Schemi terapeutici di terapia immunosoppressiva cronica e loro significato

Abstract

Lo scenario del trapianto renale è profondamente cambiato nelle ultime due decadi sia nella tipologia dei donatori che dei riceventi. A questo fenomeno non si è accompagnato un significativo rinnovamento dell’arsenale terapeutico nella terapia di mantenimento, che possa essere maggiormente versatile e adeguata alle nuove esigenze di una terapia personalizzata. Rispetto ai farmaci tradizionali, l’unica concreta innovazione è rappresentata dagli inibitori della costimolazione linfocitaria il cui capostipite, e per ora unico rappresentante in pratica corrente, è il Belatacept con caratteristiche di assente nefrotossicità e impatto metabolico su dislipidemia e metabolismo glicidico, e maggior prevenzione rispetto agli inibitori delle calcineurine (CNI) nello sviluppo di anticorpi donatore-specifici. I dati dagli studi clinici randomizzati indicano chiaramente un significativo guadagno di GFR nel lungo termine rispetto ai CNI. Il rischio di rigetti acuti post-conversione a Belatacept è scongiurato da protocolli più recenti di embricazione con CNI. L’associazione con mTOR-inibitori appare promettente permettendo di sfruttare alcune caratteristiche peculiari di questa classe. In conclusione, nuovi regimi immunosoppressivi di mantenimento possono beneficiare della sinergia di farmaci consolidati con il belatacept che possiede caratteristiche uniche.

Parole chiave: immunosoppressioine, farmaci, rigetto, trapianto di rene

Lo scenario del trapianto di rene è notevolmente mutato negli ultimi 20 anni sotto molteplici aspetti [1]. L’espansione del pool dei donatori ha consentito di trasformare l’opzione trapiantologica da un approccio di nicchia a una terapia coinvolgente un numero significativo di pazienti tanto che in alcuni paesi, come per esempio la Spagna, la quota di pazienti trapiantati di rene supera quella dei pazienti in dialisi. L’auspicio è che anche in altre parti d’Europa il trapianto di rene diventi l’opzione prevalente per il trattamento del ESRD. Però l’estensione del numero dei donatori non è stata solo dovuta a una maggiore proclività alla donazione sia da deceduto che da vivente, ma anche e forse soprattutto nel considerare idonei alla donazione di rene donatori che in passato non lo venivano [1]. È il caso dei donatori a criteri estesi e dei donatori a cuore fermo: entrambe le categorie stanno dando un sostanziale contributo alla diffusione del trapianto, ma presentano caratteristiche che devono essere considerate nella gestione del ricevente anche da punto di vista dell’immunosoppressione: una maggiore quota di DGF, una maggiore sensibilità alla tossicità acuta e cronica da inibitori delle calcineneurine e per i donatori a criteri estesi una ridotta durata del graft per riduzione della riserva funzionale e minore integrità del micro circolo renale [1].

Parallelamente, la popolazione dei riceventi si è espansa anche a pazienti con maggiori comorbidità e di età più avanzata. Col passare del tempo e il crescere storico del numero dei trapianti, anche i ritrapianti sono in aumento con le loro problematiche di sensibilizzazione.

Inoltre, le conoscenze scientifiche hanno portato a focalizzare l’attenzione clinica anche sul lungo termine del “patient journey” ed è ormai chiaro che la maggior causa di perdita dei reni si ha in questa fase e non precocemente. Sono emerse realtà patologiche come il rigetto cronico anticorpo-mediato che rappresentano la prima causa di perdita del graft nel lungo termine e le cui caratteristiche sono in fase di studio con continue evoluzioni. Questo ha portato a riconsiderare i protocolli terapeutici storici che erano orientati ad una importante minimizzazione della terapia dopo il primo anno. D’altro canto, la maggior fragilità dei riceventi soprattutto dal punto di vista infettivo ma anche neoplastico sta ponendo delle serie remore a incrementare il carico immunosuppressivo nel lungo termine. Inoltre, l’emergenza di patogeni multiresistenti ha determinato un aumento del rischio di mortalità infettiva in queste popolazioni [2]. Anche virus che apparivano ben controllati dalla terapia antivirale classica come il CMV [3], hanno mostrato nello scenario attuale delle maggiori potenzialità di nocumento e pertanto auspicabilmente possono necessitare di migliore risposta terapeutica con farmaci più attuali.

È ben chiaro però che nei tempi moderni nella scelta dello schema immunosuppressive per un determinato paziente vi sia una necessità di personalizzazione estremamente complessa e difficile. Le caratteristiche anamnestiche e le situazioni reali del trapianto possono determinare presupposti conflittuali nella scelta dello schema immunosuppressivo e nelle sue modificazioni nel tempo (Figura 1).

Ad esempio l’occorrenza di tossicità da CNI insieme a rigetto anticorpo-mediato in un paziente anziano trapiantato con rene di donatore anziano pone una seria sfida sia per decidere la terapia anti-rigetto sia per la terapia di mantenimento successiva. Anche la semplice presenza di ipotensione cronica costitutiva del paziente, che di per sé può rappresentare un fattore di protezione vascolare, in caso di trapianto da donatore a criteri estesi rappresenta invece  un forte fattore di riduzione della sopravvivenza del graft [4]. In modo simile, ormai è evidente quanto il diabete pre-trapianto o insorto nel post trapianto possa essere una complicanza lesiva nel lungo termine e la terapia immunosuppressivo ha un ruolo chiave in questa dinamica [5, 6].

