Decision Making, Legal Capacity, and Legal Protectionism of (Allegedly) Incapable People: the State of the Art in Italy

Abstract

Starting from the polysemy of capacity and its numerous expressive facets, the Author analyzes how and through which modalities the issue of the validity of consent and informed refusal is typically addressed in places of care. The discussion then moves on to examine the modifications brought about by the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities (CRPD) in this field, fully ratified by Italy, even though the law on informed consent and advance healthcare directives (Law No. 219 of 2017) did not take it into account. Finally, some practical suggestions are formulated to promote the virtuous practice of supported decision-making, which has not yet been developed in Italian care settings.

Keywords: legal capacity, decision-making capacity, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, legal protectionism

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Introduzione

A partire dalla polisemia della capacità (capacity), dai suoi complessi significanti e dal binarismo radicalizzato dal diritto italiano che la collega al suo estremo opposto cioè all’incapacità (inability o no self), in questo breve saggio saranno affrontate le catene del pregiudizio che si oppongono al principio dell’uguale riconoscimento davanti alla legge stabilito dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) adottata a New York nel 2006, pienamente ratificata anche dall’Italia (legge 3 marzo 2009, n. 18). L’obiettivo che mi prefiguro è di verificare in quali circostanze i clinici si pongono il problema della validità/invalidità del consenso e del rifiuto informato, con quali strumenti e con quali tecniche la decision making può essere esplorata nei luoghi della cura, se il modello scientifico di investigazione della razionalità cognitiva sia o meno a tenuta, la sua conformità e coerenza rispetto ai presupposti teorici del capability approach e se, infine, il pieno riconoscimento della capacità giuridica universale stabilito dall’art. 12 della CRPD possa esporre le persone più vulnerabili ad un ancora maggiore livello di rischio rispetto a quello attuale.

La scelta di proporre questa riflessione ai nefrologi italiani non è casuale; non lo è perché le questioni affrontate interrogano sempre più frequentemente il clinico [1] e per l’interesse che la Società italiana di Nefrologia (SIN) ha dimostrato avere su questa particolare tematica sia pur in riferimento all’avvio/sospensione del trattamento dialitico nelle persone anziane affette da una malattia renale cronica in fase avanzata [2].

 

La polisemia della capacità ed i suoi numerosi volti espressivi: la capacità giuridica (legal capacity) e la capacità di prendere una decisione libera e consapevole (decision making)

In linea generale, la capacità può essere rappresentata come l’attitudine del soggetto di essere l’(autentico) autore e l’unico (reale) protagonista delle personali scelte di vita. Al di là della sua apparente immediatezza, il concetto non è affatto semplice [3] per lo statuto autonomo delle sue diverse componenti interne e per le altre nozioni che ad esso si accostano scomponendone i livelli di problematicità; tra tutte, la responsabilità e la libertà, perché solo le persone libere sono in grado di valutare in piena autonomia ed indipendenza le circostanze della vita, di dare un giusto peso alle diverse opzioni che ci sono ogni qual volta si deve assumere una decisione e di controllare gli eventi ambientali che si oppongono a realizzare le loro personali preferenze in modo da finalizzare la scelta.

La capacità è così un costrutto filosofico-politico ampio e complesso la cui polisemia, riscontrabile già nel linguaggio comune, diventa ancor più evidente nel lessico giuridico per la pluralità dei contesti al cui interno essa ha trovato pieno accoglimento sia pur con colorazioni ed intensità diverse, non sovrapponibili, impossibili da mettere tra loro in relazione recuperando e condividendo una matrice trasversale comune [4]. Capacità giuridica (Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, art. 12), capacità di agire (legge n. 219 del 2017, art. 1, quinto comma), capacità di intendere e di volere (legge n. 219 del 2017, art. 4, primo comma e art. 5, primo comma), impossibilità di provvedere ai propri interessi (art. 404 c.c.), capacità di fare testamento (art. 591 c.c.), capacità di partecipare coscientemente al processo (art. 70 c.p.p.), capacità processuale (art. 75 c.p.c.), capacità per l’esercizio del diritto di voto (art. 48 Cost.) e capacità di prendere una decisione libera e consapevole (Corte cost., ord. n. 207 del 2018 e sent. n. 242 del 2019) sono, così, i volti con cui la capacità è stata recepita e formalizzata nei tanti luoghi del diritto italiano. A confermare la sua eclettica polisemia, acuita dai vaghi legami che si colgono quando si cerca di collegare lo spettro dei suoi molteplici significanti, dalle sovrapposizioni di senso che si colgono nelle sue molteplici espressioni, dalle loro palesi analogie e dalle loro profonde diversità.

