Tic douloureux sostenuto da un tumore oculare

Abstract

La malattia neoplastica è una importante causa di morbilità e mortalità nei portatori di trapianto di organo solido. I carcinomi cutanei non melanomatosi come il carcinoma basocellulare (BCC) e il carcinoma squamocellulare (SCC) sono molto comuni nei trapiantati di rene. Riportiamo il caso di un trapiantato renale di 75 anni che ha sofferto di un SCC originato da una ghiandola lacrimale minore.

Un uomo di 75 anni in cui era stata diagnosticata una glomerulopatia nel 1967 e che aveva successivamente iniziato il trattamento emodialitico, nel 1989 è stato sottoposto a trapianto di rene da donatore vivente. Nel 2019 sono comparse parestesie e dolore all’arcata sopraciliare destra riferiti a neuropatia sensitiva del V nervo cranico. L’inefficacia della terapia e la comparsa di una neoformazione palpebrale unitamente ad esoftalmo hanno condizionato l’esecuzione di una risonanza magnetica. L’indagine bioptica ha deposto per un SCC che ha condizionato una exenteratio orbitae.

Nonostante il tumore cutaneo non melanomatoso dell’occhio costituisca una condizione molto rara, la presenza di fattori di rischio quali il sesso maschile, la storia di glomerulopatia e la durata dell’immunosoppressione, costituiscono fattori che dovrebbero spingere il clinico a mantenere un elevato livello di attenzione sui sintomi oculari.

Parole chiave: Trapianto renale, immunosoppressione, tumore cutaneo non melanomatoso, tumore dell’occhio

Introduzione

La malattia neoplastica rappresenta la seconda causa di morte nei pazienti portatori di trapianto di organo solido [1]. In particolare, i tumori cutanei non melanomatosi – tra cui il carcinoma basocellulare (BCC) e il carcinoma squamocellulare (SCC) – sono molto comuni in questa popolazione, soprattutto nei pazienti portatori di trapianto renale [2]. Secondo uno studio italiano [3], l’incidenza globale di tumori cutanei non melanomatosi dopo trapianto di rene è di circa 10 casi per 1000 persone/anno (con incidenza cumulativa del 5,8% entro 5 anni dal trapianto e del 10,8% entro 10 anni); inoltre, nei trapiantati il rischio di sviluppare SCC e BCC è notevolmente superiore rispetto alla popolazione generale. Anche le lesioni precancerose, come la cheratosi attinica, sono più frequenti nei portatori di graft, con un’incidenza 250 volte superiore rispetto alla popolazione generale [4].

Lo sviluppo di tumori cutanei non melanomatosi è correlato all’immunosoppressione farmacologica (proporzionalmente alla dose e alla durata della terapia), e all’esposizione cumulativa ai raggi ultravioletti [5], oltre al sesso, all’età anagrafica e all’età del trapianto [6, 7].

A livello oculare, il SCC sembra avere origine nel limbus, la zona di transizione tra epitelio congiuntivale bulbare ed epitelio corneale, e generalmente coinvolge tanto la congiuntiva quanto la cornea [8].

In uno studio di coorte condotto su una popolazione australiana di più di diecimila trapiantati di rene, sono stati descritti soltanto 5 casi di SCC oculare, tutti in soggetti con anamnesi positiva per glomerulonefrite [9].

Riportiamo un caso di SCC originato da una ghiandola lacrimale minore in un paziente di 75 anni, portatore di trapianto renale e in duplice terapia anti-rigetto (azatioprina e steroide).

 

Caso clinico

A causa di una glomerulopatia diagnosticata nel 1967, la funzione renale del Paziente è peggiorata progressivamente nell’arco di due decadi. Dopo un anno di trattamento emodialitico sostitutivo, il Paziente è stato sottoposto, infine, a trapianto di rene da donatore vivente (1989), con inizio della terapia con ciclosporina A (poi sospesa dopo circa tre anni per evidenza bioptica di nefrotossicità da inibitori della calcineurina). Nel 1992, in seguito a sospensione della ciclosporina A, è stata asportata una lesione ipercheratosica sospetta a livello del gomito destro.

Nell’agosto 2019, per la comparsa di dolore e parestesie a livello dell’arcata sopracciliare destra associati a dolorabilità alla digitopressione in corrispondenza della branca oftalmica del nervo trigemino (indice di neuropatia sensitiva del V nervo cranico), il Paziente è stato sottoposto a risonanza magnetica (RMN) con riscontro di encefalopatia ischemica cronica a livello della sostanza bianca dei centri semiovali e della corona radiata, bilateralmente, in assenza di lesioni espansive/eteroplastiche. Malgrado la terapia antalgica con carbamazepina e gabapentin (protratta per circa 6 mesi), la sintomatologia neuropatica non è regredita e si è progressivamente associata a esoftalmo e a comparsa di neoformazione palpebrale superiore destra. Una seconda RMN ha, in seguito, dimostrato la presenza di una lesione espansiva retrobulbare destra, bilobata, sovracentimetrica (39×22×16 mm3 circa), a prevalente localizzazione extra-conale, determinante dislocazione caudale del muscolo retto superiore omolaterale (Figura 1).

Figura 1: Risonanza magnetica del globo oculare che evidenzia la presenza della massa.
Figura 1: Risonanza magnetica del globo oculare che evidenzia la presenza della massa.

L’indagine istologica su campione bioptico ha evidenziato la presenza di tessuto fibroadiposo con foci di SCC infiltrante, moderatamente differenziato, in rapporto a formazione cistica rivestita da epitelio cubico semplice (con aree di metaplasia squamosa e di displasia focale). Il reperto, compatibile con SCC a verosimile origine da un dotto lacrimale minore, ha reso necessario l’intervento chirurgico di exenteratio orbitae destra e di plastica con lembo di muscolo temporale. L’indagine istologica su campione operatorio ha confermato la diagnosi di SCC del tessuto fibroadiposo periorbitario (prevalentemente cistico); ha evidenziato, inoltre, alcuni foci di infiltrazione perineurale e di cheratosi attinica bowenoide. Data la natura radicale dell’intervento, non è stata posta indicazione a chemio- e radio-terapia adiuvante.