Gli schemi di trattamento di mantenimento correnti si rifanno principalmente a due studi clinici: lo studio Symphony [7] e lo studio Transform [8]. Con il primo si individuava con lo schema tacrolimus, micofenolato e steroide il regime a minor rischio di rigetto acuto; con il secondo si osservava l’equivalenza negli outcome principali dell’uso dell’everolimus invece del micofenolato all’interno dello stesso schema, anche se a diversi dosaggi dei CNI.

La pratica clinica corrente vede questi due schemi come prevalenti anche attualmente ma in molte situazioni si osservano anche i loro limiti, soprattutto per quanto riguarda la nefrotossicità da CNI.

Lo studio clinico che ha dimostrato il reale impatto della tossicità da CNI nel lungo termine è il BENEFIT che compara l’utilizzo del Belatacept con la Ciclosporina [9].

Il Belatacept, un bloccante selettivo della costimolazione costituito dalla proteina di fusione solubile CTLA4/IgG, previene il segnale CD28-mediato delle cellule T legandosi in modo efficiente con i suoi ligandi CD80 e CD86 espressi dalle cellule che presentano l’antigene (APC). Lo studio BENEFIT a lungo termine ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza del trapianto nei pazienti sottoposti a trapianto di rene rispetto alla ciclosporina. È stato inoltre osservato un miglioramento della funzionalità del graft anche rispetto al mantenimento con Tacrolimus.

Tuttavia, è stata osservata un’aumentata incidenza di rigetto acuto (AR) nei pazienti trattati con Belatacept, principalmente nel regime senza CNI, e ha sollevato preoccupazioni riguardo al suo utilizzo in pazienti con rischio immunologico moderato o alto. Recentemente, Adams et al hanno contenuto l’incidenza dell’AR nei pazienti che avevano iniziato il trattamento con Belatacept dall’inizio del trapianto combinando transitoriamente TAC con Belatacept [10].

Noi abbiamo ottenuto lo stesso risultato utilizzando il Belatacept in modalità di salvataggio dove un aumento del rischio di rigetto acuto con Belatacept può limitarne l’uso in particolare in pazienti ad alta complessità medica dove il rischio preesistente di rigetto si accoppia con tossicità CNI [11].

La nostra prima esperienza è stata sottoposta ad analisi retrospettiva in 19 KT passati a un’immunosoppressione basata su Belatacept con Tacrolimus a basso dosaggio (2-3 ng/mL) dopo evidenza di disfunzione dell’allotrapianto, inclusi pazienti con “primary non-function” (PNF), rigetto cronico anticorpo-mediato (cAMR), storia di precedenti KT e/o altri trapianti concomitanti (fegato, pancreas) [11]. I risultati hanno dimostrato una funzionalità renale è migliorata significativamente. Inoltre è stato osservato lo svezzamento definitivo dalla dialisi in 5/5 KT con PNF, mentre 7/8 pazienti hanno perso il trapianto entro il primo anno in un gruppo di controllo. Infine, non si sono verificati episodi di rigetto acuto, nonostante il rischio significativo suggerito dall’alta frequenza di TEM CD28+ CD4+ nella maggior parte dei pazienti.

Recenti osservazioni hanno anche segnalato l’indifferenza del Belatacept verso il metabolismo lipidico e glicidico, dato di utilità nella gestione dei metabolico-cardiovascolare in particolare dei pazienti con comorbidità.

Inotre, lo studio BENEFIT ha dimostrato che lo sviluppo di anticorpi anti-donatore (DSA) è marcatamente ridotto con il Belatacept, fenomeno estremamente interessante nella prevenzione del rigetto anticorpo-mediato tardivo [10].

Recentemente, studi osservazionali ed interventistici con switch a belatacept ed everolimus hanno dimostrato una efficiente protezione al rigetto post-conversione, rendendo possibile l’utilizzo degli mTOR-inibitori con le loro favorevoli peculiarità anche in combinazione con l’inibitore della costimolazione linfocitaria [12, 13].

Infine, la somministrazione endovenosa mensile può sicuramente contribuire a ridurre il rischio di non-compliance che colpisce diverse categorie di pazienti [14].

In conclusione, le sfide della trapiantologia moderna necessitano di un superamento degli schemi terapeutici storici almeno allorquando vi siano delle condizioni di base “caso per caso” che limitino la funzionalità del graft nell’ottica di una ricerca verso la medicina di precisione. Gli inibitori della costimolazione linfocitaria rappresentano una classe farmacologica che ha già una consolidata esperienza clinica e la cui caratteristica peculiare è l’assenza totale di nefrotossicità.

Fig. 1 Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.
Figura 1. Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.

 

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Calcolosi renale e nefrocalcinosi da farmaci e tossici

Abstract

Diverse terapie farmacologiche, pur correttamente condotte, possono favorire sia la comparsa di precipitati cristallini a livello dei tubuli e dell’interstizio renale, con aspetti morfologici di nefrocalcinosi e quadri clinici di insufficienza renale acuta, sia la formazione di veri e propri calcoli, con possibili fenomeni di uropatia ostruttiva.

I cristalli e i calcoli possono essere costituiti dal farmaco somministrato, oppure dai componenti litogeni urinari di più comune riscontro (sali di calcio o acido urico), precipitati in conseguenza di alterazioni metaboliche indotte dalla terapia farmacologica. In quest’ultimo caso, la corretta diagnosi causale può talora sfuggire, giacché la composizione chimica dei calcoli è identica a quella osservabile in caso di litiasi idiopatica.

