Tic douloureux sostenuto da un tumore oculare

Abstract

La malattia neoplastica è una importante causa di morbilità e mortalità nei portatori di trapianto di organo solido. I carcinomi cutanei non melanomatosi come il carcinoma basocellulare (BCC) e il carcinoma squamocellulare (SCC) sono molto comuni nei trapiantati di rene. Riportiamo il caso di un trapiantato renale di 75 anni che ha sofferto di un SCC originato da una ghiandola lacrimale minore.

Un uomo di 75 anni in cui era stata diagnosticata una glomerulopatia nel 1967 e che aveva successivamente iniziato il trattamento emodialitico, nel 1989 è stato sottoposto a trapianto di rene da donatore vivente. Nel 2019 sono comparse parestesie e dolore all’arcata sopraciliare destra riferiti a neuropatia sensitiva del V nervo cranico. L’inefficacia della terapia e la comparsa di una neoformazione palpebrale unitamente ad esoftalmo hanno condizionato l’esecuzione di una risonanza magnetica. L’indagine bioptica ha deposto per un SCC che ha condizionato una exenteratio orbitae.

Nonostante il tumore cutaneo non melanomatoso dell’occhio costituisca una condizione molto rara, la presenza di fattori di rischio quali il sesso maschile, la storia di glomerulopatia e la durata dell’immunosoppressione, costituiscono fattori che dovrebbero spingere il clinico a mantenere un elevato livello di attenzione sui sintomi oculari.

Parole chiave: Trapianto renale, immunosoppressione, tumore cutaneo non melanomatoso, tumore dell’occhio

Introduzione

La malattia neoplastica rappresenta la seconda causa di morte nei pazienti portatori di trapianto di organo solido [1]. In particolare, i tumori cutanei non melanomatosi – tra cui il carcinoma basocellulare (BCC) e il carcinoma squamocellulare (SCC) – sono molto comuni in questa popolazione, soprattutto nei pazienti portatori di trapianto renale [2]. Secondo uno studio italiano [3], l’incidenza globale di tumori cutanei non melanomatosi dopo trapianto di rene è di circa 10 casi per 1000 persone/anno (con incidenza cumulativa del 5,8% entro 5 anni dal trapianto e del 10,8% entro 10 anni); inoltre, nei trapiantati il rischio di sviluppare SCC e BCC è notevolmente superiore rispetto alla popolazione generale. Anche le lesioni precancerose, come la cheratosi attinica, sono più frequenti nei portatori di graft, con un’incidenza 250 volte superiore rispetto alla popolazione generale [4].

Lo sviluppo di tumori cutanei non melanomatosi è correlato all’immunosoppressione farmacologica (proporzionalmente alla dose e alla durata della terapia), e all’esposizione cumulativa ai raggi ultravioletti [5], oltre al sesso, all’età anagrafica e all’età del trapianto [6, 7].

A livello oculare, il SCC sembra avere origine nel limbus, la zona di transizione tra epitelio congiuntivale bulbare ed epitelio corneale, e generalmente coinvolge tanto la congiuntiva quanto la cornea [8].

In uno studio di coorte condotto su una popolazione australiana di più di diecimila trapiantati di rene, sono stati descritti soltanto 5 casi di SCC oculare, tutti in soggetti con anamnesi positiva per glomerulonefrite [9].

Riportiamo un caso di SCC originato da una ghiandola lacrimale minore in un paziente di 75 anni, portatore di trapianto renale e in duplice terapia anti-rigetto (azatioprina e steroide).

 

Caso clinico

A causa di una glomerulopatia diagnosticata nel 1967, la funzione renale del Paziente è peggiorata progressivamente nell’arco di due decadi. Dopo un anno di trattamento emodialitico sostitutivo, il Paziente è stato sottoposto, infine, a trapianto di rene da donatore vivente (1989), con inizio della terapia con ciclosporina A (poi sospesa dopo circa tre anni per evidenza bioptica di nefrotossicità da inibitori della calcineurina). Nel 1992, in seguito a sospensione della ciclosporina A, è stata asportata una lesione ipercheratosica sospetta a livello del gomito destro.

Nell’agosto 2019, per la comparsa di dolore e parestesie a livello dell’arcata sopracciliare destra associati a dolorabilità alla digitopressione in corrispondenza della branca oftalmica del nervo trigemino (indice di neuropatia sensitiva del V nervo cranico), il Paziente è stato sottoposto a risonanza magnetica (RMN) con riscontro di encefalopatia ischemica cronica a livello della sostanza bianca dei centri semiovali e della corona radiata, bilateralmente, in assenza di lesioni espansive/eteroplastiche. Malgrado la terapia antalgica con carbamazepina e gabapentin (protratta per circa 6 mesi), la sintomatologia neuropatica non è regredita e si è progressivamente associata a esoftalmo e a comparsa di neoformazione palpebrale superiore destra. Una seconda RMN ha, in seguito, dimostrato la presenza di una lesione espansiva retrobulbare destra, bilobata, sovracentimetrica (39×22×16 mm3 circa), a prevalente localizzazione extra-conale, determinante dislocazione caudale del muscolo retto superiore omolaterale (Figura 1).

Figura 1: Risonanza magnetica del globo oculare che evidenzia la presenza della massa.
Figura 1: Risonanza magnetica del globo oculare che evidenzia la presenza della massa.

L’indagine istologica su campione bioptico ha evidenziato la presenza di tessuto fibroadiposo con foci di SCC infiltrante, moderatamente differenziato, in rapporto a formazione cistica rivestita da epitelio cubico semplice (con aree di metaplasia squamosa e di displasia focale). Il reperto, compatibile con SCC a verosimile origine da un dotto lacrimale minore, ha reso necessario l’intervento chirurgico di exenteratio orbitae destra e di plastica con lembo di muscolo temporale. L’indagine istologica su campione operatorio ha confermato la diagnosi di SCC del tessuto fibroadiposo periorbitario (prevalentemente cistico); ha evidenziato, inoltre, alcuni foci di infiltrazione perineurale e di cheratosi attinica bowenoide. Data la natura radicale dell’intervento, non è stata posta indicazione a chemio- e radio-terapia adiuvante.

 

Discussione

Il caso clinico presentato dimostra che un quadro clinico apparentemente compatibile con nevralgia trigeminale aspecifica può, in realtà, mascherare un quadro patologico severo quale una lesione neoplastica. A conforto di tale assunto c’è l’evidenza che un’anamnesi positiva per glomerulonefrite è un fattore predisponente alla comparsa di SCC oculare nei pazienti portatori di trapianto renale [9].

Nel nostro caso, lo SCC oculare ha avuto una peculiare presentazione clinica aspecifica e tardiva, che ha reso l’intervento chirurgico radicale la sola terapia possibile.

Stando alla letteratura [10], circa il 19% dei pazienti portatori di trapianto renale sviluppa almeno una neoplasia cutanea maligna nella sua vita (con incidenza cumulativa del 60% a 20 anni dal trapianto); di questi, fino al 64% presenta lesioni multiple (più frequentemente foci di SCC). Da qui la necessità di un follow-up dermatologico al fine di ottenere una diagnosi precoce. Tale atteggiamento trova supporto anche in altre casistiche [11], da cui si può sussumere la raccomandazione a un’attenta sorveglianza dei pazienti trapiantati con indicazione a eseguire la biopsia cutanea anche in caso di lesioni con minimo sospetto di malignità. La diagnosi e il trattamento adeguati e tempestivi dei tumori cutanei non melanomatosi, infatti, sono fondamentali per prevenire la comparsa di secondarismi [12].

Va sottolineato che il sesso maschile, il fumo di sigaretta, il colore chiaro dell’iride e la familiarità per neoplasie sono fattori di rischio per lo sviluppo di queste lesioni. Lo SCC oculare, inoltre, ha maggiore incidenza nei soggetti con immunocompromissione congenita o acquisita e si configura spesso come un’invasione locale a partire da una lesione cutanea primitiva. Nei pazienti in terapia immunosoppressiva, inoltre, va presa in considerazione la dose cumulativa di immunosoppressore, come suggerito dai dati di registro [13], anche in considerazione del dato, nient’affatto trascurabile, che nei portatori di trapianto renale la sopravvivenza è migliorata e l’età media al trapianto aumentata [14].