 

Discussione

Il caso clinico presentato dimostra che un quadro clinico apparentemente compatibile con nevralgia trigeminale aspecifica può, in realtà, mascherare un quadro patologico severo quale una lesione neoplastica. A conforto di tale assunto c’è l’evidenza che un’anamnesi positiva per glomerulonefrite è un fattore predisponente alla comparsa di SCC oculare nei pazienti portatori di trapianto renale [9].

Nel nostro caso, lo SCC oculare ha avuto una peculiare presentazione clinica aspecifica e tardiva, che ha reso l’intervento chirurgico radicale la sola terapia possibile.

Stando alla letteratura [10], circa il 19% dei pazienti portatori di trapianto renale sviluppa almeno una neoplasia cutanea maligna nella sua vita (con incidenza cumulativa del 60% a 20 anni dal trapianto); di questi, fino al 64% presenta lesioni multiple (più frequentemente foci di SCC). Da qui la necessità di un follow-up dermatologico al fine di ottenere una diagnosi precoce. Tale atteggiamento trova supporto anche in altre casistiche [11], da cui si può sussumere la raccomandazione a un’attenta sorveglianza dei pazienti trapiantati con indicazione a eseguire la biopsia cutanea anche in caso di lesioni con minimo sospetto di malignità. La diagnosi e il trattamento adeguati e tempestivi dei tumori cutanei non melanomatosi, infatti, sono fondamentali per prevenire la comparsa di secondarismi [12].

Va sottolineato che il sesso maschile, il fumo di sigaretta, il colore chiaro dell’iride e la familiarità per neoplasie sono fattori di rischio per lo sviluppo di queste lesioni. Lo SCC oculare, inoltre, ha maggiore incidenza nei soggetti con immunocompromissione congenita o acquisita e si configura spesso come un’invasione locale a partire da una lesione cutanea primitiva. Nei pazienti in terapia immunosoppressiva, inoltre, va presa in considerazione la dose cumulativa di immunosoppressore, come suggerito dai dati di registro [13], anche in considerazione del dato, nient’affatto trascurabile, che nei portatori di trapianto renale la sopravvivenza è migliorata e l’età media al trapianto aumentata [14].

 

Conclusioni

Il tumore cutaneo non melanomatoso dell’occhio è una patologia rara e va sospettata nei pazienti portatori di trapianto renale con sintomatologia sospetta, soprattutto in caso di storia di glomerulonefrite. I pazienti sono solitamente di sesso maschile, fumatori e presentano un’elevata dose cumulativa di immunosoppressore. Sebbene i tumori della cute non siano associati a mortalità durante il ricovero [15], è importante sottolineare, come dimostra il caso proposto, che non bisogna sottovalutare sintomi apparentemente associati a quadri clinici di entità lieve o, addirittura, trascurabile. La prevenzione attraverso un attento follow-up dermatologico è fondamentale per l’eradicazione precoce della patologia.

 

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Nefropatia cronica del trapianto: focus sul ruolo della microinfiammazione

Abstract

La nefropatia cronica del trapianto è una condizione patologica multifattoriale presente in una larga percentuale di reni trapiantati la cui comprensione è stata accelerala dall’estesa applicazione della biologia molecolare e dall’impiego della biopsia protocollare in molti centri nefro-trapiantologici. Grazie a queste innovazioni, si è compreso che questo processo può comparire molto precocemente nel post-trapianto e che la microinfiammazione parenchimale gioca un ruolo chiave. Molte condizioni patologiche, anche precoci (come il danno da ischemia/riperfusione, la presenza di rigetti cellulari e umorali, e le infezioni virali e batteriche) possono contribuire alla genesi della fibrosi renale. Da un punto di vista prettamente biologico, il danno cronico inflammatorio-mediato del graft è orchestrato da cellule immunitarie (principalmente macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) e cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi. Molti degli elementi chiave di questi pathway biologici potrebbero rappresentare in futuro ottimi bersagli terapeutici. Al momento, però, non esiste una terapia specifica per arginare questa condizione, ma appare evidente che l’impiego di una immunosoppressione sostenibile (utilizzo combinato di più farmaci alle più basse dosi possibili) e l’attenzione alle comorbidità (dedicando sufficiente tempo al follow-up clinico e incrementando il network multi-specialistico) sia la via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento della progressione delle lesioni croniche del graft e una sua maggiore sopravvivenza.

Parole chiave: Nefrologia, Trapianto renale, Microinfiammazione, Fibrosi, Immunosoppressione

Introduzione

Sebbene la sopravvivenza ad un anno del rene trapiantato sia significativamente migliorata, quella a lungo termine è ancora non ottimale con un’incidenza di perdita del graft dopo 15-20 anni di circa il 40-50% [1].

Per anni la genesi del danno cronico del rene trapiantato è stata attribuita principalmente agli inevitabili e cronici effetti nefrotossici degli inibitori della calcineurina (CNI, ciclosporina e tacrolimus). Questo assioma è stato ampiamente validato dallo Studio Symphony che ha sottolineato come l’utilizzo di basse dosi di CNI (principalmente tacrolimus) fosse associato ad una migliore sopravvivenza del graft a 3 anni [2]. Questi risultati avevano innescato nella comunità trapiantologica internazionale la tendenza a minimizzare la terapia immunosoppressiva (spesso anche in pazienti a maggiore rischio immunologico).

Tuttavia, negli ultimi anni, grazie all’utilizzo della biologia molecolare (in particolare delle scienze omiche) [3] e allo sviluppo di programmi di biopsie protocollari [4], si è compreso che questa strategia aveva importanti limitazioni e il danno cronico da CNI coinvolgeva un numero di pazienti meno ampio rispetto a quanto si pensasse in passato e non tendeva ad evolvere molto rapidamente [5]. Inoltre, si è chiarito che il danno cronico del graft può comparire anche molto precocemente nel post-trapianto e avere connotazioni fisiopatologiche molto complesse [6].

Infatti, la fibrosi del rene trapiantato (meglio definita come infiammazione interstiziale/atrofia tubulare, IF/TA) non rappresentava più una semplice “cicatrizzazione parenchimale”, ma un processo complesso, inevitabile, dinamico e progressivo indotto da molti fattori patologici e caratterizzata da un significativo rimodellamento dell’interstizio associato ad un’eccessiva produzione/deposizione di matrice fibrillare extracellulare (ECM) [7] con conseguente alterazione della normale architettura del tessuto renale e della microperfusione che portava allo sviluppo di insufficienza d’organo (fino all’end-stage renal disease).