Da qui l’esigenza di chiarire qual è la capacità sulla quale ci si deve focalizzare ogni qual volta si dubiti la validità, l’autenticità e la robustezza della decisione di cura assunta dalla persona senza essere condizionati dalla scelta compiuta dal legislatore italiano il quale, nella legge 22 dicembre 2017, n. 219 (‘Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento’), si è alternativamente richiamato alla capacità di agire (art. 1) e alla capacità di intendere e di volere (artt. 4 e 5) che sono figure giuridiche sicuramente correlate ma non del tutto sovrapponibili [5]. Con una scelta sicuramente infelice sulla quale non si è appiattito il Giudice costituzionale che sembra averne riconosciuto, con una decisione coraggiosa, la loro sostanziale inappropriatezza ammettendo che il fondamento della decision making è la capacità di prendere una decisione libera e consapevole [6]. Così invitandoci a ripensare le coordinate generali dell’autonomia decisionale della persona e a superare il dogma della soggettività giuridica e del presunto binarismo capacità/incapacità perché avulsi dai presupposti teorici del capability approach [7, 8] e dalla CRPD adottata a New York nel 2006 dall’Assemblea Generale dell’ONU. Cosicché è sulla capacità di prendere una decisione libera e consapevole che ci si dovrà focalizzare ogni qual volta si affronta la validità sia del consenso che del rifiuto informato nel campo della cura mettendo da parte gli stereotipi provocati da quell’astratto soggetto di diritto che si oppongono alla radicale mutazione antropologica prospettata dalla CRPD.

 

Le circostanze della vita reale in cui i medici si interrogano sulla robustezza e sull’autenticità della decisione di cura

Poniamoci ora un altro interrogativo chiedendoci in quali situazioni della pratica clinica la capacità della persona di accettare o di rifiutare la cura ponga problemi pratici potendo essere messa in discussione la sua robustezza, autenticità e validità. I contesti e le circostanze sono sicuramente eterogenei.

Dubbi sulla capacità decisionale emergono, infatti, ogni qual volta la scelta terapeutica di cui il titolare del diritto viene investito sia particolarmente ostica e difficile, in quelle situazioni cioè il cui esito finale non è dato per scontato potendo la scelta del bivio innescare ragionevoli e prevedibili effetti negativi sulla sua salute. Ciò a causa di un condizionamento di difesa rinforzato dal Codice di deontologia medica del 2014 il quale, proprio nelle situazioni gravate da un elevato rischio di mortalità o di effetti avversi, invita il professionista ad acquisire il consenso o il dissenso del paziente in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale (art. 35). Previsione, questa, rinforzata dalla legge n. 219 del 2017 che, all’art. 1, comma 4, ha previsto l’obbligo di raccogliere il consenso informato documentandolo sempre in forma scritta con l’ulteriore esigenza di ricorrere alla sua video-registrazione nell’ipotesi in cui ciò non sia possibile a causa dello stato clinico della persona.