 

Conclusioni

Il tumore cutaneo non melanomatoso dell’occhio è una patologia rara e va sospettata nei pazienti portatori di trapianto renale con sintomatologia sospetta, soprattutto in caso di storia di glomerulonefrite. I pazienti sono solitamente di sesso maschile, fumatori e presentano un’elevata dose cumulativa di immunosoppressore. Sebbene i tumori della cute non siano associati a mortalità durante il ricovero [15], è importante sottolineare, come dimostra il caso proposto, che non bisogna sottovalutare sintomi apparentemente associati a quadri clinici di entità lieve o, addirittura, trascurabile. La prevenzione attraverso un attento follow-up dermatologico è fondamentale per l’eradicazione precoce della patologia.

 

Bibliografia

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Coinvolgimento renale nel LES

Abstract

La nefrite lupica (NL) è una manifestazione frequente e severa di lupus eritematoso sistemico (LES). Clinicamente la NL può presentarsi con quadri clinici estremamente variabili, da anomalie urinarie isolate a quadri di glomerulonefrite rapidamente progressiva. La biopsia renale rimane il gold standard per la diagnosi di NL, in quanto non sempre la presentazione clinico-laboratoristica correla con il dato istologico. Il trattamento della NL prevede terapie di supporto e terapie immunosoppressive mirate con una fase di induzione, oggi chiamata terapia iniziale, e una fase di mantenimento, oggi chiamata terapia successiva. Accanto ai farmaci più utilizzati quali steroidi, micofenolato mofetile e ciclofosfamide, negli ultimi decenni sono stati introdotti nuovi farmaci quali gli inibitori delle calcineurine (voclosporina) e gli anticorpi monoclonali come belimumab, e rituximab. Sebbene il rischio di progressione a malattia renale terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e la sopravvivenza di questi pazienti siano significativamente migliorati dagli anni ‘70 ad oggi, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo. Diagnosi precoce, protocolli terapeutici più mirati, migliore prevenzione e gestione delle complicanze sono tra i fattori più importanti per la prognosi di questi pazienti.

Parole chiave: nefrite lupica, immunosoppressione, malattia renale cronica terminale, remissione

Introduzione

Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia cronica autoimmune sistemica, che colpisce maggiormente giovani donne, in età fertile, con un rapporto donne/uomini compreso tra 8:1 e 15:1, che scende a 4:3 in età pre-pubere e nei bambini [1, 2]. Il coinvolgimento renale in corso di LES è molto frequente ed è riscontrato in circa il 40% dei pazienti. Sebbene la prognosi dei pazienti affetti da nefrite lupica (NL) sia migliorata negli ultimi decenni grazie a diagnosi precoci, all’uso di protocolli terapeutici mirati e a migliori terapie di supporto, la sopravvivenza di questi pazienti continua ad essere inferiore a quella dei pazienti affetti da LES senza interessamento renale [3]. Insieme a infezioni, neoplasie ed eventi cardiovascolari improvvisi, la NL rappresenta ancora oggi una delle più comuni cause di morte [4-8].

Hanly et al descrivono una coorte internazionale incidente di 1826 pazienti affetti da LES. La NL, diagnosticata in 700 pazienti (il 38,3%), è più frequente in pazienti giovani, di sesso maschile e di razza non caucasica; purtroppo però in questo studio solo il 56,4% dei pazienti sono stati sottoposti a biopsia renale. Negli afroamericani la NL, oltre ad essere più frequente, si presenta più precocemente, con quadri più aggressivi e con una maggior incidenza di malattia proliferativa diffusa alla biopsia renale rispetto alle altre etnie [9, 10].

 

Manifestazioni cliniche 

L’esordio clinico renale è molto spesso subdolo e asintomatico e la diagnosi di NL si basa su un complesso inquadramento clinico-patologico. Da ciò si evince l’importanza di uno stretto follow-up della funzione renale e dell’esame urine con rapida esecuzione di biopsia renale se presenti segni clinico-laboratoristici sospetti. La maggior parte dei pazienti sviluppa interessamento renale nei primi 5 anni dalla diagnosi di LES anche se può manifestarsi come prima manifestazione di malattia [10]. L’interessamento renale in corso di LES è stato definito dai criteri dell’American College of Rheumathology (ACR) del 1982 dalla presenza di proteinuria maggiore di 500 mg/die o 3+ al dipstick urine e/o di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario [11]. I criteri del 2012 del Systemic Lupus International Collaborating Clinics (SLICC) hanno confermato come criterio clinico di interessamento renale la proteinuria delle 24 ore > 500 mg/die (o rapporto proteinuria/creatininuria P/C > 500 mg/g su campione estemporaneo) e/o la presenza di cilindri ematici al sedimento urinario. Inoltre, la presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale, secondo la classificazione dell’International Society of Nephrology/Renal Pathology Society (ISN/RPS) [12], in associazione a positività degli anticorpi anti-nucleo (ANA) o degli anti-double stranded (dsDNA), è sufficiente a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia [13]. Negli ultimi criteri classificativi del 2019 dell’ACR e dell’European Legue Against Rheumathism (EULAR) è stata introdotta la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES e sottolineata l’importanza della biopsia renale; la presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale, infatti, rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES (Tabella1) [14].

 

Criteri ACR del 1997*

Proteinuria persistente maggiore di 500 mg/24 ore o proteine > 3+ al dipstick urinario

e/o

Presenza di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario (ematici, granulari, tubulari o misti)

 

Criteri SLICC del 2012**

Proteinuria delle 24 ore > 500 mg/24 ore o rapporto P/C > 500 mg/g su campione urine estemporaneo

e/o

Presenza di cilindri ematici al sedimento urinario

e/o

Presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale (secondo la classificazione dell’ISN/RPS). Quest’ultima, in associazione a positività degli ANA o dei dsDNA, è sufficiente da sola a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia

 

Criteri EULAR/ACR del 2019***

Proteinuria > 500 mg/24 ore o rapporto P/C equivalente su campione urine estemporaneo

e/o

Biopsia renale compatibile con nefrite lupica (secondo la classificazione dell’ISN/RPS).

La presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES.

Tabella 1: Criteri classificativi di interessamento renale nel LES [11-14].
ACR: American College of Rheumatology; SLICC: Systemic Lupus International Collaborating Clinics; P/C: proteinuria/creatininuria; LES: lupus eritematoso sistemico; ISN/RPS: International Society of Nephrology/Renal Pathology Society; ANA: anticorpi anti-nucleo; dsDNA,:anti-double stranded; EULAR: European League Against Rheumatism.
*La classificazione ACR si basa su 11 criteri. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 degli 11 criteri classificativi.
**La classificazione SLICC si basa su 17 criteri, divisi in clinici (tra cui l’interessamento renale) e immunologici. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 criteri, di cui almeno 1 clinico e 1 immunologico o in presenza di biopsia renale compatibile con nefrite lupica in associazione a positività degli ANA o dei ds-DNA, anche in assenza di altri criteri.
***I criteri EULAR/ACR richiedono la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES. I criteri aggiuntivi sono 7 clinici (tra cui l’interessamento renale) e 3 immunologici, ognuno dei quali ha un punteggio da 2 a 10. La diagnosi di LES è possibile in presenza di ANA positivi e almeno 10 punti.