L’IF/TA è diagnosticabile istologicamente in circa il 40% dei reni trapiantati 3-6 mesi dopo il trapianto [8, 9] e coinvolge circa il 65% degli organi a 2 anni [10].

Dati della letteratura hanno poi sottolineato che questa condizione ha un drammatico impatto sull’outcome. Infatti, la sopravvivenza del trapianto a 10 anni è del 90-95% nei pazienti con istologia normale, dell’80-85% nei pazienti con IF/TA (senza vasculopatia) e del 40-45% nei pazienti che sviluppano IF/TA associata a vasculopatia [4].

In questo contesto fisiopatologico, inoltre, la microinfiammazione dell’organo svolge un ruolo chiave e può contribuire ad accelerare lo sviluppo delle lesioni parenchimali croniche e del danno funzionale dell’organo trapiantato [11]. L’infiammazione nelle aree cicatriziali/fibrotiche è stata ampiamente riconosciuta dalla classificazione Banff che ha coniato il termine di IF/TA con infiammazione (i-IF/TA). In particolare, i-IF/TA rispecchia il grading di Banff i (con soglie uguali), ma viene applicato solo al parenchima corticale cicatrizzato [12].

Questa condizione, segnalata per la prima volta nel 2009, è associata ad una peggiore sopravvivenza dell’organo trapiantato e rappresenta una risposta al danno tissutale acuto derivante da molte forme di insulto parenchimale (come rigetti acuti e cronici mediati da cellule T e anticorpi) innescato spesso da uno stato di sotto-immunosoppressione farmacologica [13,14].

 

Cenni di biologia del danno fibrotico del rene trapiantato associato alla microinfiammazione parenchimale

Da un punto di vista prettamente biologico, nel danno fibrotico associato alla micro-infiammazione, le lesioni iniziali coinvolgono diversi tipi cellulari (come macrofagi, cellule dendritiche, linfociti) [15] e implicano il coinvolgimento di cellule effettrici che mediano la deposizione di matrice extracellulare (ECM) e la fibrosi come i miofibroblasti (derivati ​​da cellule mesenchimali residenti), i fibroblasti, i fibrociti (derivati dal midollo osseo), le cellule epiteliali, le cellule endoteliali e i periciti attivati ​​da citochine pro-fibrotiche e fattori di crescita secreti dai linfociti dopo danno dell’endotelio [16, 17].

I fattori alla base dello sviluppo rapido di questa condizione sono molteplici, tra cui: 1) gli inevitabili effetti del danno da ischemia-riperfusione; 2) le infezioni virali (principalmente BK virus) e batteriche (spesso ricorrenti); 3) l’insorgenza e il numero di episodi di rigetto acuto cellulare ed umorale (anche forme subcliniche e borderline).

Come ampiamente riportato in letteratura [15, 17, 18], il processo fibrotico dell’organo trapiantato è indotto da una rete biologica multifattoriale e finemente regolata. Nella fase iniziale l’infiammazione intra-parenchimale, parte integrante dei meccanismi di difesa dell’ospite in risposta al danno, si attiva e, se non risolta, può portare allo sviluppo di un danno fibrotico [19]. In questo contesto, diverse citochine pro-infiammatorie, pro-fibrotiche e molecole di adesione vengono prodotte/secrete causando cambiamenti del microambiente locale e inducendo un reclutamento di cellule immuno-infiammatorie che, interagendo con diversi tipi cellulari nel rene, possono perpetuare la risposta fibrotica [19]. Inoltre, gli infiltrati infiammatori (inclusi neutrofili, macrofagi e linfociti T e B), potenziano il processo fibrotico e, attivando le cellule endoteliali capillari peri-tubulari, possono facilitare il reclutamento di nuove cellule mononucleate [11] che, infiltrando i tessuti, secernono citochine fibrotiche (come il TGF-β1).

Altre citochine coinvolte nel reclutamento di cellule infiammatorie sono: la proteina chemiotattica dei monociti-1 (MCP-1), la proteina infiammatoria dei macrofagi-1 (MIP-1) e la proteina infiammatoria dei macrofagi-2 (MIP-2) [20]. La sovra-espressione di queste molecole rilasciate dalle cellule tubulari danneggiate crea un gradiente di infiltrazione di monociti/macrofagi infiammatori e cellule T nei siti interessati dal processo patologico che alimenta il pathway immuno-infiammatorio (e pro-fibrotico).

In una successiva fase di attivazione, il network biologico descritto porta all’attivazione dei miofibroblasti, un ampio gruppo di cellule coinvolte nella produzione di componenti dell’ECM e che derivano da molteplici fonti, tra cui fibroblasti, fibrociti, cellule epiteliali renali che subiscono transizione mesenchimale (EMT) e periciti [16].

Durante questa condizione, poi, le cellule subiscono profondi cambiamenti morfologici e funzionali tra cui: iper-espressione dei marcatori mesenchimali (vimentina, α-actina del muscolo liscio, fibronectina), rilascio di metallopeptidasi della matrice (MMP) -9 e -2, aumento della motilità, riduzione della citocheratina e della E-caderina [21] e cambiamento nella composizione dei proteoglicani eparan solfato (HSPG) [22].

L’HSPG più abbondante nelle cellule epiteliali tubulari renali è il sindecano-1 che promuove la riparazione e la sopravvivenza tubulare renale dopo danno, e la cui funzione sembra essere correlata al miglioramento funzionale nel trapianto renale sottoposto a danno da I/R [23]. Diversi fattori possono modulare il sindecano-1, tra cui l’eparanasi (HPSE), un’endo-β-D-glucuronidasi che scinde le catene di eparan solfato in frammenti da 4 a 7 kDa e che è stata implicata nella patogenesi di diverse malattie renali [24] tra cui la nefropatia diabetica e la patologia cronica del graft [25].