In questo articolo sono illustrate le caratteristiche cliniche e metaboliche essenziali delle tipologie più significative di nefrolitiasi farmaco-correlata, con alcuni riferimenti anche ai rari casi riportati di nefrolitiasi riconducibile a sostanze tossiche.

I calcoli contenenti i farmaci sono per lo più radiotrasparenti e rilevabili mediante ecografia oppure TC con mezzo di contrasto. La metodica più idonea a definirne la composizione chimica è la spettrofotometria a raggi infrarossi, applicabile sia sui calcoli espulsi, sia su depositi cristallini eventualmente riscontrabili in campioni bioptici renali.

Dal punto di vista terapeutico, la sospensione del farmaco e/o la sua sostituzione con altra molecola più solubile in ambiente urinario sono generalmente risolutive. Le misure di profilassi generale della calcolosi urinaria (idratazione e manipolazione del pH urine ove possibile), oltre a prevenire l’insorgenza della malattia nei casi a rischio, quando sia sospesa la terapia farmacologica possono contribuire alla progressiva dissoluzione dei cristalli presenti nel rene.

In alcuni casi, i precipitati cristallini possono indurre reazioni infiammatorie con reliquati fibrotici permanenti a livello del parenchima renale.

Parole chiave: nefrolitiasi, urolitiasi, nefrocalcinosi, farmaci.

Introduzione

Il riscontro di farmaci all’interno di uroliti è un evento raro, osservato in circa l’1% dei calcoli sottoposti ad analisi [1]. E’ verosimile che la reale prevalenza del fenomeno sia superiore, considerando che non sempre i calcoli vengono espulsi o analizzati e che il riconoscimento di costituenti chimici inusuali richiede procedimenti analitici particolari, non disponibili in tutti i laboratori.

Le prime segnalazioni di calcolosi indotta da farmaci risalgono agli anni ’40, quando furono descritti casi di urolitiasi insorta in corso di terapia con sulfamidici [2]. Dagli anni ’80 in poi, la calcolosi renale da farmaci divenne un’entità più nota e riconosciuta, anche grazie alla diffusione di altri preparati in grado di favorirne l’insorgenza, fra i quali uno dei più noti è il Triamterene [3].

Nelle ultime due decadi del secolo scorso, le nuove terapie dell’infezione da HIV con farmaci antiretrovirali ebbero un evidente impatto anche sull’epidemiologia della calcolosi da farmaci [4].

Peculiari realtà socio-economiche possono influire sull’incidenza di particolari tipologie di calcolosi. Ne è un esempio la litiasi di efedrina, osservata negli USA grazie all’ampia diffusione locale di questo farmaco come droga da abuso, ma pressoché sconosciuta in Europa [5].

 

Eziologia e patogenesi

 Nell’urina sono presenti numerosi composti organici e inorganici, la cui solubilità dipende sia dalla loro peculiare struttura chimica, sia da alcune caratteristiche del microambiente urinario, quali ad esempio la forza ionica, la presenza di inibitori della cristallizzazione e il pH.

La precipitazione di cristalli a livello del rene e delle vie urinarie e la formazione di uroliti indotte da farmaci possono essere ricomprese nell’ambito di due quadri fisiopatologici fondamentali:

a) Nefrolitiasi e nefrocalcinosi costituite da farmaci: il farmaco stesso, scarsamente solubile nell’urina, precipita sotto forma di calcolo in forma pura o mista con altre componenti, per lo più proteine o comuni sali litogeni. Questo tipo di litiasi, che potremmo definire “di farmaci”, è tipicamente riscontrabile in corso di terapie con farmaci antiretrovirali (Indinavir, Atazanavir).

b) Nefrolitiasi e nefrocalcinosi metaboliche, indotte da farmaci: il farmaco induce uno squilibrio tra i promotori e gli inibitori della cristallizzazione dei comuni sali litogeni urinari, i quali precipitano sotto forma di cristalli e calcoli che hanno una composizione identica a quella della calcolosi idiopatica (sali di calcio o acido urico). Un esempio di questo meccanismo patogenetico è quello della nefrolitiasi di calcio fosfato indotta da farmaci che inibiscono i meccanismi fisiologici di acidificazione urinaria, come il Topiramato.

Nel caso di precipitazione di micro-cristalli a livello tubulo-interstiziale renale, la sintomatologia può essere quella di un’insufficienza renale acuta di variabile entità, con aspetti morfologici di nefrocalcinosi, micro- o macroscopica [6].

Nel caso di formazione di calcoli, si osserva il quadro clinico caratteristico, conseguente al transito dei calcoli lungo le vie urinarie.

 

Fattori di rischio

Poiché la nefrolitiasi “di farmaci” colpisce soltanto alcuni dei pazienti in trattamento farmacologico, è verosimile che esistano fattori predisponenti individuali.

Ad esempio, un’anamnesi positiva per nefrolitiasi in senso lato aumenta il rischio di litiasi da Triamterene, per la quale è stata riportata un’incidenza del 35% in soggetti con precedenti di calcolosi idiopatica, a fronte di un 4% in pazienti con anamnesi litiasica negativa [3]. E’ probabile che ciò accada anche nel caso di altri tipi di calcolosi da farmaci, considerando che cristalli e uroliti di qualsiasi natura possono costituire un background per la deposizione e la crescita anche dei cristalli di farmaco, come documentato dal riscontro di calcoli misti di farmaci e sali di calcio.

