Congresso Nefrologico di Grado del 2022, hanno infine fatto emergere che c’è ancora tanto da fare non solo per comprendere le basi fisiopatologiche del danno cronico del rene trapiantato, ma anche per individuare biomarkers predittivi e nuovi target terapeutici utili per arginare l’evoluzione di questa condizione clinica.

 

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L’imaging quantitativo nella clinica nefrologica: i limiti e le potenzialità dell’elastosonografia

Abstract

La patologia renale cronica, indipendentemente dall’eziologia, provoca un sovvertimento strutturale del parenchima con progressivo sviluppo di fibrosi. Il grado di fibrosi renale sembrerebbe correlare con un rischio aumentato di progressione verso l’uremia terminale; pertanto, il monitoraggio nel tempo della fibrosi renale può svolgere un ruolo importante nel follow-up delle patologie renali sia focali che diffuse, e nella valutazione della risposta ai trattamenti. La biopsia renale è l’unica metodica in grado di fornire informazioni oggettive e confrontabili sull’estensione della fibrosi rispetto al parenchima sano ma, data la sua invasività, non è indicata per il follow-up dei pazienti con malattia renale cronica. L’elastosonografia rappresenta una metodica ultrasonografica innovativa e non invasiva che consente la misura dell’elasticità tissutale attraverso la trasmissione di onde meccani­che e la misurazione della loro velocità di propaga­zione. Sebbene numerosi autori abbiano dimostrato l’utilità delle tecniche elastosonografiche per la quan­tificazione della fibrosi epatica, pochi sono gli studi sistema­tici sulle applicazioni dell’elastosonografia nelle pato­logie renali. Inoltre, fattori quali la profondità dei reni nativi rispetto al piano cutaneo, l’elevata anisotropia del tessuto renale e la possibilità di esaminare solamente una piccola regione di interesse limitano ad oggi la diffusione della metodica nella pratica clinica. Obiettivo di questa review è quello di riesaminare i principi fisici dell’elastosonografia e di passare in rassegna le ultime evidenze circa le possibili applicazioni del modulo ARFI (acoustic radiation force impulse) nello studio delle patologie renali.

Parole chiave: ultrasonografia, fibrosi, elastosonografia renale, ARFI, quantitative imaging

Introduzione

La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) è una condizione patologica ad elevata prevalenza nella popolazione generale, caratterizzata da alterazioni della funzione renale e/o anomalie strutturali presenti per più di tre mesi, con variabile tendenza alla progressione verso forme più gravi di insufficienza d’organo [1]. Sebbene numerose patologie del parenchima, dei vasi o delle vie escretrici (sia primitive che secondarie) possano provocare la CKD, la fibrosi d’organo rappresenta la caratteristica comune a tutti i differenti meccanismi patogenetici responsabili di danno renale. Il grado di fibrosi sembra inoltre essere correlato con un maggior rischio di progressione verso l’End Stage Renal Disease (ESRD), pertanto possiede un elevato valore predittivo negativo per l’outcome delle patologie renali croniche [2]. 

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Ruolo antifibrotico renale degli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi

Abstract

Le malattie cardiovascolari e renali costituiscono uno dei principali problemi di salute in tutti i paesi industrializzati. La loro incidenza è in continua crescita a causa dell’invecchiamento della popolazione e della maggiore prevalenza di obesità e diabete (DM) di tipo 2.

Evidenze cliniche suggeriscono un ruolo dell’aldosterone e dell’attivazione dei recettori dei mineralcorticoidi (MR) nella fisiopatologia delle patologie cardiovascolari e renali e studi clinici dimostrano comprovati benefici degli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MRA) sulla mortalità e sulla progressione del danno cardiaco e renale [3, 4].

L’aldosterone, oltre agli effetti renali sull’omeostasi dei fluidi corporei, esplica molteplici effetti extrarenali tra i quali l’induzione dell’infiammazione, la rigidità vascolare, la formazione del collagene e la stimolazione della fibrosi [2].

Dato il ruolo fondamentale dell’attivazione dei MR nella fibrosi renale e cardiaca, il blocco efficace e selettivo del segnale con gli MRA può essere utilizzato nella pratica clinica per prevenire o rallentare la progressione di malattie cardiache e renali [18, 29].

L’obiettivo del presente lavoro è rivedere il ruolo degli MRA alla luce delle nuove evidenze scientifiche e il potenziale uso come antifibrotico nella malattia renale cronica. I risultati clinici iniziali suggeriscono la potenziale utilità degli MRA nel trattamento dei pazienti con malattia renale cronica, in particolare nella nefropatia diabetica, ma mancano ancora dati di efficacia e sicurezza sulla progressione della malattia renale sino allo stadio terminale (ESRD), che rappresentano importanti obiettivi per le sperimentazioni future.

Parole Chiave: recettori dei mineralcorticoidi, aldosterone, rene, cuore, fibrosi

Introduzione

L’aldosterone è un ormone steroideo con attività mineralcorticoide, prodotto principalmente nella zona glomerulare della corteccia surrenale. Le sue principali funzioni fisiologiche consistono nel mantenimento dell’equilibrio del sodio e del potassio e nel controllo della pressione arteriosa, legandosi ai recettori dei mineralcorticoidi (MR) nel tubulo distale e nel dotto collettore del rene e aumentando così il riassorbimento del sodio e la secrezione di potassio [1]. 

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