Come recentemente dimostrato dal nostro gruppo, l’HPSE risulta iper-espressa e attivata dopo danno da I/R ed è in grado di rimodellare la matrice extracellulare, di indurre EMT e di controllare alcune delle complesse interazioni tra cellule tubulari renali e macrofagi (principalmente pro-infiammatori M1) che si infiltrano nel trapianto dopo il danno [26-29]. Questo crosstalk tra i macrofagi M1 e le cellule epiteliali tubulari renali, che coinvolge anche l’apoptosi, la produzione di pattern molecolari associati al danno (DAMP) e l’up-regulation del Toll-Like Receptor (TLR)-2 e TLR-4 nelle cellule epiteliali tubulari e le cellule endoteliali vascolari [30,31], promuove il rilascio di mediatori proinfiammatori, facilita la migrazione e l’infiltrazione dei leucociti, attiva le risposte immunitarie innate e adattative e potenzia la fibrosi renale [32].

Nella genesi e progressione del danno fibrotico infiammatorio-mediato del graft, come nel rene nativo, comunque, entrano in gioco anche le principali comorbidità (come malattia cardiovascolare, diabete, dislipidemia, obesità) che direttamente, o attraverso l’attivazione del pathway infiammatorio intra-parenchimale, possono indurre fibrosi e danno cronico del graft.

 

Potenziali approcci terapeutici

Strategie attuali

Per poter garantire una migliore sopravvivenza del graft e rallentare la progressione del danno cronico (soprattutto infiammatorio-mediato) è necessario gestire in maniera ottimale la terapia immunosoppressiva.

Nell’ultimo ventennio, una serie di studi clinici ha analizzato l’impatto della terapia immunosoppressiva (in particolare dei CNI) sulla genesi della fibrosi del rene trapiantato e sullo sviluppo della disfunzione cronica del trapianto (CAD) [33]. Tuttavia, l’esatto meccanismo biologico alla base del danno fibrotico farmaco-indotto non è stato ancora completamente definito.

I CNI sembrano causare fibrosi d’organo inducendo vasocostrizione renale e sistemica attraverso un aumento del rilascio di endotelina-1 [34], l’attivazione del sistema renina-angiotensina, una maggiore produzione di trombossano A2 e una ridotta produzione di vasodilatatori come l’ossido nitrico e la prostaciclina [35].

Questi farmaci possono anche causare stress ossidativo attraverso il disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa mitocondriale, l’inibizione del ciclo di Krebs e l’attivazione della glicolisi anaerobica nel citosol [36]. Inoltre, l’IF/TA associato alla tossicità da CNI è correlato all’aumento dell’espressione di mRNA di TGF-β intrarenale [37]. Il TGF-β può promuovere la fibrosi interstiziale diminuendo la degradazione e aumentando la produzione di proteine ​​della matrice extracellulare [38].

Comunque, i CNI a dosi più elevate rappresentano una possibile soluzione allo sviluppo delle lesioni indotte dal sistema immune e che si concretizzano con la genesi della chronic active antibody mediated rejection (CAMR). È evidente, però, che una strategia di potenziamento dei CNI può incrementare lo sviluppo di comorbidità (malattia cardio-vascolare, neoplasie, malattie infettive) riducendo potenzialmente la sopravvivenza del trapianto.

Pertanto, è indispensabile pensare a trattamenti terapeutici multi-farmacologici che permettano la minimizzazione o la sospensione dei CNI. In questa filosofia terapeutica gli inibitori di mammalian target of rapamycin (mTOR-I, Everolimus, Sirolimus) possono avere un ruolo chiave.

Bisogna, però, tenere presente che, anche per questa categoria farmacologica, la dose ha un ruolo chiave. Stanno, infatti, emergendo evidenze cliniche che sottolineano un possibile effetto duale ed opposto dose-correlato degli mTOR-I. Secondo recenti studi biomolecolari, basse dosi di questi farmaci possano avere effetti protettivi (o neutri) sulla fibrosi del trapianto, mentre a concentrazioni elevate possono indurre fibrosi principalmente attraverso EMT delle cellule tubulari renali [39-41].

Pertanto, visti questi studi, sarebbe auspicabile proporre una strategia terapeutica “sostenibile” che contempli l’utilizzo delle più basse dosi possibili di più farmaci immunosoppressori somministrati contemporaneamente (incluso gli mTOR-I).

Questa filosofia è stata recentemente riportata nello studio Transform [42]. Questo ampio studio osservazionale, prospettico, e retrospettivo, internazionale multicentrico ha dimostrato la non inferiorità del trattamento combinato di mTOR-I a basse dosi con CNI a basse dosi versus la classica triplice terapia immunosoppressiva (Dosi standard di CNI associate a citostatici) e il positivo impatto sullo sviluppo di comorbidità (come le infezioni virali).

Resta implicito che l’impiego di altri preparati farmacologici come il Belatacept possa essere un’utile strategia per raggiungere questo target [43].

In aggiunta, il controllo delle comorbidità (anche attraverso la modulazione della terapia immunosoppressiva) può aiutare a rallentare la progressione della fibrosi. Negli ultimi anni, gli inibitori dei trasportatori sodio-glucosio tipo 2 (SGLT2) hanno mostrato interessanti potenzialità cardio-nefro-protettrici candidandosi a possibili nuove armi terapeutiche da sfruttare in ambito trapiantologico [44].

Nuovi potenziali agenti anti-fibrotici

Sulla base di recenti osservazioni, un gran numero di farmaci innovativi sono stati proposti per rallentare la progressione della fibrosi renale in nefrologia [45] (anche se scarsamente sperimentati in campo trapiantologico): (a) anticorpi neutralizzanti contro diverse isoforme di TGF-β [46]; (b) pirfenidone (5-metil-1-fenil-2(1H)-piridone), un derivato della piridina disponibile per via orale che inibisce la formazione di collagene e che mostra proprietà antifibrotiche in una varietà di modelli in vitro e animali di fibrosi epatica e renale [47], e usato per trattare la fibrosi polmonare idiopatica [48]; (c) tranilast (e i suoi derivati ​cinnamoyl antranilati), un farmaco antiallergico che inibisce il rilascio di mediatori chimici dai mastociti [49]; (d) THR-123 (Thrasos Therapeutics, Canada), un piccolo agonista peptidico della bone morphogenetic protein (BMP)-7, somministrato per via orale, funziona attraverso la segnalazione della activin-like kinase (ALK3) per sopprimere l’infiammazione, l’apoptosi e l’EMT, e la fibrosi in diversi modelli murini di danno renale acuto e cronico [50]; (e) pentossifillina, inibitore della fosfodiesterasi (PDE) che ha dimostrato di inibire l’espressione di connective tissue growth factor (CTGF) indotta da TGF-β1 così come l’espressione di collagene di tipo I e α-SMA [51]; (f) inibitore di Nox1/4, GKT137831 (Genkyotex) che ha soppresso la produzione di ROS e l’espressione genica fibrotica e ha attenuato la fibrosi (principalmente nel modello animale con nefropatia diabetica) [52].