Le manifestazioni cliniche renali variano da anomalie urinarie isolate (proteinuria subnefrosica e/o microematuria glomerulare in assenza di alterazione della funzione renale) a quadri più severi quali sindrome nefrosica, sindrome nefritica o forme di glomerulonefrite rapidamente progressiva con insufficienza renale. In una recente casistica italiana di 499 pazienti affetti da NL, il 40,7% dei pazienti presenta anomalie urinarie isolate al momento della diagnosi, il 34,9% sindrome nefrosica, il 18,4% sindrome nefritica acuta e il 9% insufficienza renale rapidamente progressiva. Questi pazienti sono stati divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016. L’analisi dei tre gruppi ha mostrato significative differenze sia in termini epidemiologici che di presentazione clinico-laboratoristica. Dal 1970 al 2016 si è registrato, infatti, un progressivo aumento del numero di pazienti di sesso maschile (6,6% vs 12% vs 20%) e dell’età al momento della diagnosi (28,4 vs 28,9 vs 34,4). Dal punto di vista clinico, dalla primo al terzo periodo, è stata riscontrata una significativa riduzione di sindromi nefritiche e delle forme rapidamente progressive (da 29% a 12% e da 13,3% a 3,3% rispettivamente) a fronte di un incremento delle anomalie urinarie isolate (da 27% a 49%). Questi ultimi dati sono verosimilmente legati a una diagnosi precoce di NL (Figura 1) [15].

Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata
Figura 1: Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata con biopsia renale e seguiti dal 1970 al 2016, divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016.

 

Classificazione istologica e correlazione clinico-patologica

La biopsia renale percutanea è elemento fondamentale per la diagnosi e la classificazione della NL. Già nel 1999 venne dimostrata l’importanza della biopsia renale, in quanto le manifestazioni cliniche non sempre correlano con il dato istologico e anomalie urinarie isolate possono associarsi a quadri proliferativi alla biopsia renale [16-18]. L’analisi istologica ci permette di differenziare la NL in classi istopatologiche, di classificare la gravità del coinvolgimento renale in termini di attività e cronicità del danno parenchimale e di escludere altre patologie renali quali la microangiopatia trombotica, altri tipi di glomerulonefrite (IgA nephropathy ad esempio), podocitopatie non da immunocomplessi e quadri di nefrite tubulointerstiziale o di necrosi tubulare acuta [19-21].

La biopsia renale è indicata in tutti i pazienti con proteinuria > 500 mg/24 ore o con P/C > 500 mg/g (50 mg/mmol), microematuria glomerulare con o senza cast eritrocitari o in presenza di alterazione della funzione renale non attribuibile ad altra causa specifica. Anche in presenza di leucocituria o piuria persistente, dopo un completo screening diagnostico, può essere utile l’esecuzione di biopsia renale [22-24]. La NL è divisa in sei classi istologiche in base alla presenza di specifiche lesioni microscopiche e alla distribuzione degli immunocomplessi (IC), secondo la classificazione istologica ISN/RPS del 2003 poi revisionata nel 2018. Al momento non esistono marcatori sierici o urinari in grado di predire la classe istologica [12, 25].

La classe I o minima mesangiale è rara, ha una prevalenza dell’1% e del 2,3% negli adulti e nei bambini rispettivamente in quanto questi pazienti tipicamente presentano minima proteinuria e funzione renale nella norma. All’immunofluorescenza (IF) e alla microscopia elettronica (ME) si evidenziano immunodepositi mesangiali di C3 e di immunoglobuline (soprattutto IgG e IgM) in assenza di anomalie alla microscopia ottica (MO) [26]. La classe II o proliferativa mesangiale rappresenta il 7-22% di tutti i casi e si presenta clinicamente con microematuria glomerulare, proteinuria subnefrosica e funzione renale nella norma. Questa è caratterizzata da ipercellularità mesangiale ed espansione della matrice mesangiale alla MO, con immunodepositi mesangiali e pochi depositi subepiteliali e subendoteliali visibili unicamente all’IF o alla ME. La prognosi di questa classe istologica è buona e non richiede terapia specifica anche se il rischio di progressione a proliferativa diffusa può raggiungere il 47% [27]. Nella classe III o proliferativa focale < 50% dei glomeruli presenta alla MO ipercellularità endocapillare o extracapillare, segmentale o globale, ma depositi mesangiali e subendoteliali diffusi alla ME, positivi per IgG e C3 all’IF. La classe IV o proliferativa diffusa è la classe istologica più frequente (rappresenta 50% di tutte le biopsie). Istologicamente più del 50% dei glomeruli è coinvolto e presenta ipercellularità, lesioni necrotizzanti e anche in alcuni casi proliferazione extracapillare con formazione di semilune. All’IF ci sono depositi di immunoglobuline (specialmente di IgG) e complemento (soprattutto C3). La ME mostra depositi subendoteliali con o senza alterazioni mesangiali. Le classi proliferative si presentano tipicamente con microematuria glomerulare e proteinuria, anche se alcuni pazienti possono presentare sindrome nefrosica, sindrome nefritica, ipertensione arteriosa o riduzione del filtrato glomerulare con rapida progressione verso l’insufficienza renale. I pazienti hanno livelli di complementemia ridotti (specialmente C3) ed elevati livelli di ds-DNA soprattutto in corso di malattia attiva [28]. Le classi III e IV sono associate a prognosi peggiore, con maggior rischio di progressione a malattia renale cronica terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e necessitano di trattamento immunosoppressivo [29]. La classe V o nefropatia membranosa lupica rappresenta il 10-20% dei pazienti con interessamento renale [30, 31]. I pazienti presentano tipicamente sindrome nefrosica con quadro molto simile ai pazienti con nefropatia membranosa idiopatica. Dal punto di vista istologico è caratterizzata da ispessimento delle membrane basali glomerulari alla MO, immunodepositi subepiteliali con coinvolgimento segmentale o globale all’IF e alla ME. Può essere riscontrata in combinazione con le classi III o IV e in tal caso la diagnosi è mista; negli anni si è visto un aumento delle forme miste (III/IV+ V) (Tabella 2).

Classe I Glomeruli normali alla Microscopia ottica e depositi mesangiali alla Immunofluorescenza e Microscopia elettronica
Classe II Aumento della cellularità mesangiale e depositi mesangiali
Classe III Proliferazione focale e segmentaria o globale estesa a meno del 50% dei glomeruli in fase attiva (A) o cronica (C) (A, AC, C)
Classe IV Come la classe terza, ma coinvolge più del 50% dei glomeruli
Classe V Glomerulonefrite membranosa con depositi subepiteliali a distribuzione globale o segmentaria
Classe VI Lesioni sclerotiche estese a più del 90% dei glomeruli
Tabella 2: Classificazione istologica ISN/RPS nefrite lupica [25].

La classe V non presenta tipicamente manifestazioni cliniche o sierologiche tipiche del LES, con livelli di complementemia nella norma e autoimmunità negativa. La velocità di progressione a ESKD è lenta ma può associarsi a importanti complicanze correlate alla sindrome nefrosica quali eventi trombotici e infezioni [32]. La classe VI o di sclerosi avanzata è caratterizzata da glomerulosclerosi in più del 90% dei glomeruli, rappresenta lo stadio terminale dei processi infiammatori a carico dei glomeruli ed è associata a sedimento urinario inattivo, proteinuria di vario grado e progressione verso l’insufficienza renale [33].

La revisione della classificazione del 2018 ha introdotto un indice di attività e cronicità di malattia in sostituzione delle precedenti lesioni attive e croniche delle classi proliferative e ha eliminato la precedente distinzione tra segmentale (S) e globale (G) delle classi III e IV [25]. È stato sostituito il termine ‘proliferativo’ con ‘ipercellularità’ e sono state introdotte definizioni di caratteristiche istologiche tipiche, quali la definizione di podocitopatia, intesa come presenza di fusione pedicellare alla ME anche in pazienti con lesioni minime alla MO, con o senza IC; quest’ultima si presenta con sindrome nefrosica ed è più facilmente associata a progressione a ESKD [34].