La situazione più frequente è, tuttavia, quella in cui la persona oppone il suo rifiuto ad un trattamento terapeutico salva-vita perché ogni qual volta questo avviene ciò su cui si dubita è la ragionevolezza, la razionalità e la validità del rifiuto che espone la persona ad un rischio certo, soprattutto quando lo si esamini in astratto senza considerare qual è effettivamente il suo telaio identitario. Quasi che la razionalità e la ragionevolezza siano ambiti concettuali circoscritti, ben determinati o facilmente delimitabili che non ammettono gli schemi alternativi devianti dal comune sentire e quasi che l’assioma delle preferenze individuali sia estraniabile dal menù delle scelte e dalla volontà [9]. Dimenticando che la ragione non sorge mai sul nulla, anche perché la struttura complessa delle preferenze non sempre è destinata a massimizzare gli effetti della scelta finale coesistendo, in ogni persona umana, numerosi ordinamenti di propensioni valoriali non sempre in piena sintonia con le scelte realmente compiute. Ciò nonostante, è proprio nel caso del rifiuto terapeutico che i clinici mettono spesso in discussione la validità e la robustezza della scelta di cura e la prassi, in queste situazioni, è quella di far ricorso alla consulenza psichiatrica chiedendo un giudizio di valore sulla capacità di intendere e di volere della persona; quasi che la non accettazione della cura proposta e rifiutata sia la cartina al tornasole di un (presunto) disturbo psico-patologico che richiede la messa in protezione del presunto incapace e la sua sostituzione vicaria per il suo eterocontrollo guidato da altri. Per contro, nessun problema emerge nell’ipotesi di accettazione della cura proposta anche quando la decision making della persona non è a perfetta tenuta o a causa di una infermità mentale o per i variegati fattori ambientali capaci di influenzare e di condizionare la nostra autonomia mettendo a nudo la debolezza costitutiva dell’assunto cartesiano. Circostanza, questa, ben evidenziata dal Giudice delle leggi italiano nella sentenza che ha rigettato l’ammissibilità costituzionale del referendum popolare abrogativo per la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente e dell’eutanasia (sent. n. 50 del 2022) nella parte in cui la suprema Corte ha ammesso che

“le situazioni di vulnerabilità e debolezza […] non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili” [10].

Un’altra situazione, altrettanto frequente, in cui i clinici manifenstano dubbi sulla robustezza della scelta di cura è quella in cui la persona è affetta da una disabilità, soprattutto di natura mentale, intellettiva e cognitiva. In queste situazioni ciò che appare evidente è l’esistenza di un pregiudizio di fondo, ben radicato in tutti i luoghi della cura: l’interferenza negativa provocata da questi stati patologici sulla razionalità della scelta mediata dalla costante compromissione della capacità di intendere e di volere. Quasi ad ammettere, presuntivamente, che queste disabilità la inteferiscano sempre e comunque mettendo così fuori gioco gli stessi presupposti-base del consenso informato, senza considerare, come hanno fatto i Supremi giudici, che possono

“[…] esistere degli spazi di autonomia e libertà decisionale residui anche i pazienti sottoposti a TSO” essendo necessario, anche in queste pur marginalissime situazioni, “un approccio multi-dimensionale, basato sulla valutazione, nel singolo paziente, della capacità di prestare consenso […]” [11].

Capacità, quest’ultima, che non può essere confusa con la capacità di intendere e di volere che resta a fondamento dell’imputabilità perché posizionata su un piano del tutto diverso rispetto a quello in cui vive e si nutre la capacità di prendere una decisione libera e informata, risultando quest’ultima strettamente dipendente dall’identità di ogni essere umano, dal suo compasso biografico [12], dai suoi valori di riferimento, dalle sue legittime attese, dalle sue altrettanto legittime speranze, dalle sue relazioni, dai suoi desideri, preferenze, affetti e volontà. Di modo che anche le persone incapacitate per la non perfetta tenuta della loro capacità di intendere e di volere sono persone che, a tutti gli effetti, sono quasi sempre in grado di esprimere le loro preferenze, desideri e volontà, di avere interessi di esperienza, di auto-determinarsi nel campo della salute e di rifiutare anche la cura. Nonostante il diritto italiano, insistendo sulla loro messa in protezione e sostituzione vicaria sia pur con strumenti di variabile e progressiva intensità che indeboliscono le soggettività giuridiche finanche al punto di annullarle, abbia radicalizzato il protezionismo giuridico dei presunti incapaci che spesso tracima in tutele burocratiche non appropriate, inopportune e, soprattutto, discriminatorie [13]. Non solo perché la valutazione della decision making non poggia, come si vedrà tra un attimo, su basi scientifiche sufficientemente rigorose e riproducibili ma per il fatto che il suo accertamento realizzato sulla base dei soli presupposti clinici è, in buona sostanza, contrario alla ratio della CRPD.