Tuttavia, al momento, nessuno di loro è stato testato nel trapianto di rene. Pertanto, dovrebbero essere intrapresi più studi e sperimentazioni cliniche per valutare meglio la loro efficacia terapeutica e tossicità in questo contesto clinico.

 

Conclusioni

La nefropatia cronica del trapianto è un evento che può iniziare molto precocemente nel post-trapianto e che, in una larga percentuale dei casi, è associato all’attivazione di un pathway immuno-infiammatorio intra-parenchimale. Al momento, sono in corso una serie di studi finalizzati all’analisi e all’identificazione di nuovi elementi potenzialmente coinvolti nell’ esteso pathway pro-fibrotico del rene trapiantato, ma non dobbiamo dimenticare che fattori come la terapia immunosoppressiva, l’ipertensione, l’anemia e l’obesità sono ancora implicati nella genesi del danno cronico “non immuno-infiammatorio” del graft. In attesa di innovativi agenti terapeutici, l’utilizzo “ragionato e personalizzato” degli attuali farmaci antirigetto (principalmente CNI+mTOR-I) e l’attenzione alle comorbidità (non dimenticando di dedicare tempo al follow-up e incrementare il network multi-specialistico) è una via da perseguire per ottenere un accettabile rallentamento delle lesioni croniche del graft. Tutte queste considerazioni, affrontate nel Congresso Nefrologico di Grado del 2022, hanno infine fatto emergere che c’è ancora tanto da fare non solo per comprendere le basi fisiopatologiche del danno cronico del rene trapiantato, ma anche per individuare biomarkers predittivi e nuovi target terapeutici utili per arginare l’evoluzione di questa condizione clinica.

 

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Coinvolgimento renale nel LES

Abstract

La nefrite lupica (NL) è una manifestazione frequente e severa di lupus eritematoso sistemico (LES). Clinicamente la NL può presentarsi con quadri clinici estremamente variabili, da anomalie urinarie isolate a quadri di glomerulonefrite rapidamente progressiva. La biopsia renale rimane il gold standard per la diagnosi di NL, in quanto non sempre la presentazione clinico-laboratoristica correla con il dato istologico. Il trattamento della NL prevede terapie di supporto e terapie immunosoppressive mirate con una fase di induzione, oggi chiamata terapia iniziale, e una fase di mantenimento, oggi chiamata terapia successiva. Accanto ai farmaci più utilizzati quali steroidi, micofenolato mofetile e ciclofosfamide, negli ultimi decenni sono stati introdotti nuovi farmaci quali gli inibitori delle calcineurine (voclosporina) e gli anticorpi monoclonali come belimumab, e rituximab. Sebbene il rischio di progressione a malattia renale terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e la sopravvivenza di questi pazienti siano significativamente migliorati dagli anni ‘70 ad oggi, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo. Diagnosi precoce, protocolli terapeutici più mirati, migliore prevenzione e gestione delle complicanze sono tra i fattori più importanti per la prognosi di questi pazienti.

Parole chiave: nefrite lupica, immunosoppressione, malattia renale cronica terminale, remissione

Introduzione

Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia cronica autoimmune sistemica, che colpisce maggiormente giovani donne, in età fertile, con un rapporto donne/uomini compreso tra 8:1 e 15:1, che scende a 4:3 in età pre-pubere e nei bambini [1, 2]. Il coinvolgimento renale in corso di LES è molto frequente ed è riscontrato in circa il 40% dei pazienti. Sebbene la prognosi dei pazienti affetti da nefrite lupica (NL) sia migliorata negli ultimi decenni grazie a diagnosi precoci, all’uso di protocolli terapeutici mirati e a migliori terapie di supporto, la sopravvivenza di questi pazienti continua ad essere inferiore a quella dei pazienti affetti da LES senza interessamento renale [3]. Insieme a infezioni, neoplasie ed eventi cardiovascolari improvvisi, la NL rappresenta ancora oggi una delle più comuni cause di morte [4-8].

Hanly et al descrivono una coorte internazionale incidente di 1826 pazienti affetti da LES. La NL, diagnosticata in 700 pazienti (il 38,3%), è più frequente in pazienti giovani, di sesso maschile e di razza non caucasica; purtroppo però in questo studio solo il 56,4% dei pazienti sono stati sottoposti a biopsia renale. Negli afroamericani la NL, oltre ad essere più frequente, si presenta più precocemente, con quadri più aggressivi e con una maggior incidenza di malattia proliferativa diffusa alla biopsia renale rispetto alle altre etnie [9, 10].

 

Manifestazioni cliniche 

L’esordio clinico renale è molto spesso subdolo e asintomatico e la diagnosi di NL si basa su un complesso inquadramento clinico-patologico. Da ciò si evince l’importanza di uno stretto follow-up della funzione renale e dell’esame urine con rapida esecuzione di biopsia renale se presenti segni clinico-laboratoristici sospetti. La maggior parte dei pazienti sviluppa interessamento renale nei primi 5 anni dalla diagnosi di LES anche se può manifestarsi come prima manifestazione di malattia [10]. L’interessamento renale in corso di LES è stato definito dai criteri dell’American College of Rheumathology (ACR) del 1982 dalla presenza di proteinuria maggiore di 500 mg/die o 3+ al dipstick urine e/o di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario [11]. I criteri del 2012 del Systemic Lupus International Collaborating Clinics (SLICC) hanno confermato come criterio clinico di interessamento renale la proteinuria delle 24 ore > 500 mg/die (o rapporto proteinuria/creatininuria P/C > 500 mg/g su campione estemporaneo) e/o la presenza di cilindri ematici al sedimento urinario. Inoltre, la presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale, secondo la classificazione dell’International Society of Nephrology/Renal Pathology Society (ISN/RPS) [12], in associazione a positività degli anticorpi anti-nucleo (ANA) o degli anti-double stranded (dsDNA), è sufficiente a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia [13]. Negli ultimi criteri classificativi del 2019 dell’ACR e dell’European Legue Against Rheumathism (EULAR) è stata introdotta la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES e sottolineata l’importanza della biopsia renale; la presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale, infatti, rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES (Tabella1) [14].