Analogamente, fattori di rischio generici per urolitiasi, quali condizioni di scarsa idratazione e ridotto volume urinario, aumentano anche il rischio di calcolosi correlata ai farmaci.

Per quanto riguarda il pH urinario, i suoi effetti sulla litiasi “di farmaci” non sono univoci: bassi valori di pH facilitano la cristallizzazione dei sulfamidici e del metotrexate, mentre un pH alcalino aumenta il rischio di precipitazione dei più comuni farmaci antiretrovirali [7].

Infine, il rischio litogeno può variare anche in funzione delle dosi del farmaco, della sua cinetica (es: rapidità di assorbimento e picchi di escrezione urinaria), della durata del trattamento, delle dimensioni dei cristalli e della loro interazione con l’urotelio.

 

Diagnosi

Analisi del calcolo

Le metodiche più adeguate a definire la composizione chimica dei calcoli renali sono la spettrometria a infrarossi o FTIR (Fourier-Transform Infrared Spectroscopy), la diffrattometria a raggi X e la spettrometria di massa.

Nelle forme di calcolosi “di farmaci”, il riscontro delle specifiche molecole all’interno del calcolo è dirimente sull’eziologia della litiasi.

Nel caso delle calcolosi “indotte da farmaci”, poiché la composizione dei calcoli è indistinguibile da quella della litiasi idiopatica, il nesso causale fra terapia farmacologica e nefrolitiasi spesso costituisce soltanto un sospetto diagnostico, formulato sulla base dell’anamnesi clinico-farmacologica.

Esame del sedimento urinario

La valutazione della cristalluria può essere di aiuto nell’individuare condizioni di rischio litogeno, sia in termini di precipitazione cristallina tubulo-interstiziale, sia di formazione di calcoli [8]. Peraltro, così come accade per la nefrolitiasi idiopatica, anche nel caso della calcolosi da farmaci la cristalluria può rimanere a lungo un riscontro isolato scarsamente evolutivo verso forme sintomatiche.

Morfologia radiologica

Nella maggioranza dei casi, i calcoli compostiiti da farmaci allo stato puro sono radiotrasparenti ai radiogrammi diretti dell’addome e sono individuabili soltanto con TC o ecografia. Fanno eccezione i calcoli costituiti da silicati e da triamterene, debolmente radiopachi [9].

I calcoli di Mesalazina, un farmaco impiegato nella terapia delle malattie infiammatorie intestinali, per la loro scarsa densità e consistenza possono essere reperibili, talora anche con qualche difficoltà, soltanto mediante TC con mezzo di contrasto. La diagnostica è resa ulteriormente difficoltosa dal fatto che, per la loro debole consistenza, raramente inducono dilatazione delle vie urinarie anche in corso di colica [10].

Biopsia renale

In pazienti con insufficienza renale acuta sottoposti a biopsia renale, può essere osservabile una precipitazione di cristalli a livello tubulo-interstiziale. Oltre alla microscopia ottica, non sempre sufficiente a definire con certezza la natura dei cristalli, sono disponibili metodiche che, associando alla microscopia tradizionale la spettrofotometria a infrarossi, consentono di determinare con accuratezza la composizione dei depositi cristallini tessutali [11].

 

Nefrolitiasi e nefrocalcinosi costituite da farmaci

Ad oggi, sono stati descritti numerosi farmaci in grado di precipitare in forma cristallina nelle urine [8]. Pur nella rarità degli eventi, considerati in senso assoluto, i farmaci oggi più frequentemente riscontrabili nei calcoli renali sono riportati nella Tabella 1. Le loro caratteristiche salienti saranno qui di seguito sinteticamente illustrate.

Antibatterici Sulfamidici (Sulfametossazolo*, Sulfadiazina, Sulfasalazina)

Penicilline (Ampicillina*, Amoxicillina*)

Cefalosporine (Ceftriaxone)

Chinolonici (Ciprofloxacina*, Norfloxacina*)

Antivirali Inibitori delle proteasi (Indinavir, Atazanavir, Nelfinavir)

Inibitori della transcrittasi inversa (Efavirenz)

Foscarnet *, Aciclovir *.

Vari Triamterene

Silicati

Metotrexate *

Efedrina

Mesalazina

Oxipurinolo

Melamina

(*Per lo più cristalli).
Tabella 1.  Principali farmaci riscontrati in cristalli e/o calcoli urinari.

Sulfamidici

Le prime osservazioni di danno renale da sulfamidici risalgono a circa ottant’anni or sono, quando questi erano gli unici antibatterici disponibili. Successivamente, con la scoperta di altri farmaci, l’uso dei sulfamidici divenne più raro, così come l’incidenza di patologie dovute ai loro effetti collaterali.

In tempi più recenti, l’efficacia della Sulfadiazina nella toxoplasmosi encefalica in soggetti con AIDS ha riportato in evidenza il problema, essendo segnalata un’incidenza di coinvolgimento renale (precipitazione tubulo-interstiziale o nefrolitiasi) fino al 7.5% [12].

In soggetti curati per malattie infiammatorie croniche dell’intestino, la Sulfasalazina può aumentare il rischio di insufficienza renale acuta e nefrolitiasi, già presente in questi pazienti a causa della frequente concomitanza di ipoidratazione, iperossaluria enterica, ipocitraturia e iperacidità urinaria [13].

La Mesalazina, un FANS talora impiegato in alternativa alla sulfasalazina, possiede anch’essa una potenzialità litogena [14].