 

La valutazione della capacità decisionale: gli orientamenti italiani

Un complesso ambito problematico sul quale si continua a discutere è se la razionalità del modello scientifico sia o meno in grado di esplorare la qualità, l’autenticità e la robustezza della decision making e di formulare, con il rigore previsto dal metodo della scienza sperimentale, un giudizio finale riproducibile e non contestabile perché formulato sulla base dei criteri previsti da una o più leggi scientifiche universali.

La questione è particolarmente complessa e qualche utilissima indicazione è stata, a questo riguardo, proposta a livello internazionale [14, 15] nel tentativo di correggere gli stili professionali banalizzanti pur senza generalizzare la complessità delle situazioni.

In Italia, lo hanno fatto in tempi relativamente recenti l’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) [16] e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che, in un ampio documento approvato dalla Conferenza delle Regioni e Provincie autonome [17], ha dato una definizione della decision making precisando che la sua valutazione rientra nella sfera di responsabilità affidata ai clinici che a ciò sono tenuti avvalendosi dei tradizionali strumenti dell’indagine neuro-psicologica coniugata con l’attenta valutazione funzionale di ciò che la persona è effettivamente in grado di fare nelle situazioni della vita reale in cui le sue capacità trovano concreta espressione. Con un approccio, quindi, multi-dimensionale il quale, a partire dal colloquio clinico-anamnestico, deve poi focalizzarsi sull’obiettività clinica integrandola, quando necessario, con la valutazione neuro-psicologica e con gli accertamenti diagnostico-strumentali atti ad escludere le forme secondarie trattabili di compromissione cognitiva. E con la proposta di un discutibilissimo algoritmo della capacità basato sulla presunta predittività di alcune scale proposte a livello internazionale che consentirebbero di selezionare due coorti di pazienti: (a) quelli con punteggi al Mini-mental state examination (MMSE o test di Folstein) compresi tra 20 e 30 che non avrebbero alcuna limitazione cognitiva; (b) e quelli con punteggi al MMSE inferiori a 20 (in alternativa Clinical dementia rating o CDR uguale o superiore a 2) che non sarebbero in grado di prestare il loro valido consenso/rifiuto informato e che potrebbero essere ulteriormente selezionati ricorrendo ad altre testistiche, nello specifico con il Mac Arthur Competence Assessment Tool-Treatment (MacCAT-7) composta da 21 ITEM e la cui somministrazione richiede 15-20 m’ o con metodiche analitiche più semplici come la San Diego Brief Assessment of Capacity to Consent (UBACC) particolarmente promettente per la sua semplicità ed applicabilità nella pratica clinica [18].

C’è naturalmente da chiedersi se queste batterie neuro-testistiche siano realmente in grado di individuare le persone capaci di prestare il loro consenso da quelle non in grado di farlo e che, come raccomandato dalla presa di posizione dell’Istituto superiore di sanità, dovrebbero essere avviate sulle strade previste per la loro incapacitazione legale. E con quale sensibilità e specificità visto e considerato che il MMSE proposto da Folstein nel lontano 1975 non è uno strumento diagnostico nato per questo specifico scopo e che le scale di valutazione più sofisticate, come la Mac CAT-7, pur esplorando i domini cognitivi più complessi (del ragionamento, della pianificazione, della scelta e del controllo) eludono quegli altri aspetti (sociali, relazionali, affettivi ed emozionali) [19] che modulano, spesso inconsciamente, ogni nostro processo deduttivo riducendo o amplificando le diverse opzioni del menù di scelta [20, 21]. Perché la razionalità è un processo straordinariamente complesso, spesso fallibile in quanto influenzato da altri processi, non solo cognitivi (l’attenzione e la capacità di memorizzare più informazioni operando su di esse) ma anche emotivi, sociali [22] e ambientali. Dovendoci chiedere se la selezione, per così dire algoritmica, di chi è in grado di assumere una decisione di cura da chi non lo è possa essere realisticamente fatta ricorrendo a questi diffusi strumenti diagnostici e se il tradizionale modello scientifico, con il suo spettro logico a matrice ipotetica-deduttiva [23], sia uno strumento adatto a realizzare questo particolarissimo scopo e se esso sia o no conforme a quanto previsto dall’art. 12 della CRPD e dall’esigenza di non discriminare le persone nell’esercizio dei loro diritti di libertà.