 

Criteri ACR del 1997*

Proteinuria persistente maggiore di 500 mg/24 ore o proteine > 3+ al dipstick urinario

e/o

Presenza di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario (ematici, granulari, tubulari o misti)

 

Criteri SLICC del 2012**

Proteinuria delle 24 ore > 500 mg/24 ore o rapporto P/C > 500 mg/g su campione urine estemporaneo

e/o

Presenza di cilindri ematici al sedimento urinario

e/o

Presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale (secondo la classificazione dell’ISN/RPS). Quest’ultima, in associazione a positività degli ANA o dei dsDNA, è sufficiente da sola a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia

 

Criteri EULAR/ACR del 2019***

Proteinuria > 500 mg/24 ore o rapporto P/C equivalente su campione urine estemporaneo

e/o

Biopsia renale compatibile con nefrite lupica (secondo la classificazione dell’ISN/RPS).

La presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES.

Tabella 1: Criteri classificativi di interessamento renale nel LES [11-14].
ACR: American College of Rheumatology; SLICC: Systemic Lupus International Collaborating Clinics; P/C: proteinuria/creatininuria; LES: lupus eritematoso sistemico; ISN/RPS: International Society of Nephrology/Renal Pathology Society; ANA: anticorpi anti-nucleo; dsDNA,:anti-double stranded; EULAR: European League Against Rheumatism.
*La classificazione ACR si basa su 11 criteri. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 degli 11 criteri classificativi.
**La classificazione SLICC si basa su 17 criteri, divisi in clinici (tra cui l’interessamento renale) e immunologici. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 criteri, di cui almeno 1 clinico e 1 immunologico o in presenza di biopsia renale compatibile con nefrite lupica in associazione a positività degli ANA o dei ds-DNA, anche in assenza di altri criteri.
***I criteri EULAR/ACR richiedono la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES. I criteri aggiuntivi sono 7 clinici (tra cui l’interessamento renale) e 3 immunologici, ognuno dei quali ha un punteggio da 2 a 10. La diagnosi di LES è possibile in presenza di ANA positivi e almeno 10 punti.

Le manifestazioni cliniche renali variano da anomalie urinarie isolate (proteinuria subnefrosica e/o microematuria glomerulare in assenza di alterazione della funzione renale) a quadri più severi quali sindrome nefrosica, sindrome nefritica o forme di glomerulonefrite rapidamente progressiva con insufficienza renale. In una recente casistica italiana di 499 pazienti affetti da NL, il 40,7% dei pazienti presenta anomalie urinarie isolate al momento della diagnosi, il 34,9% sindrome nefrosica, il 18,4% sindrome nefritica acuta e il 9% insufficienza renale rapidamente progressiva. Questi pazienti sono stati divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016. L’analisi dei tre gruppi ha mostrato significative differenze sia in termini epidemiologici che di presentazione clinico-laboratoristica. Dal 1970 al 2016 si è registrato, infatti, un progressivo aumento del numero di pazienti di sesso maschile (6,6% vs 12% vs 20%) e dell’età al momento della diagnosi (28,4 vs 28,9 vs 34,4). Dal punto di vista clinico, dalla primo al terzo periodo, è stata riscontrata una significativa riduzione di sindromi nefritiche e delle forme rapidamente progressive (da 29% a 12% e da 13,3% a 3,3% rispettivamente) a fronte di un incremento delle anomalie urinarie isolate (da 27% a 49%). Questi ultimi dati sono verosimilmente legati a una diagnosi precoce di NL (Figura 1) [15].

Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata
Figura 1: Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata con biopsia renale e seguiti dal 1970 al 2016, divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016.

 

Classificazione istologica e correlazione clinico-patologica

La biopsia renale percutanea è elemento fondamentale per la diagnosi e la classificazione della NL. Già nel 1999 venne dimostrata l’importanza della biopsia renale, in quanto le manifestazioni cliniche non sempre correlano con il dato istologico e anomalie urinarie isolate possono associarsi a quadri proliferativi alla biopsia renale [16-18]. L’analisi istologica ci permette di differenziare la NL in classi istopatologiche, di classificare la gravità del coinvolgimento renale in termini di attività e cronicità del danno parenchimale e di escludere altre patologie renali quali la microangiopatia trombotica, altri tipi di glomerulonefrite (IgA nephropathy ad esempio), podocitopatie non da immunocomplessi e quadri di nefrite tubulointerstiziale o di necrosi tubulare acuta [19-21].

La biopsia renale è indicata in tutti i pazienti con proteinuria > 500 mg/24 ore o con P/C > 500 mg/g (50 mg/mmol), microematuria glomerulare con o senza cast eritrocitari o in presenza di alterazione della funzione renale non attribuibile ad altra causa specifica. Anche in presenza di leucocituria o piuria persistente, dopo un completo screening diagnostico, può essere utile l’esecuzione di biopsia renale [22-24]. La NL è divisa in sei classi istologiche in base alla presenza di specifiche lesioni microscopiche e alla distribuzione degli immunocomplessi (IC), secondo la classificazione istologica ISN/RPS del 2003 poi revisionata nel 2018. Al momento non esistono marcatori sierici o urinari in grado di predire la classe istologica [12, 25].