Il Sulfametossazolo, comunemente utilizzato in associazione con Trimetoprim, può indurre una cristalluria di Nacetil-sulfametossazolo idrocloruro (il cui aspetto microscopico lo rende talora confondibile con l’acido urico), ma il rischio di nefrolitiasi e uropatia ostruttiva è scarso [15].

In tutti i casi di impiego di sulfonamidi, un’abbondante idratazione e un’alcalinizzazione urinaria costituiscono le misure profilattiche principali rispetto al rischio litogeno.

Antibiotici

Sono segnalati casi di insufficienza renale acuta da precipitazione intratubulare di Ampicillina e Amoxicillina, a seguito di somministrazione di dosi molto elevate di questi antibiotici [16]; non sono stati invece riportati episodi certi di nefrolitiasi.

La formazione di calcoli di Ceftriaxone è stata ripetutamente segnalata, quasi esclusivamente in età pediatrica [17]. Nel medesimo contesto, è stata riportata anche una significativa incidenza di colelitiasi da ceftriaxone, con prevalenze variabili dal 15 al 40% [18].

La Ciprofloxacina e fluorochinolonici sono poco solubili a pH alcalino, una condizione facilmente riscontrabile in urine infette da germi ureasi produttori. Mentre espulsioni di calcoli di ciprofloxacina sono aneddotiche, meno rari sono i casi di insufficienza renale da nefrotossicità tubulo-interstiziale, con o senza evidente precipitazione cristallina [19].

Antivirali

Tra i farmaci antivirali a rischio litogeno, giocano un ruolo clinicamente più significativo quelli impiegati nella terapia anti HIV.

L’Indinavir, uno dei primi ad essere utilizzato per questo scopo, ha una consistente potenzialità litogena, con un’incidenza di nefrolitiasi variabile tra il 7 e il 40% [20]. I calcoli sono radiotrasparenti e, per la loro bassissima densità, talora mal evidenziabili anche in ecografia. Per visualizzarli adeguatamente è dunque spesso necessaria la TC con mezzo di contrasto. Le medesime caratteristiche di morfologia radiologica sono condivise anche da altri farmaci anti-proteasi, quali ad es. atazanavir, nelfinavir, darunavir.

Peraltro, proprio grazie alla loro debole consistenza, i calcoli di Indinavir transitano abbastanza agevolmente lungo le vie urinarie e possono essere espulsi spontaneamente.

Oltre alla calcolosi renale, sono descritti quadri di insufficienza renale acuta da precipitazione intraparenchimale di cristalli di Indinavir, la cui solubilità urinaria è massima a pH 5, mentre a pH 7 è di circa quindici volte inferiore [21].

Rispetto all’Indinavir, con l’Atazanavir è stato segnalato un rischio di nefrolitiasi assai minore, con un’incidenza inferiore all’1%.  Tuttavia, trattandosi di calcoli più consistenti rispetto a quelli di Indinavir, questi sono meno suscettibili di espulsione spontanea ed è più spesso necessario ricorrere a procedure urologiche disostruttive [22].

Farmaci vari

Triamterene

La nefrolitiasi da Triamterene è uno dei casi più paradigmatici di nefrolitiasi da farmaci [3]. In passato questo farmaco fu usato come antiipertensivo, o come diuretico risparmiatore di potassio in associazione ai tiazidici. Ad oggi il suo uso è stato quasi abbandonato per la disponibilità di farmaci alternativi.

Silicati

La prevalenza di calcoli contenenti silicati è intorno allo 0.1% dei calcoli analizzati. I primi riscontri si riferiscono ad individui consumatori di silicato di magnesio come antiacido gastrico. In seguito, la litiasi di silicati fu osservata anche in pazienti che apparentemente non avevano mai assunto questi preparati [23]. Dunque, la patogenesi di questo genere di calcolosi non è ancora ben chiara.

Molte preparazioni farmaceutiche di uso comune contengono silicati quali eccipienti necessari per il confezionamento delle compresse. Considerando che le politerapie farmacologiche sono oggi molto frequenti, la possibilità che un paziente ingerisca silicati in quantità litogenetica merita di essere presa in considerazione.

In attesa di più chiare evidenze in merito, pare comunque ragionevole, nel caso di pazienti affetti da litiasi di silicati, compiere un’accurata indagine sui preparati farmaceutici da loro assunti ed eventualmente procedere ad adeguate sostituzioni.

Metotrexate

In conseguenza di una bassa solubilità in urine acide, il Metotrexate somministrato ad alte dosi per via endovenosa può causare insufficienza renale acuta da precipitazione intratubulare [24].  L’alcalinizzazione delle urine è protettiva, aumentando di dieci volte la solubilità del farmaco. Ad oggi non sono noti casi di nefrolitiasi di Metotrexate.

Efedrina

Sono stati osservati negli USA numerosi casi di nefrolitiasi di efedrina, assunta in modo non controllato per scopo dimagrante o per uso voluttuario [25].

Oxipurinolo

Casi sporadici di calcoli contenenti Oxipurinolo, per lo più commisto a purine, sono stati descritti in pazienti assumenti dosi esuberanti di Allopurinolo (600-900 mg) per gravi iperuricemie (S. di Lesch-Nyhan, emopatie) [26]. 

Melamina

Nel 2008, in Cina vi fu un’epidemia di nefrolitiasi infantile causata dalla contaminazione del latte in polvere con melamina. Circa 300.000 soggetti ne furono affetti, spesso in modo asintomatico, ma talora con uropatie ostruttive gravi o nefropatie tubulo-interstiziali [27]. I calcoli erano costituiti da una miscela di melamina e acido urico.