Nella casistica italiana di 499 pazienti sopracitata, il 53,7 % dei pazienti presentava una glomerulonefrite proliferativa diffusa (classe IV) alla biopsia renale, il 22,8% una glomerulonefrite proliferativa focale (classe III), il 17,2% una nefropatia membranosa lupica (classe V) e il 4,4% una proliferativa mesangiale (classe II) (Figura 2). L’analisi istologica nei gruppi non ha mostrato differenze in termini di classi istologiche e di attività di malattia nei tre periodi, ma si è riscontrata una significativa progressiva riduzione dell’indice di cronicità nei pazienti sottoposti a biopsia dal primo al terzo. Quest’ultimo dato, unito al fatto che i pazienti biopsiati dal 2001 al 2016 presentavano più frequentemente anomalie urinarie isolate al momento della biopsia, conferma l’importanza della diagnosi precoce in termini prognostici [15].

Una seconda biopsia renale è indicata in caso di peggioramento della funzione renale, importante aumento della proteinuria o comparsa di sedimento urinario attivo oltre che in caso di non risposta al trattamento [35]. In un recente studio l’indicazione alla rivalutazione istologica potrebbe essere utile per guidare la sospensione della terapia immunosoppressiva [36].

Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica
Figura 2: Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica, diagnosticati tra il 1970 e il 2016.

 

Trattamento

L’approccio terapeutico nella NL è guidato dai dati clinico-istologici, in particolare non solo dalla classe istologica ma anche dal grado di attività o cronicità di malattia (activity index) e dalla presenza di lesioni alla biopsia renale, quali l’interessamento tubulo-interstiziale o microangiopatia trombotica.

In accordo con le ultime raccomandazioni EULAR, l’obiettivo della terapia della NL è preservare la funzione renale, ridurre le recidive, controllare le comorbidità e migliorare così la mortalità dei pazienti. Inoltre, è fondamentale prevenire le tossicità iatrogene, in particolare preservare la fertilità [18, 24]. In tutti i pazienti affetti da NL è raccomandata un’adeguata terapia di supporto volta a ridurre il rischio cardiovascolare (controllo delle dislipidemie, sospensione del fumo, controllo del peso corporeo), migliorare i valori di proteinuria (controllo della pressione arteriosa, inibizione del sistema renina angiotensina aldosterone (RAAS)), ridurre il rischio infettivo (di vaccinazioni, profilassi farmacologica per infezioni opportunistiche) e prevenire i danni farmacologici legati a trattamenti prolungati (controllo osteoporosi, screening oncologici e percorsi per preservare la fertilità) [37]. Nelle classi proliferative (III e IV) e nella classe V, accanto alla terapia di supporto, è necessario un trattamento immunosoppressivo. Da decenni l’utilizzo di protocolli terapeutici sempre più mirati, ha migliorato la prognosi di questi pazienti.

Per le classi I e II le attuali raccomandazioni non includono terapia con immunosoppressori ma sola terapia di supporto. Nelle classi III e IV i protocolli terapeutici prevedono una fase di induzione e una fase di mantenimento, oggi definite terapia iniziale e terapia successiva rispettivamente. La terapia iniziale dura 3-6 mesi, ha l’obiettivo di ottenere la remissione della malattia infiammatoria renale acuta ed è basata sull’uso corticosteroidi in associazione a farmaci immunosoppressori. Al fine di ridurre la dose cumulativa dello steroide e degli effetti collaterali ad esso correlati, è raccomandata la somministrazione di steroidi ev ad alte dosi (boli di metilprednisolone con dose cumulativa compresa tra 500 e 2500 mg, suddivisi in 3 boli in 3 giorni consecutivi) seguita da terapia per os (prednisone 0,3-0,5 mg/kg/die), da ridurre a ≤ 7,5 mg/die in 3-6 mesi.  L’utilizzo di prednisone per os (prednisone 1 mg/kg/die) non preceduto dai boli, è indicato in pazienti con bassa severità di malattia. I farmaci immunosoppressori raccomandati come prima linea nella terapia iniziale rimangono la ciclofosfamide (CYC) ev a bassa dose (500 mg ogni 2 settimane per un totale di 6 dosi) o il micofenolato mofetile (MMF) (dose target 2-3 g/die o acido micofenolico allo stesso dosaggio per 6 mesi) [38].

Già dagli anni ‘80 Austin et al (del National Institute of Health, NIH) hanno dimostrato che l’introduzione della CYC ev ad alta dose in aggiunta alla terapia steroidea è associata a un miglior outcome renale rispetto alla sola terapia steroidea. Successivamente Houssiau et al, al fine di ridurre il dosaggio cumulativo della CYC e la tossicità ad essa legata, hanno confrontato un gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose (schema Euro-Lupus Nephritis Trial, ELNT, 6 boli da 500 mg ogni 14 giorni) con i pazienti trattati con CYC ev ad alta dose (schema del NIH 8 boli 0,75g/m2 ogni mese) e evidenziando una minor incidenza di eventi avversi, in particolare di infezioni severe, nel gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose [39-41]. Questo studio mostra anche che non ci sono differenze significative in termini di risposta al trattamento nei due schemi, seppur i pazienti dell’NIH presentassero un quadro clinico più severo rispetto ai pazienti dell’ELNT. Pertanto, alte dosi di CYC (0,5-0,7 g/m2 mensilmente per 6 mesi) sono consigliate solo nelle forme più gravi che si presentano con insufficienza renale, necrosi fibrinoide o semilune alla biopsia e quindi con elevato rischio di progressione a ESKD. La CYC può essere somministrata anche per via orale al dosaggio di 1-1,5 mg/kg/die con dose massima di 150 g/die per 2-4 mesi [42]. L’alternativa alla CYC è il MMF, che nelle ultime decadi risulta il farmaco più utilizzato. Lo studio multicentrico Aspreva Lupus Management Study (ALMS) ha dimostrato, infatti, una non inferiorità del MMF se utilizzato al dosaggio di 3 g/die, con pari effetti collaterali ma minor tossicità gonadica rispetto alla CYC; inoltre, il MMF si associa a miglior risposta terapeutica nei pazienti di razza africana e ispanica, sottolineando l’importanza dell’etnia in termini di risposta al trattamento [43]. Le attuali raccomandazioni suggeriscono in caso di non risposta al MMF di avviare trattamento con CYC e viceversa. Nei pazienti non-responder o refrattari alla terapia, il rituximab (RTX), anticorpo monoclonale anti-CD20, rappresenta un’alternativa per la terapia iniziale, pur essendo ancora off-label. Sebbene lo studio LUNAR (Lupus Nephritis Assessment With Rituximab Study), trial clinico randomizzato prospettico, non abbia dimostrato un miglioramento dell’outcome nei pazienti trattati con RTX in associazione a terapia di induzione standard (MMF o CYC) rispetto al placebo, altri studi retrospettivi/osservazionali hanno mostrato come la terapia con RTX si associa a significativa riduzione dell’attività di malattia e della proteinuria; inoltre, è stato dimostrato che possa essere utilizzato come steroid-sparing. Il dosaggio consigliato è di 1000 mg nei giorni 0 e 14 [44-49].

Gli inibitori delle calcineurine (CNI), soprattutto il tacrolimus (TAC), in associazione al MMF (1-2 g/die) costituiscono un’altra alternativa per la terapia iniziale e sono raccomandati principalmente nei pazienti con proteinuria in range nefrosico. Sono controindicati in presenza di malattia renale cronica, di alto indice di cronicità alla biopsia renale e di scarso controllo pressorio. In diversi studi i CNI determinano una remissione completa simile alla CYC ev e al MMF; inoltre, in uno studio randomizzato cinese di 362 pazienti, la combinazione di CNI e MMF, definita terapia multi-tagret, si è dimostrata superiore rispetto alla CYC nel breve termine. Non essendo ancora studiata nelle diverse etnie, la terapia multi-target non risulta ancora tra i farmaci raccomandati come prima linea [50, 51].