La classe I o minima mesangiale è rara, ha una prevalenza dell’1% e del 2,3% negli adulti e nei bambini rispettivamente in quanto questi pazienti tipicamente presentano minima proteinuria e funzione renale nella norma. All’immunofluorescenza (IF) e alla microscopia elettronica (ME) si evidenziano immunodepositi mesangiali di C3 e di immunoglobuline (soprattutto IgG e IgM) in assenza di anomalie alla microscopia ottica (MO) [26]. La classe II o proliferativa mesangiale rappresenta il 7-22% di tutti i casi e si presenta clinicamente con microematuria glomerulare, proteinuria subnefrosica e funzione renale nella norma. Questa è caratterizzata da ipercellularità mesangiale ed espansione della matrice mesangiale alla MO, con immunodepositi mesangiali e pochi depositi subepiteliali e subendoteliali visibili unicamente all’IF o alla ME. La prognosi di questa classe istologica è buona e non richiede terapia specifica anche se il rischio di progressione a proliferativa diffusa può raggiungere il 47% [27]. Nella classe III o proliferativa focale < 50% dei glomeruli presenta alla MO ipercellularità endocapillare o extracapillare, segmentale o globale, ma depositi mesangiali e subendoteliali diffusi alla ME, positivi per IgG e C3 all’IF. La classe IV o proliferativa diffusa è la classe istologica più frequente (rappresenta 50% di tutte le biopsie). Istologicamente più del 50% dei glomeruli è coinvolto e presenta ipercellularità, lesioni necrotizzanti e anche in alcuni casi proliferazione extracapillare con formazione di semilune. All’IF ci sono depositi di immunoglobuline (specialmente di IgG) e complemento (soprattutto C3). La ME mostra depositi subendoteliali con o senza alterazioni mesangiali. Le classi proliferative si presentano tipicamente con microematuria glomerulare e proteinuria, anche se alcuni pazienti possono presentare sindrome nefrosica, sindrome nefritica, ipertensione arteriosa o riduzione del filtrato glomerulare con rapida progressione verso l’insufficienza renale. I pazienti hanno livelli di complementemia ridotti (specialmente C3) ed elevati livelli di ds-DNA soprattutto in corso di malattia attiva [28]. Le classi III e IV sono associate a prognosi peggiore, con maggior rischio di progressione a malattia renale cronica terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e necessitano di trattamento immunosoppressivo [29]. La classe V o nefropatia membranosa lupica rappresenta il 10-20% dei pazienti con interessamento renale [30, 31]. I pazienti presentano tipicamente sindrome nefrosica con quadro molto simile ai pazienti con nefropatia membranosa idiopatica. Dal punto di vista istologico è caratterizzata da ispessimento delle membrane basali glomerulari alla MO, immunodepositi subepiteliali con coinvolgimento segmentale o globale all’IF e alla ME. Può essere riscontrata in combinazione con le classi III o IV e in tal caso la diagnosi è mista; negli anni si è visto un aumento delle forme miste (III/IV+ V) (Tabella 2).

Classe I Glomeruli normali alla Microscopia ottica e depositi mesangiali alla Immunofluorescenza e Microscopia elettronica
Classe II Aumento della cellularità mesangiale e depositi mesangiali
Classe III Proliferazione focale e segmentaria o globale estesa a meno del 50% dei glomeruli in fase attiva (A) o cronica (C) (A, AC, C)
Classe IV Come la classe terza, ma coinvolge più del 50% dei glomeruli
Classe V Glomerulonefrite membranosa con depositi subepiteliali a distribuzione globale o segmentaria
Classe VI Lesioni sclerotiche estese a più del 90% dei glomeruli
Tabella 2: Classificazione istologica ISN/RPS nefrite lupica [25].

La classe V non presenta tipicamente manifestazioni cliniche o sierologiche tipiche del LES, con livelli di complementemia nella norma e autoimmunità negativa. La velocità di progressione a ESKD è lenta ma può associarsi a importanti complicanze correlate alla sindrome nefrosica quali eventi trombotici e infezioni [32]. La classe VI o di sclerosi avanzata è caratterizzata da glomerulosclerosi in più del 90% dei glomeruli, rappresenta lo stadio terminale dei processi infiammatori a carico dei glomeruli ed è associata a sedimento urinario inattivo, proteinuria di vario grado e progressione verso l’insufficienza renale [33].

La revisione della classificazione del 2018 ha introdotto un indice di attività e cronicità di malattia in sostituzione delle precedenti lesioni attive e croniche delle classi proliferative e ha eliminato la precedente distinzione tra segmentale (S) e globale (G) delle classi III e IV [25]. È stato sostituito il termine ‘proliferativo’ con ‘ipercellularità’ e sono state introdotte definizioni di caratteristiche istologiche tipiche, quali la definizione di podocitopatia, intesa come presenza di fusione pedicellare alla ME anche in pazienti con lesioni minime alla MO, con o senza IC; quest’ultima si presenta con sindrome nefrosica ed è più facilmente associata a progressione a ESKD [34].

Nella casistica italiana di 499 pazienti sopracitata, il 53,7 % dei pazienti presentava una glomerulonefrite proliferativa diffusa (classe IV) alla biopsia renale, il 22,8% una glomerulonefrite proliferativa focale (classe III), il 17,2% una nefropatia membranosa lupica (classe V) e il 4,4% una proliferativa mesangiale (classe II) (Figura 2). L’analisi istologica nei gruppi non ha mostrato differenze in termini di classi istologiche e di attività di malattia nei tre periodi, ma si è riscontrata una significativa progressiva riduzione dell’indice di cronicità nei pazienti sottoposti a biopsia dal primo al terzo. Quest’ultimo dato, unito al fatto che i pazienti biopsiati dal 2001 al 2016 presentavano più frequentemente anomalie urinarie isolate al momento della biopsia, conferma l’importanza della diagnosi precoce in termini prognostici [15].

Una seconda biopsia renale è indicata in caso di peggioramento della funzione renale, importante aumento della proteinuria o comparsa di sedimento urinario attivo oltre che in caso di non risposta al trattamento [35]. In un recente studio l’indicazione alla rivalutazione istologica potrebbe essere utile per guidare la sospensione della terapia immunosoppressiva [36].

Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica
Figura 2: Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica, diagnosticati tra il 1970 e il 2016.