 

Decision making e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità: l’uguale riconoscimento davanti alla legge

Il tramonto del modello dell’incapacitazione legale dei presunti incapaci è una tra le conseguenze più importanti e più impattanti provocate dall’approvazione della CRPD e dalla sua successiva ratifica da parte degli Stati che a questo trattato internazionale hanno deciso di aderire. Purtroppo, se ne è discusso troppo poco negli ambienti di cura fors’anche a causa della amnesia di cui spesso soffre il legislatore italiano il quale, nell’approvare la legge n. 219 del 2017, sembra non essersi accorto del salto di prospettiva imposto dall’art. 12 della Convenzione ONU. Così confermando e rinforzando il ruolo di sostituzione vicaria esercito dal tutore nel caso degli interdetti e nel caso delle persone in ammnistrazione di sostegno proprio da questa figura di rappresentanza giuridica fermo restando che nel caso della persona inabilitata per un vizio di mente non così grave da procedere alla sua interdizione è proprio quest’ultima che deve esprimere il suo consenso o il suo rifiuto alla proposta di cura. Causando una tra le tante incoerenze presenti nel nostro ordinamento interno che, non raramente, sembra improvvisamente aprirsi al cambio di prospettiva imposto dalle profonde trasformazioni epocali in corso per poi chiudersi a riccio quando si tratta di declinarle per dar forma e sostanza ai diritti inviolabili della persona umana.

Per il tema qui in discussione l’incoerenza è di tutta evidenza e di altrettanta evidenza sono le sue ricadute pratiche perché la capacità giuridica universale introdotta dalla CRPD e sulla base della quale le persone non possono essere discriminate ogni qual volta esse debbano assumere una scelta (anche di cura), prima accolta dal nostro ordinamento interno è stata poi da esso frettolosamente espulsa con l’aggravante che ciò è avvenuto con l’approvazione di una una norma che disciplina proprio l’attività di cura. Quando si sarebbe dovuto declinare il salto di prospettiva imposto dalla CRPD prevedendo quali concrete azioni professionali avrebbero dovuto rinforzare la pratica del sostegno e del supporto decisionale offerto alla persona (supported decision making) e che, si badi bene, non dipendono dall’esistenza di una infermità poiché, come ha rilevato l’organo dell’ONU incaricato di vigilare sulla applicazione della CRPD (il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità), non si può più mettere in discussione la capacità giuridica della persona sulla base dell’esistenza di una presunta o accertata incapacità mentale [24]. Risultando, di conseguenza, non più legittime quelle norme che privano o limitano la libertà della persona, che consentono la nomina del rappresentante legale contro la sua volontà e che ammettono che il decisore possa scegliere sostituendosi alla persona stessa sulla base del criterio di un interesse superiore (best interest) il quale deve comunque tener conto della volontà del diretto interessato espressa nell’attualità o in forma anche anticipata (con le disposizioni anticipate di trattamento e con la pianificazione anticipata della cura) e delle sue personali preferenze.

 

Conclusioni

La situazione resta molto complessa ogni qual volta, in tutti i luoghi della cura, si pone il problema della validità/invalidità del consenso e del rifiuto informato. In questi luoghi, anche e forse soprattutto a causa delle (incomprensibili) amnesie di cui spesso soffre il legislatore italiano, l’idea che la decision making sia da subordinare all’integrità della capacità di intendere e di volere e la convinzione che quest’ultima capacità possa essere indagata avvalendosi dell’utilizzo della consulenza psichiatrica e/o di strumenti psicometrici validati per altri scopi e con altre finalità sono pregiudizi purtroppo ancora diffusi che si oppongono al salto di prospettiva imposto dalla CRPD. Anche le prese di posizione assunte, al riguardo, dalle Società scientifiche italiane e dall’Istituto superiore di sanità disarmano e non aiutano il clinico il quale si trova spesso da solo nel mezzo del guado, costretto a districarsi nel complesso groviglio prodotto da regole giuridiche diverse, spesso antinomiche e comunque di non agevole composizione; coesistendo norme che radicalizzano la messa in protezione giuridica dei (presunti) incapaci (come ha fatto la legge n. 219 del 2017) e norme più liberali (CRPD) che, valorizzando la capacità giuridica universale, non ammettono l’opzione di poterle discriminare nella scelta di cura a causa della loro infermità, qualunque essa sia (intellettiva, mentale o cognitiva).