Nel gennaio ‘21 la US Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’utilizzo di voclosporina in aggiunta a steroidi e MMF per il trattamento dei pazienti con NL attiva. La voclosporina è un CNI di nuova generazione con una differenza aminoacidica rispetto alla ciclosporina A (CyA) che la rende 4 volte più efficace; presenta un’eliminazione più rapida dei metaboliti e conseguente minor esposizione agli effetti collaterali soprattutto in termini di tossicità renale e miglior controllo lipidico e glucidico rispetto a CyA e TAC rispettivamente [52]. Nello studio randomizzato di fase II AURA-LV su 265 pazienti l’utilizzo di voclosporina, in aggiunta a MMF e steroide, confrontato al placebo dimostrava maggior efficacia in termini di risposta completa a 6 mesi anche se associato a maggior incidenza di eventi avversi [53]. Nello studio successivo, uno studio randomizzato di fase IIII, controllato in doppio-cieco, sono stati studiati 357 pazienti affetti da NL attiva, di diverse etnie, sottoposti a terapia orale con voclosporina o placebo in associazione a MMF e steroide per os a basso dosaggio e con rapido decalage. I pazienti trattati con voclosporina hanno raggiunto la remissione completa in numero più significativo senza differenze di riduzione della funzione renale, aumento della pressione arteriosa o scarso controllo glicemico e lipidico [54]. Questo studio dimostra come voclosporina a basse dosi in associazione alla terapia immunosoppressiva standard può migliorare la prognosi dei pazienti con NL; i limiti di questo studio sono l’esclusione di pazienti con GFR < 45 ml/min e un breve follow-up per la valutazione della nefrotossicità [55]. Anche l’ocrelizumab, anticorpo umanizzato anti CD20, è stato studiato nella NL nello studio BELONG. Lo studio è stato però interrotto per comparsa di un numero significativo di infezioni severe nel gruppo trattato con l’anticorpo monoclonale rispetto al placebo anche se si associava a miglioramento dei livelli di complemento e di ds-DNA [56].

Tra le alternative terapeutiche recentemente approvate nel LES c’è il belimumab, un anticorpo monoclonale umano che si lega al ‘B-cell activating factor’, BAFF, citochina coinvolta nella maturazione dei linfociti B. Questo farmaco è stato registrato per il trattamento del LES in associazione alla terapia standard grazie a una serie di studi controllati.  Nel BLISS-LN 448 pazienti con NL attiva sono stati trattati con belimumab (10 mg/kg) o placebo come terapia di induzione in associazione a MMF o CyC ev a bassa dose. Lo studio ha mostrato una risposta renale significativamente superiore nei pazienti trattati con belimumab rispetto al placebo; nei sottogruppi la significatività veniva raggiunta solo nei pazienti trattati con MMF, ma si manteneva nelle diverse etnie coinvolte. Il belimumab è il primo farmaco biologico che ha ottenuto risultati in termini di outcome primari e secondari. Esso può essere considerato in aggiunta alla terapia standard come steroid-sparing per ridurre le riacutizzazioni e come miglior controllo delle manifestazioni extrarenali [57-59].

Dopo un’adeguata terapia iniziale, è raccomandata la terapia di mantenimento o terapia successiva, che ha l’obiettivo di ridurre le recidive e consolidare la risposta terapeutica evitando le tossicità farmacologiche. Essa si basa sull’uso di steroidi per via orale a basso dosaggio (< 5-7,5 mg/die) in associazione a MMF come prima scelta (1-2 g/die o acido micofenolico 720-1440 mg/die) o AZA (1,5-2 mg/kg/die con dose massima di 150-200 mg/die) per 3-5 anni dopo la remissione completa. Nello studio MANTAIN non ci sono state differenze tra Aza e MMF in pazienti caucasici affetti da NL; nello studio ALMS condotto su diverse etnie il MMF si è dimostrato superiore rispetto ad AZA in termini di mortalità, progressione a ESKD, flares e necessità di terapia rescue. In alternativa a MMF e AZA, anche nella terapia di mantenimento sono indicati i CNI, in particolare nei pazienti con persistenza di elevati valori di proteinuria (TAC 4-6 ng/ml o CyA 60-100 nl/ml). Uno studio italiano randomizzato ha mostrato uguale efficacia di AZA e CyA come terapia di mantenimento nel prevenire le recidive in 75 pazienti con NL proliferativa trattati con boli di steroide e CYC per os come terapia di induzione e poi randomizzati a CyA o AZA per due anni; lo studio non ha mostrato differenze significative di funzione renale e controllo pressorio nei due gruppi. L’uso di CYC ev non è consigliato nel mantenimento in quanto meno efficace e più tossica [43, 60-66].

La durata ottimale della terapia immunosoppressiva non è ancora chiara; le linee guida suggeriscono una durata di almeno 36 mesi di trattamento nei pazienti affetti da NL e almeno 1 anno di remissione completa renale in assenza di manifestazioni extrarenali per poter sospendere la terapia immunosoppressiva [24, 37]. Una terapia di mantenimento più prolungata è consigliata in pazienti di sesso maschile, di etnia africana e ispanica, con glomerulonefrite con semilune o microangiopatia trombotica alla biopsia renale e in pazienti con ds-DNA ad alto titolo. La sospensione della terapia immunosoppressiva deve essere graduale e prevede l’eliminazione in primis della terapia steroidea, quindi dell’immunosoppressore; essendo una malattia sistemica, la terapia va stabilita anche in base alle manifestazioni extrarenali [24].

In tutti i pazienti in classe V è consigliata un’adeguata terapia di supporto al fine di evitare possibili complicanze quali trombosi e dislipidemia. Solo nei pazienti con proteinuria > 1 g nonostante la terapia con inibitori del RAAS o con sindrome nefrosica è raccomandata la terapia immunosoppressiva. Le linee guida indicano come prima linea il MMF (3 g/die o acido micofenolico equivalente per 6 mesi) in associazione a steroide ev seguito da terapia steroidea per os (0,5 mg/kg/die); CYC ev e CNI (soprattutto TAC) sono indicati come alternative. I CNI possono essere somministrati in monoterapia o in associazione al MMF soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica. Il RTX può essere considerato nei pazienti non responder [24, 37, 67-69]. Se in associazione a classe III o IV, la nefropatia membranosa lupica va trattata come le classi proliferative.

La classe VI non richiede alcun trattamento immunosoppressivo, ma l’avvio al follow-up della malattia renale cronica.

L’idrossiclorochina (HCQ), antimalarico, è indicata in tutti i pazienti affetti da LES, se non controindicato, al dosaggio di ≤ 5 mg/kg aggiustato nei pazienti con GFR< 30 ml/min; a essa, infatti, si associa minor rischio di sviluppare NL nei pazienti con LES e in associazione alle terapie immunosoppressive riduce le recidive, rallenta la progressione a ESKD, aumentando così la sopravvivenza di questi pazienti. Può essere utilizzata anche in gravidanza.

 

Risposta alla terapia e ‘flare’ di malattia

La risposta renale al trattamento viene valutata in termini di remissione completa (RC), intesa come riduzione della proteinuria a 0,5-0,7 g/die entro 12 mesi dall’inizio del trattamento e remissione parziale (RP) con proteinuria ridotta di almeno il 50% entro 6 mesi, entrambe in presenza di stabilità della funzione renale. Nei pazienti con proteinuria in range nefrosico il tempo per valutare la risposta arriva sino a 12 mesi.  La proteinuria a un anno dall’inizio del trattamento rappresenta, infatti, il miglior predittore di outcome renale a lungo termine [17, 40, 62, 70-71].

Le recidive sono molto frequenti nei pazienti affetti da NL e si associano a peggior outcome renale. Per ‘flare’ o recidiva di malattia si intende un incremento di attività di malattia che richiede una modifica terapeutica. I flares sono classificati in proteinurici e nefritici e severi e non severi. I principali fattori di rischio correlati alla comparsa di recidive sono giovane età < 30 anni alla diagnosi, sesso maschile, etnia afro-americana, ritardo diagnostico-terapeutico, bassi livelli di C4, risposta parziale, rialzo dei ds-DNA, ipertensione arteriosa, bassa dose di immunosoppressione e manifestazioni extrarenali di LES severe quali coinvolgimento del sistema nervoso centrale [72-74].