Ad oggi, la melamina è utilizzata, con specifica regolamentazione, per preparazione di contenitori alimentari e il rischio di contaminazione umana dovrebbe essere sotto controllo.

Eroina

Così come per altre sostanze stupefacenti, anche nel caso dell’eroina è possibile che gli effetti nefrotossici osservati siano riconducibili, almeno in parte, alle numerose sostanze da taglio ad essa associate. Tuttavia, vi sono segnalazioni di cristallopatia renale verosimilmente dovuta all’eroina in quanto tale [28].

 

Nefrolitiasi e nefrocalcinosi metaboliche, indotte da farmaci

Alcuni tipi di farmaci causano alterazioni metaboliche in grado di aumentare lo stato di saturazione urinaria rispetto ai comuni composti litogeni, principalmente ossalato di calcio, fosfato di calcio e acido urico.

Considerando che l’analisi del calcolo non è sempre disponibile, come primo orientamento diagnostico può essere utile valutare il grado di radio-opacità e densità dei calcoli osservabili “in vivo” nel singolo paziente, suggestiva rispettivamente di una loro natura calcica (qualora siano visibili ai radiogrammi diretti dell’addome, o dimostrino alta densità in TC) oppure purinica (se non visibili ai radiogrammi diretti e a bassa densità in TC) [29].

Nella tabella 2 sono riportati i principali farmaci potenzialmente in grado di indurre alterazione metaboliche pro-litogene. I casi di maggior interesse clinico saranno qui di seguito illustrati.

Farmaci          Effetto metabolico Effetto metabolico
Supplementi di Calcio Ipercalciuria CaOx, CaP
Vitamina D Ipercalciuria, iperfosfaturia CaOx, CaP
Induttori di acidosi metabolica Ipercalciuria, ipocitraturia CaP, (CaOx)
Diuretici dell’ansa complesso (v.testo) CaOx
Lassativi con fosfato Iperfosfaturia CaP
Lassativi senza fosfato complesso (v.testo) A.Urico, NH4-Urato
Vitamina C Iperossaluria CaOx
Uricosurici Iperuricuria A.Urico
(CaOx: ossalato di calcio; CaP: fosfato di calcio)
Tabella 2.   Principali categorie di farmaci in grado di favorire l’insorgenza di nefrolitiasi calcica o urica.

Vitamina D e supplementi di Calcio

In pazienti con calcolosi calcica, alcuni Autori riportarono una correlazione positiva tra livelli sierici di 25(OH) vitamina D e calciuria [30], non confermata da altri [31]. Vi è maggior accordo sul fatto che aumentati livelli ematici di 1,25(OH)2 vitamina D possano indurre ipercalciuria e favorire la litogenesi urinaria [32,33].

In Letteratura vi sono poche informazioni sugli effetti metabolici di una terapia con colecalciferolo o ergocalciferolo in pazienti con calcolosi renale. In teoria, è possibile che la vitamina D nativa, impiegata per correggere uno stato carenziale, dopo la sua trasformazione in calcitriolo possa attivare l’assorbimento intestinale del calcio e aumentare la calciuria e il rischio di nefrolitiasi. Questa tesi è sostenuta da alcuni Autori [34,35] e confutata da altri [36,37].

Alcune segnalazioni suggeriscono che un’assunzione combinata di Vitamina D e supplementi di calcio, ampiamente prescritta nel trattamento dell’osteoporosi, possa aumentare il rischio litogeno urinario. Un RCT condotto su 2.300 donne trattate con 2.000 UI di Vitamina D + 1.5 g/die di calcio vs placebo ha riscontrato un’incidenza di calcolosi leggermente maggiore nel gruppo trattato (1.4% vs 0.9%), sebbene la differenza non fosse significativa [38].  Più recentemente, in uno studio condotto su oltre 36.000 donne in età menopausale, la somministrazione giornaliera di 1 g di calcio + 400 UI di Vitamina D si è associata ad un Hazard Ratio per calcolosi significativamente aumentato nel gruppo in trattamento, rispetto ai controlli (1.17; CI: 1.02-1.17) [39].

Complessivamente, i dati ad oggi disponibili suggeriscono che un trattamento con vitamina D nativa possa aumentare il rischio di nefrolitiasi soprattutto quando contestualmente siano prescritti anche supplementi di calcio.

Farmaci induttori di acidosi metabolica

L’acidosi metabolica cronica si accompagna ad un’aumentata escrezione urinaria di calcio e fosfato e ad un’ipocitraturia, tutti effetti potenzialmente favorenti la calcolosi calcica [40,41].

Numerosi farmaci possono interferire con l’equilibrio acido-base e indurre acidosi metabolica, con differenti meccanismi (Tabella 3).

Acidosi metabolica da farmaci
Tabella 3. Acidosi metabolica da farmaci. Principi attivi e meccanismi patogenetici.

Nella pratica clinica, gli esempi più significativi di litiasi secondaria ad acidosi metabolica riguardano pazienti in terapia prolungata con farmaci inibitori dell’anidrasi carbonica. In alcuni casi, questo meccanismo d’azione costituisce l’effetto terapeutico del farmaco (es: acetazolamide); in altri ne è un effetto collaterale indesiderato (es: topiramato).