In questa sitazione contraddistinta dalla mancanza di una definita e chiara direzione di marcia ciò che dobbiamo responsabilmente chiederci è che cosa il clinico possa concretamente fare ogni qual volta siano in discussione l’autenticità e la robustezza della decision making senza cedere alla tirannia del paternalismo e a quella opposta dell’antipaternalismo che non risolvono le asimmetrie e le solitudini decisionali insite nel crocevia della cura.

In queste situazioni occorre, in primo luogo, mettere da parte i pregiudizi ed i bias cognitivi radicati nelle comunità professionali ammettendo che la fragilità e la vulnerabilità umana non sono sempre il prodotto finale di una qualche forma di disabilità e che la decision making è una realtà estremamente variegata e complessa che risente non solo di variabili cognitive ma di tutta una serie di altri fattori (sociali, ambientali, affettivi ed emozionali) che sono in grado di indirizzarla e di condizionarla. Su questi fattori occorre che il clinico ponga la sua massima attenzione per riconoscerli e caratterizzarli così da offrire ad ogni persona il sostegno umano e professionale che apre alla possibilità di poter esprimere, anche in forma anticipata, la sua volontà e le sue personali preferenze. Senza cedere all’inerzia che di regola provoca la loro incapacitazione legale perché anche chi rappresenta i legittimi interessi della persona non può sottrarsi alla volontà ed alle preferenze espresse da quest’ultima. È solo così che si legittima quel ruolo di garanzia [1] che grava comunque sul medico il quale deve sì rispettare il principio di auto-determinazione anche quando etero-diretta da chi ne ha piena facoltà e legittimità senza però mai abdicare al rispetto della dignità umana soprattutto nel caso di particolare fragilità o vulnerabilità della persona. In queste situazioni occorre così grande attenzione e prudenza dovendoci comunque chiedere se la brusca interruzione “may end up hurting the very people it purports to help” [25] e se le persone più deboli, liberate finalmente dalle catene dell’incapacitazione legale e della sostituzione vicaria come previsto dalla CRPD, non possano trovarsi ancor più esposte al rischio di essere ancora emarginate o abbandonate al loro triste destino. Perché, a ben riflettere, il rischio è reale e lo è in questo particolare momento storico in cui, come purtroppo confermato da recenti casi di cronaca [26], la cultura dello scarto è sempre più pervasiva e diffusa e perché la sfida posta dalla legal capacity universale è una sfida problematica che non potrà sortire gli effetti desiderati se non sarà implementato il supported decision making con un ruolo attivo esercitato, proprio a questo riguardo, dal clinico.

Il superamento dei dispositivi di esclusione radicalizzati dal diritto italiano e che operano nei confronti delle identità più fragili e vulnerabili dovrà così avvenire in maniera graduale e, soprattutto, prudente. Coinvolgendo anche i medici perché, pur essendo da accettare l’idea che il modello scientifico non è da solo in grado di esplorare a fondo la capacità di prendere una decisione libera e consapevole, vero è altrettanto che chi esercita un ruolo di garanzia nei confronti dei più deboli deve prodigarsi per contenere gli abusi, le discriminazioni e le disuguaglianze. Finanche al punto tale da segnalarle all’Autorità giudiziaria come prevede del tutto correttamente il Codice di deontologia medica del 2014 ogni qual volta chi dovrebbe perseguire gli interessi dei più fragili e vulnerabili si oppone o addirittura pretende scelte di cura con ciò incompatibili.

 

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