 

Outcome e conclusioni

Negli ultimi 50 anni la prognosi dei pazienti affetti da NL è significativamente migliorata, con un aumento del tempo di progressione a insufficienza renale e una riduzione della mortalità. In una metanalisi sul rischio di ESKD in pazienti di diverse etnie affetti da NL dal 1970 al 2015, Teckidou et al descrivono un significativo miglioramento dagli anni ‘70 agli anni ‘90, legato all’introduzione della ciclofosfamide, con una successiva stabilizzazione della progressione a ESKD e della sopravvivenza negli ultimi decenni [17].  Nella coorte italiana di 499 pazienti sopradescritta, principalmente costituita da pazienti caucasici, lo sviluppo di malattia renale cronica e ESKD si è significativamente ridotto negli anni (dal 7,9% e 24,8% dei pazienti del periodo 1970-1985 contro il 4,5% e l’1,3% del periodo 2001-2016 rispettivamente), con un ESKD-free survival a 10 e 20 anni del 87% e 80% nel primo gruppo, del 94% e 90% nel secondo gruppo e del 99% nel terzo gruppo. Allo stesso modo nei pazienti diagnosticati e trattati negli ultimi anni è stato registrato un incremento significativo della remissione completa (ottenuta nel 58% dei pazienti con diagnosi dal 2001 al 2016 contro il 49,6% nel primo periodo). Anche la riduzione della mortalità nell’ultimo lasso di tempo rispetto agli altri è statisticamente significativa [15]. I fattori demografici che influenzano negativamente l’outcome renale sono il sesso maschile e l’etnia, con un miglior outcome nei caucasici rispetto agli africani e agli asiatici; i fattori clinici includono la presenza di proteinuria nefrosica, di anemia, di insufficienza renale e giovane età al momento della biopsia renale e di ipertensione arteriosa non controllata e aumentato rischio cardiovascolare durante il follow-up; infine, dal punto di vista istologico le classi istologiche proliferative III e IV sono quelle caratterizzate da decorso clinico più aggressivo e peggior prognosi.

In conclusione, pur essendo migliorata la prognosi di questi pazienti, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo nei pazienti affetti da LES e diagnosi precoci, terapia immunosoppressive mirate, adeguate terapie di supporto con prevenzione e miglior gestione delle complicanze sono fondamentali nel determinare la prognosi di questi pazienti.

 

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Nobel prize winners who contributed to Transplantation

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The Nobel Prize in Physiology or Medicine, administered by the Nobel Foundation, is awarded once a year for outstanding discoveries in the fields of life sciences and medicine. It is one of five Nobel Prizes established in 1895 by Alfred Nobel himself. Nobel was personally interested in experimental physiology and wanted to establish a prize for progress through scientific discoveries in laboratories. The Nobel Prize is presented to the recipient(s) at an annual ceremony on 10 December, the anniversary of Nobel’s death, along with a diploma and a certificate for the monetary award. The front side of the medal provides the same profile of Alfred Nobel as depicted on the medals for Physics, Chemistry, and Literature; its reverse side is unique to this medal (1, 2).

The idea of replacing diseased parts of body has been around for millennia. Envisioned were complex transplants such as the “successful” transplantation of an entire leg by the 3rd century sainted physicians Cosmos and Damien. As early as 600 b.c., the use of autogenous skin flaps to replace missing noses was conceived, and by the sixteenth century, Gaspare Tagliacozzi and other pioneering plastic surgeons were successful with such procedures. But not until the twentieth century was it ever mentioned that grafts might fail. Even the great eighteenth century experimentalist John Hunter, who transplanted human teeth and autotransplanted cocks’ spurs into their combs, seemed unaware that homografts would fail (3). As true the 20th century has changed a lot in the transplantation field.

One among the others whose achievement was awarded with the Nobel Prize was Alexis Carrell (Figure 1). He was borne on 28 June 1873 near Lyone, France. Carrel’s interest in transplantation was first manifested in 1902 in Lyon, when he transplanted a kidney from a dog’s abdomen to its neck. The kidney produced urine immediately, and the animal died after a few days from an infection. In 1904, Carrel left France after failing in several examinations to qualify for a faculty position there. He moved to Chicago, where he partnered with the physiologist Charles Guthrie. They collaborated for barely 12 months, but during this time, they successfully transplanted the kidney, thyroid, ovary, heart, lung, and small bowel, averaging a publication on this work every 14 days (4). Carrel first published his work on organ transplantation in October 1905 (ie, the “Functions of a Transplanted Kidney”), which was co-authored by Charles Guthrie. Carrel’s success with organ grafts was not dependent on a new method of suturing but on his use of fine needles and suture material, his exceptional technical skill, and his obsession with strict asepsis. Carrel and Guthrie developed the so called Carrel’s patch for kidney transplantation. This technique, still used today, removes a patch of aorta with the renal artery attached, in order to avoid the dangers of thrombosis posed by a small blood vessel anastomosis. Unfortunately relationship between Carrel and Guthrie cooled and in 1906 Carrel moved from Chicago to the Rockefeller Institute in Chicago. Next few years Carrel focused his research on surgical procedures on the heart. He was many decades ahead of his time, performing mitral valvulotomy, mitral valvuloplasty, and coronary artery grafting. He did the world’s first coronary artery bypass graft, suturing one end of a long segment of canine carotid artery to the aorta and the other to a coronary artery. Carrel was rewarded for his groundbreaking work by receiving the Nobel Prize in Physiology or Medicine in 1912, “in recognition of his work on vascular sutures and the transplantation of blood vessels and organs” (4, 5). At the age of 39 years, he was also the youngest Nobel Laureate. When he reached age of 65 he was forced to retire so he came back to France. That was in 1939, After France capitulation, the Vichy government offered Carrel the opportunity to continue his work at his own institute, to be called the “Institute of Man.” The institute opened in 1941. Because of his relationship with Nazi-supported Vichy, Carrel was widely regarded by his countrymen as a Nazi collaborator. After the liberation of France in 1944, he was relieved of all duties related to his institute and was placed under surveillance. An investigation began to evaluate the extent of his collaboration with the Nazis and the Vichy government, but no conclusions were reached. Unremitting attacks by the press left Carrel deeply depressed. He was a broken man when he died on November 5, 1944 (6). Already Carrel noticed that vascular grafts, he used did not survived too long, but nobody had idea why. This has changed thanks to the work of Sir Frank MacFarlane Burnet and Peter Brian Medawar. They shared the Nobel Prize in 1960 for discovery of acquired immunological tolerance.

Sir Frank Macfarlane Burnet (Figure 2) was born at Traralgon, Victoria, Australia, on September 3rd, 1899, completed his medical course at the University of Melbourne, where he graduated M.D., in 1923. n 1944 he became Director of this Institute and Professor of Experimental Medicine in the University of Melbourne. It is impossible to give, in a brief space of fundamental importance of Burnet’s work (7). His work on the agglutinins of typhoid fever was followed by the work on viruses for which he is nowadays justly famous. In 1935 he isolated a strain of influenza A virus in Australia, and subsequently did much work on serological variations and on Australian strains of the swine influenza (8). Burnet was a productive scientist, authoring about 30 books and countless publications that spanned six decades. His greatest work described concepts of immune tolerance and clonal selection. In 1941, published a monograph entitled The Production of Antibodies, which is now widely regarded as a classic publication in the field of immunology (9). In this work, he proposed notions of ‘self’ and ‘non-self’, which described how an individual’s immune system was able to differentiate between the cells and protein that make up its own body from those of foreign micro-organisms or substances. In 1959 he authored another book, called The Clonal Selection Theory of Acquired Immunity, which described how the human body developed and produced antigen-specific antibodies (10). His hypothesis that the body could learn to reject or accept particular antigens, a concept now known as ‘immune tolerance’, was more than a fanciful abstraction, as it exerted a powerful impact on the direction and momentum of medical immunology. In part because of Burnet’s work, patients worldwide have gained longer and better lives with transplanted hearts, livers, kidneys and other organs (11). He died from colorectal cancer in 31 August, 1985.