L’acetazolamide è tutt’oggi impiegata, anche per via sistemica, nel trattamento del glaucoma, dove l’inibizione dell’anidrasi carbonica è il meccanismo che riduce la secrezione di umore acqueo e la pressione intraoculare. Poiché l’anidrasi carbonica del tubulo renale è altrettanto sensibile al farmaco quanto quella del tessuto oculare, nei pazienti trattati con acetazolamide si possono osservare una bicarbonaturia e un’acidificazione sistemica di variabile entità. L’ipercalciuria, ipocitraturia e scarsa acidificazione urinaria che a ciò fanno seguito favoriscono l’insorgenza di nefrolitiasi o di nefrocalcinosi, tipicamente costituite da fosfato di calcio [42, 43].

L’inibizione dell’anidrasi carbonica è invece un effetto indesiderato di alcuni farmaci anti-epilettici e anti-emicranici, quali il Topiramato e la Zonisamide.

Nei pazienti che assumono Topiramato, è stata stimata una prevalenza di nefrolitiasi mediamente intorno al 2%, ma le casistiche sono molto eterogenee e, considerando anche i casi asintomatici, sono state riportate prevalenze fino al 20% [44]. Il disturbo metabolico urinario più rilevante e costante è l’ipocitraturia, con formazione di calcoli generalmente costituiti da fosfato di calcio.

Fra i pazienti trattati con Zonisamide, l’incidenza di nefrolitiasi parrebbe essere notevolmente inferiore, con valori tra lo zero e l’1.4% [45].

Lassativi

Le formulazioni a base di sali di fosforo, generalmente prescritte come preparazione preliminare a procedure endoscopiche, costituiscono un carico orale di fosfati di circa dieci volte superiore al normale intake dietetico quotidiano. La cospicua escrezione renale di fosforo che ne consegue, soprattutto se il volume urinario è ridotto per la concomitante diarrea acquosa, può causare un’insufficienza renale acuta da precipitazione tubulo-interstiziale di fosfato di calcio, descritta nell’1-4% dei casi [46,47]. Nelle forme più severe, può residuare un danno renale cronico.

Come profilassi è consigliabile, ove questi lassativi siano insostituibili, evitarne più somministrazioni ravvicinate, oppure utilizzare per la dose successiva alla prima un preparato non contenente fosfato.

I lassativi non contenenti fosfato, comunemente utilizzati con modalità auto-prescrittive, sono generalmente farmaci dagli effetti più blandi e il loro impiego estemporaneo non implica significativi rischi di litogenesi urinaria. Diversamente, in caso di uso incongruo e continuativo, ad esempio da parte di pazienti affette da anoressia mentale (spesso con concomitante abuso di diuretici) ne derivano una dispersione di acqua e alcali e un’acidosi metabolica cronica, cui si associa una ridotta escrezione urinaria di calcio e fosforo, secondaria tanto ad un ridotto intake quanto al malassorbimento intestinale. Se l’ipocalciuria potrebbe di per sé essere addirittura protettiva nei confronti della litiasi calcica, la scarsa disponibilità di tampone fosfato urinario fa sì che l’eliminazione del carico acido metabolico avvenga soprattutto mediante un’elevata ammoniuria. In urine di questo tipo, molto acide e concentrate, è aumentato il rischio di formazione di calcoli di acido urico e/o urato d’ammonio [48].

Diuretici

A differenza dai tiazidici, ampiamente utilizzati come profilassi della nefrolitiasi calcica per il loro effetto anticalciurico, i diuretici dell’ansa inducono ipercalciuria. Tuttavia, dall’ampia letteratura che si riferisce a pazienti in trattamento diuretico con furosemide per ipertensione, scompenso cardiaco e altre condizioni, non risultano segnalazioni di aumentata incidenza di calcolosi renale.

Sono invece riportati casi di nefrolitiasi e nefrocalcinosi insorte in individui sani, dediti all’abuso di furosemide ad alte dosi per motivi estetici [49]. In questi casi, clinicamente simili alla Sindrome di Bartter, la litogenesi è verosimilmente dovuta a più fattori di rischio oltre all’ipercalciuria, quali la disidratazione, l’aumento del pH urinario da alcalosi metabolica e l’ipocitraturia da deplezione potassica [50].

Infine, è stato evidenziato come la furosemide sia un fattore di rischio per nefrolitiasi di calcio ossalato e fosfato e per nefrocalcinosi in soggetti pediatrici in terapia continuativa per insufficienza cardiaca [51] e nei neonati pretermine [52].

Vitamina C

La quantità di Vitamina C escreta con le urine aumenta proporzionalmente alla quota introdotta (soprattutto quando questa eccede il fabbisogno quotidiano di 70-90 mg), sebbene in modo non identico in tutti i soggetti [53].

Il catabolismo dell’acido ascorbico conduce alla formazione di ossalato. L’aumentata quantità di ossalato riscontrabile nelle urine dopo assunzione di Vitamina C ad alte dosi è stata considerata suggestiva dell’aumentato rischio litogeno connesso a terapie di questo tipo.

Tuttavia, l’acido ascorbico può andare incontro a degradazione spontanea in ossalato, anche nelle urine raccolte dopo minzione [53]. Ne consegue che il reale significato clinico di elevati livelli di ossalato riscontrati in campioni urinari dove sia presente anche un significativo quantitativo di acido ascorbico è di difficile interpretazione.

Nel complesso, dai dati della letteratura si può concludere che un intake quotidiano di Vitamina C maggiore di 1 grammo, in individui metabolicamente predisposti, possa indurre un aumento del rischio litogeno urinario [54,55].