His partner in the Nobel Prize, Peter Brian Medawar was born on 28 February 1915, in Rio de Janeiro (Figure 3). Medawar’s earlier research, was done on tissue culture, the regeneration of peripheral nerves and changes of shape of organisms that occur during this development. During the early stages of the Second World War he was asked to investigate why it is that skin taken from one human being will not form a permanent graft on the skin of another person. In 1947, Peter Medawar had been appointed Mason professor of zoology in Birmingham, where he continued his transplantation studies, with Rupert Billingham and Leslie Brent. He was elected to the Royal Society in 1949. Following his appointment as Jodrell professor of zoology and comparative anatomy at University College, London in 1951, he embarked, again with Billingham and Brent, on the critical work in inbred mice, to test whether experimentally induced chimerism would also result in tolerance to skin grafts from the donor strain (12,13). Medawar’s key paper fully supported Burnet and Fenner’s idea of adaptation of ‘recognition of self’ in the developing immune system (14). It was followed in 1956 by a monograph exploring the parameters of both tolerance and immunity to allogeneic transplants, and showing they were ‘cell mediated’ rather than humoral. This work affected the perception of those caring for patients in end-stage organ failure, e.g. kidney, since they raised the possibility of transplantation of allogeneic kidneys under a regime that protected them from immune attack, in the knowledge that actively acquired tolerance was a possible outcome. These results also contributed greatly to basic immunological knowledge, and allowed further development of the field of cellular immunology (15). His research career was prematurely interrupted in 1969, on account of a stroke. In 1986, he published his autobiography, a year before his death, the title of which highlights the contrast between his life with the physical limitations caused by the disease and his preserved lucidity (12). Died in London on 2 October, 1987.

The Nobel Prize in Physiology and Medicine from 1980 was awarded jointly to Baruj Benacceraf, Jean Dausset and George D. Snell for their discoveries concerning genetically determined structures on cell surface that regulates immunological reactions (16). Historically first discoveries were published by George D. Snell.

George David Snell (Figure 4) was born on 19th December 1903 in Bradford, Massachusetts, USA. In 1935, he joined the Jackson laboratory in Bar Harbour, Maine and remained there until his retirement as senior staff scientist emeritus in 1973. Jackson laboratory was considered an international hub for mouse genetics. He was already working in transplantation at the end of World War II. He realized that immunology would burgeon and that his work on the MHC would help it to do so. G. Snell initiated work on immunological enhancement and reviewed developments in immunology on several occasions. He, along with immunologist Peter Gorer, conducted studies that resulted in the identification of the H-2 gene complex in mice, a term he introduced to determine whether a tissue graft would be accepted or rejected. G. Snell was a founder of the scientific journal titled ‘Immunogenetics’, and served as its first editor. He authored several books including ‘Cell Surface Antigens: Studies in Mammals Other Than Man’ (1973), ‘Histocompatibility’ (1976) and ‘Search for a rational ethic’ (1988) (17,18). He died on 6 June 1996 at Bar Harbor, Maine, at the age of 92.

The next of this “Big Three” was Jean Dausset (Figure 5) born on 19 October 1916 in Toulouse, France. During the II World War J. Dausset joined the Free French Forces in North Africa as an ambulance worker. In this occasion he got his first taste of hematology when he had to perform numerous blood transfusions on wounded soldiers. As the war was winding down in 1944, he returned to Paris where he worked in the Regional Blood Transfusion Center at the Saint-Antoine Hospital. In 1948, Dausset went to work as an intern in the Children’s Hospital in Boston. He worked there in a hematology lab for about four years. On his return from Boston, he became interested in the new immune-hematology techniques applied on red blood cells (Coombs test) and decided to transpose the methods to white blood cells in cases of leucopenia(19). In 1952 J. Dausset discovered that white blood cells were agglutinated by antibodies from patients who had received blood transfusions, and realized this was due to genetic differences between donor and recipient. He described the first leukocyte antigen, now called HLA-A2, in 1958. He realized that the human HLA system was similar to the H-2 gene system in mice, which had been identified by Snell shortly before, and thus that mice could be used as an experimental model for human immunogenetics. By grafting skin from volunteer donors to volunteer recipients he worked out the complex relationship between tissue compatibility and graft survival, and found that the closer the tissue types, the better the chances of success. Professor Dausset was a member of the French National Academy of Sciences, professor at the College de France, a foreign member of the National Academy of Sciences, USA, an honorary member of the American Academy of Arts and Sciences, and a member of the founding Council and Vice President of the Human Genome Organization. Jean Dausset died the 6 of June 2009 in Palma de Mallorca, Spain, surrounded by his family (20).

The third awarded in 1980 was Baruj Benacerraf (Figure 6) who was born in Caracas, Venezuela, on Oct 29, 1920. In 1947, Baruj Benacerraf was a young medical doctor who had just been discharged from the US Army Medical Corps. Returning to the USA where he had studied, Benacerraf decided to make the switch from clinical medicine to research. Over the next decade or so, he continued his research into the mechanisms of the immune system, working in the USA and in France before settling at New York University School of Medicine. The breakthrough came when Benacerraf noticed that a proportion of guineapigs injected with particular antigens failed to mount an immune response. He realized that this was an important phenomenon and did further breeding experiments to show that the animals’ responsiveness to these antigens was controlled by dominant autosomal genes that he termed immune response genes. Benacerraf was elected President of the American Association of Immunologists in 1973, President of the American Society for Experimental Biology and Medicine in 1974, and President of the International Union of Immunological Societies in 1980. That same year he was appointed President of the Sidney Farber Cancer Institute, an institution he led until 1992. After stepping down as president, he maintained an active presence at the Institute and continued working daily in his own lab into his 80s, he died of pneumonia on Aug 2, 2011, in Jamaica Plain, MA, USA, aged 90 years (21,22).

The Nobel Prize in Physiology and Medicine was shared by Joseph E. Murray and E. Donnall Thomas for their achievement in organ and cell transplantation.

Joseph Eduard Murray (Figure 7) was born on April 1, 1919 in Milford, Massachusetts. He was of Irish and Italian descent. After graduating with his medical degree Murray was inducted into the Medical Corps of the U.S. Army. He served in the plastic surgery unit which cared for thousands of soldiers wounded on the battlefields of World War II, working to reconstruct their disfigured hands and faces. His interest in transplantation grew out of working with burn patients during his time in the army. After his military service, Murray completed his general surgical residency and joined the surgical staff of the Peter Bent Brigham Hospital. On December 23, 1954, Murray performed the world’s first successful renal transplant between the identical Herrick twins, an operation that lasted five and a half hours. He transplanted a healthy kidney donated by Ronald Herrick into his twin brother Richard, who was dying of chronic nephritis. Richard lived for eight more years, following the operation. In 1959, Murray went on to perform the world’s first successful allograft and, in 1962, the world’s first cadaveric renal transplant. In 2004, Murray and Ronald Herrick were honored at the U.S. Transplant Games, held at the Metrodome in Minneapolis, Minnesota. He suffered a stroke at his home on Thanksgiving and passed away on 26 November 2012, at the Peter Bent Brigham Hospital (later Brigham and Women’s Hospital) in Boston at the age of 93. It was in this same institution that he performed the first successful kidney transplant (23-26).

1920. Donnall Thomas (Figure 8) known as “Don” to his friends, was born in a small town – Mart in central Texas, USA on 15 March 1920. He entered Harvard Medical School in 1943 and received his M. D. in 1946. Don Thomas completed one year internship in hematology after this he took a break in his studies to serve as a physician in US Army during the period 1948-50. After his stint with the US army, he worked as a postdoctoral fellow at the Massachusetts Institute of Technology. In 1953, he worked as an instructor at Harvard Medical School. Don Thomas developed his interest in bone marrow and leukemia during medical school. Inspired by the successes of Sydney Farber with antifolate therapy for acute lymphoblastic leukemia, he initially studied marrow-stimulating factors under John Loofborrow, then later in his own laboratory. In 1955, he was recruited to be chief of the Mary Imogene Bassett Hospital in Cooperstown, and it was there that he began his BMT studies in dogs and his first clinical attempts to perform BMT in patients. By 1957, the first six patients had died within 100 days, the sole survivor a patient with leukemia who received a marrow infusion from his twin sibling. That patient survived the transplant, but unfortunately later died from a relapse of his malignancy. Many patients had been cured of leukemia using this technique by the late 1970s. Since then Don Thomas and his colleagues improved their success rate significantly. In addition to leukemia and other cancers of the blood, bone marrow transplants are used to treat certain inherited blood disorders and to aid people whose bone marrow has been destroyed by accidental exposure to radiation. He was a member of 15 medical societies, including the ‘National Academy of Sciences’, ‘Medical and Scientific Advisory Committee’ and ‘National Cancer Institute’. He was President of ‘American Society of Hematology’ and served on the editorial boards of eight medical journals. He received honorary ‘Doctorate of Medicine’ from ‘University of Cagliari’, Sardinia in 1981, ‘University of Verona’ in 1991 and ‘University of Parma’, in 1992. He was also awarded the honorary degrees from ‘University of Barcelona’ in 1994 and ‘University of Warsaw’ in 1996. E. Donnall Thomas died at the age of 92 on 20th October 2012 in Seattle (23, 27-29).

Transplantation would not developed without discovering of the immunosuppressive drugs. The first step for sure was steroid treatment, but synthesis of azathioprine was the real breakthrough. This was noticed by the Nobel Prize Committee and in 1998 among three awarded were Gertrude B. Elion and George H. Hitchings who discovered this drug.

Gertrude Belle Elion (Figure 9) was born in New York City on January 23, 1918. Her mother arrived in the United States from Poland at the age of fourteen. Elion decided to dedicate her life to medicine after the deaths of her grandfather from stomach cancer. She received her degree in 1941 and found work and valuable experience as a chemist at a food company, and at Johnson and Johnson. Later that year, Elion was offered another position working with nucleic acids alongside Hitchings at Burroughs Wellcome Company. Hitchings assigned Elion to investigate purines, which are building blocks of DNA. They soon discovered, from observing the role of purines in nucleic acid metabolism, that bacterial cells require certain purines to make DNA. Along the way, Elion published 225 papers on her findings. By 1950, Hitchings and Elion successfully synthesized two compounds—diaminopurine and thioguanine. For the first time, a treatment that could interfere with the formation of leukemia cells and induce remission. Elion discovered 6-mercaptopurine (thioguanine), which she created by replacing one sulphur atom with an oxygen atom. Treatment using thioguanine is responsible for curing 80 percent of children with leukemia. This compound is also used to treat acute myelocytic leukemia (AML) in adults. In addition to 6-MP, Elion went on to discover a series of drugs that attack the life cycle of nucleic acid, including allopurinol—which inhibits uric acid synthesis, making it a viable treatment for gout—and azathioprine (Imuran), an effective immunosuppressive drug. Her discovery of azathioprine was extremely important to transplantation, because it made possible for people to receive organ transplants without their body rejecting them. On the heels of Hitchings’ retirement in 1967, Elion became head of the Department of Experimental Therapy. Her next success was synthesis of the acycloguanosine, also known as acyclovir. Elion retired in 1983, eight years after Hitchings. Though she was unable to complete her Ph.D., George Washington University and Brown University awarded Elion honorary doctorates. In 1991, she became the first woman to be inducted into the National Inventors Hall of Fame, and was presented with the National Medal of Science by President George H.W. Bush. She died on 22 February 1999, in Chapel Hill, North Carolina (30-36).

George H. Hitchings (Figure 10) was born on April 18, 1905, in Hoquiam, Washington, USA. The illness and untimely death of his father had a profound impact on the young boy and he decided to become a doctor on growing up. He received his bachelor’s degree in 1927 and stayed on at the University of Washington to earn a master’s degree in 1928. Hitchings then attended Harvard University, where he received his PhD in biochemistry in 1933. His work at Harvard centered on analytical methods used in physiological studies of purines, which are a class of compounds composed of a two-ringed structure containing carbon and nitrogen. For the next decade Hitchings held a variety of temporary appointments. In 1942, however, he joined the Wellcome Research Laboratories—then located in Tuckahoe, New York—as a biochemist. This research facility was operated by the British pharmaceutical firm Burroughs Wellcome and Company, which is now part of GlaxoSmithKline. Two years later Hitchings hired Gertrude Elion as a laboratory assistant, thereby beginning a lifelong collaboration on drug development. By 1950 used line of research had paid off. Hitchings and Elion synthesized two antimetabolites, diaminopurine and thioguanine as described above. This latter discovery led to a new drug, azathioprine, and a new application, organ transplants. Azathioprine suppressed the immune system, which would otherwise reject newly transplanted organs. In the 1960s Hitchings and Elion determined that infectious diseases could be fought if drugs could be targeted to attack bacterial and viral DNA. This work resulted in pyramethamine, which was used to treat malaria, and trimethoprim, which was used to treat meningitis, septicemia, and bacterial infections of the urinary and respiratory tracts. In 1967, Hitchings became Vice President in Charge of Research of Burroughs Wellcome. He also served as Adjunct Professor of Pharmacology and of Experimental Medicine from 1970 to 1985 at Duke University. In 1976 he became Scientist Emeritus at Burroughs Wellcome Co.

He founded what is now the Greater Triangle Community Foundation in 1983, and served as its director for life. In the last years Hitchings suffered from Alzheimer’s disease and died on February 27, 1998 in Chapel Hill, North Carolina, USA (35-37).

The last described Noble Prize winner was Ralph N. Steinman (Figure 11). He was born into an Ashkenazi Jewish family on 14 January 1943, in Montreal, Canada. Steinman received a Bachelor of Science degree from McGill University and received his M.D. (magna cum laude) in 1968 from Harvard Medical School. He completed his internship and residency at Massachusetts General Hospital. After completing his medical training, he was drawn to biomedical research. He joined The Rockefeller University in 1970 as a postdoctoral fellow in the Laboratory of Cellular Physiology and Immunology. He spent his entire career at Rockefeller, where he was appointed assistant professor in 1972, associate professor in 1976, and professor in 1988. He was named Henry G. Kunkel Professor in 1995 and director of the Christopher Browne Center for Immunology and Immune Diseases in 1998. In 1973, Steinman and Cohn discovered dendritic cells, a previously unknown class of immune cells that constantly formed and retracted their processes. This discovery changed the field of immunology. For the next four decades, until his death in 2011, Steinman’s laboratory was at the forefront of dendritic cell research. He and his colleagues established that dendritic cells are critical sentinels of the immune system that control both its innate and adaptive responses – from silencing to actively resisting its challenges. He also showed that dendritic cells are the 2 main initiators of T cell-mediated immune responses. In 2010, he initiated at The Rockefeller University Hospital a phase I clinical trial with the first dendritic cell-targeted vaccine against HIV. Diagnosed with pancreatic adenocarcinoma in March 2007, Steinman believed that dendritic cells had the potential to fight his aggressive tumor. Ralph N. Steinman died on 30 September 2011, three days before his Nobel Prize was announced. Unaware of his death at the time of its announcement, the Nobel Committee made an unprecedented decision that his award would stand (38-40).

Across the XX century many scientist focused on the field of transplantation. Achievement of few of them was awarded with the Nobel Prize. I hope that the XXI century will be more fruitful for transplantation and the Nobel Prize Winners involved in this part of science.

 

Publications:

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