Glicole etilenico

E’ un composto utilizzato come anticongelante, del quale sono riportati casi di ingestione a scopo anticonservativo. Oltre ad indurre quadri potenzialmente fatali di severa acidosi metabolica e depressione respiratoria, poiché il glicole etilenico viene metabolizzato ad ossalato, a seguito di intossicazione si possono verificare massive precipitazioni intrarenali di ossalato di calcio, con insufficienza funzionale di grado variabile [56].

Ipouricemizzanti  uricosurici

La soprassaturazione urinaria per l’acido urico, predisponente alla nefrolitiasi, riconosce tre cause fondamentali: il ridotto volume urinario, l’iperacidità urinaria e l’iperuricuria [57]. Non è sempre necessaria la coesistenza dei tre fattori predisponenti, essendo frequente il riscontro di litiasi urica anche in soggetti senza iperuricuria.

In un paziente allo steady state metabolico, l’escrezione urinaria di acido urico è funzione della sua produzione metabolica (al netto di una eventuale concomitante precipitazione tessutale). Un farmaco uricosurico induce acutamente un picco di uricuria (per ridotto riassorbimento tubulare del carico filtrato), che tende poi a diminuire quando, proporzionalmente al ridursi dell’uricemia, diminuisce anche il carico di acido urico ultrafiltrabile al glomerulo. Di conseguenza, l’effetto pro-litogeno attribuibile al farmaco uricosurico di per sé è legato al transitorio picco di uricuria che esso induce.

In passato, al fine di trattare le sindromi iperuricemiche, sono stati utilizzati diversi farmaci uricosurici, quali ad esempio Probenecid, Sulfinpirazone, Benzbromarone. Il loro uso è stato in seguito abbandonato quando si è reso disponibile l’Allopurinolo, più efficace e con meno effetti collaterali, inclusa l’iperuricuria.

Recentemente è stato reso disponibile un nuovo farmaco ipouricemizzante uricosurico, il Lesinurad, da impiegare esclusivamente in associazione ad un inibitore della Xantina Ossidasi, proprio per limitare i picchi di uricuria [58]. E’ consigliato assumere il farmaco al mattino, in modo che il picco di uricuria sia concomitante con il fisiologico aumento di flusso e pH urinario che segue le ore del risveglio, così da limitare il rischio litogeno. Ad oggi, dopo un periodo d’uso ancora limitato, non vi sono segnalazioni di un’aumentata incidenza di nefrolitiasi nei pazienti in terapia con Lesinurad.

 

Considerazioni conclusive

La nefrolitiasi da farmaci rappresenta un evento raro, che può manifestarsi sia con quadri di insufficienza renale acuta e oligoanuria, in caso di massive precipitazioni cristalline nel parenchima renale, sia con episodi di uropatia ostruttiva da calcoli.

La conoscenza di questa patologia e dei suoi principali fattori di rischio è importante in termini di prevenzione, diagnostica differenziale e cura.

Poiché le terapie farmacologiche sono una realtà in continuo divenire, anche la nefrolitiasi farmaco-indotta, con particolare riferimento alla calcolosi “di farmaci”, costituisce un contesto intrinsecamente mutevole. Sarà quindi importante disporre di metodiche e procedure diagnostiche sempre aggiornate, che consentano di riconoscere nei diversi campioni biologici (calcoli, urine, preparati istologici renali) l’eventuale presenza dei nuovi farmaci che si rendono disponibili.

 

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Farmaci e rene nel paziente anziano

Abstract

Con l’invecchiamento, fattori diversi contribuiscono a modificare la farmacocinetica e la farmacodinamica e quindi possono causare risultati clinici variabili e imprevedibili.

Con l’avanzare dell’età si modifica la composizione corporea, diminuisce il flusso ematico al fegato ed al rene con conseguente ridotta funzione di entrambi gli organi e quindi diminuito metabolismo e insufficiente eliminazione dei farmaci. D’altra parte gli anziani sono a maggior rischio nell’uso dei farmaci sia per le ragioni su elencate che per la presenza di più patologie che determinano l’assunzione di numerosi farmaci che possono interagire fra loro. Le minori riserve fisiologiche e le condizioni legate alla fragilità contribuiscono all’avverarsi di tossicità o eventi avversi legati alla terapia. A queste cause si aggiungono fattori legati al sistema sanitario come la frammentazione delle cure con più medici prescrittori e l’inadeguato training nel trattare il paziente anziano. Risulta quindi di fondamentale importanza la necessità di una corretta ricognizione e riconciliazione farmacologica.

La frequenza di reazioni avverse da farmaci è circa da tre a dieci volte superiore nel paziente anziano e clinicamente le reazioni avverse sono più gravi. Inoltre vi è una stretta relazione fra l’incidenza di reazioni avverse e funzione renale a sua volta responsabile di modificazioni nella farmacocinetica e farmacodinamica dei farmaci ed il rene è molto spesso l’organo bersaglio delle reazioni avverse da farmaci.

Parole chiave: Farmaci, rene, reazioni avverse, tossicità

Introduzione

Il mondo invecchia e con lui la sua popolazione. L’invecchiamento che da anni sembra riguardare solo i paesi occidentali ed industrializzati, coinvolgerà nei prossimi decenni anche i paesi in via di sviluppo e la popolazione con età superiore ai 65 anni passerà dall’8% nel 2015 a quasi il 20% nel 2050 (1). 

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