 

Trattamento

L’approccio terapeutico nella NL è guidato dai dati clinico-istologici, in particolare non solo dalla classe istologica ma anche dal grado di attività o cronicità di malattia (activity index) e dalla presenza di lesioni alla biopsia renale, quali l’interessamento tubulo-interstiziale o microangiopatia trombotica.

In accordo con le ultime raccomandazioni EULAR, l’obiettivo della terapia della NL è preservare la funzione renale, ridurre le recidive, controllare le comorbidità e migliorare così la mortalità dei pazienti. Inoltre, è fondamentale prevenire le tossicità iatrogene, in particolare preservare la fertilità [18, 24]. In tutti i pazienti affetti da NL è raccomandata un’adeguata terapia di supporto volta a ridurre il rischio cardiovascolare (controllo delle dislipidemie, sospensione del fumo, controllo del peso corporeo), migliorare i valori di proteinuria (controllo della pressione arteriosa, inibizione del sistema renina angiotensina aldosterone (RAAS)), ridurre il rischio infettivo (di vaccinazioni, profilassi farmacologica per infezioni opportunistiche) e prevenire i danni farmacologici legati a trattamenti prolungati (controllo osteoporosi, screening oncologici e percorsi per preservare la fertilità) [37]. Nelle classi proliferative (III e IV) e nella classe V, accanto alla terapia di supporto, è necessario un trattamento immunosoppressivo. Da decenni l’utilizzo di protocolli terapeutici sempre più mirati, ha migliorato la prognosi di questi pazienti.

Per le classi I e II le attuali raccomandazioni non includono terapia con immunosoppressori ma sola terapia di supporto. Nelle classi III e IV i protocolli terapeutici prevedono una fase di induzione e una fase di mantenimento, oggi definite terapia iniziale e terapia successiva rispettivamente. La terapia iniziale dura 3-6 mesi, ha l’obiettivo di ottenere la remissione della malattia infiammatoria renale acuta ed è basata sull’uso corticosteroidi in associazione a farmaci immunosoppressori. Al fine di ridurre la dose cumulativa dello steroide e degli effetti collaterali ad esso correlati, è raccomandata la somministrazione di steroidi ev ad alte dosi (boli di metilprednisolone con dose cumulativa compresa tra 500 e 2500 mg, suddivisi in 3 boli in 3 giorni consecutivi) seguita da terapia per os (prednisone 0,3-0,5 mg/kg/die), da ridurre a ≤ 7,5 mg/die in 3-6 mesi.  L’utilizzo di prednisone per os (prednisone 1 mg/kg/die) non preceduto dai boli, è indicato in pazienti con bassa severità di malattia. I farmaci immunosoppressori raccomandati come prima linea nella terapia iniziale rimangono la ciclofosfamide (CYC) ev a bassa dose (500 mg ogni 2 settimane per un totale di 6 dosi) o il micofenolato mofetile (MMF) (dose target 2-3 g/die o acido micofenolico allo stesso dosaggio per 6 mesi) [38].

Già dagli anni ‘80 Austin et al (del National Institute of Health, NIH) hanno dimostrato che l’introduzione della CYC ev ad alta dose in aggiunta alla terapia steroidea è associata a un miglior outcome renale rispetto alla sola terapia steroidea. Successivamente Houssiau et al, al fine di ridurre il dosaggio cumulativo della CYC e la tossicità ad essa legata, hanno confrontato un gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose (schema Euro-Lupus Nephritis Trial, ELNT, 6 boli da 500 mg ogni 14 giorni) con i pazienti trattati con CYC ev ad alta dose (schema del NIH 8 boli 0,75g/m2 ogni mese) e evidenziando una minor incidenza di eventi avversi, in particolare di infezioni severe, nel gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose [39-41]. Questo studio mostra anche che non ci sono differenze significative in termini di risposta al trattamento nei due schemi, seppur i pazienti dell’NIH presentassero un quadro clinico più severo rispetto ai pazienti dell’ELNT. Pertanto, alte dosi di CYC (0,5-0,7 g/m2 mensilmente per 6 mesi) sono consigliate solo nelle forme più gravi che si presentano con insufficienza renale, necrosi fibrinoide o semilune alla biopsia e quindi con elevato rischio di progressione a ESKD. La CYC può essere somministrata anche per via orale al dosaggio di 1-1,5 mg/kg/die con dose massima di 150 g/die per 2-4 mesi [42]. L’alternativa alla CYC è il MMF, che nelle ultime decadi risulta il farmaco più utilizzato. Lo studio multicentrico Aspreva Lupus Management Study (ALMS) ha dimostrato, infatti, una non inferiorità del MMF se utilizzato al dosaggio di 3 g/die, con pari effetti collaterali ma minor tossicità gonadica rispetto alla CYC; inoltre, il MMF si associa a miglior risposta terapeutica nei pazienti di razza africana e ispanica, sottolineando l’importanza dell’etnia in termini di risposta al trattamento [43]. Le attuali raccomandazioni suggeriscono in caso di non risposta al MMF di avviare trattamento con CYC e viceversa. Nei pazienti non-responder o refrattari alla terapia, il rituximab (RTX), anticorpo monoclonale anti-CD20, rappresenta un’alternativa per la terapia iniziale, pur essendo ancora off-label. Sebbene lo studio LUNAR (Lupus Nephritis Assessment With Rituximab Study), trial clinico randomizzato prospettico, non abbia dimostrato un miglioramento dell’outcome nei pazienti trattati con RTX in associazione a terapia di induzione standard (MMF o CYC) rispetto al placebo, altri studi retrospettivi/osservazionali hanno mostrato come la terapia con RTX si associa a significativa riduzione dell’attività di malattia e della proteinuria; inoltre, è stato dimostrato che possa essere utilizzato come steroid-sparing. Il dosaggio consigliato è di 1000 mg nei giorni 0 e 14 [44-49].

Gli inibitori delle calcineurine (CNI), soprattutto il tacrolimus (TAC), in associazione al MMF (1-2 g/die) costituiscono un’altra alternativa per la terapia iniziale e sono raccomandati principalmente nei pazienti con proteinuria in range nefrosico. Sono controindicati in presenza di malattia renale cronica, di alto indice di cronicità alla biopsia renale e di scarso controllo pressorio. In diversi studi i CNI determinano una remissione completa simile alla CYC ev e al MMF; inoltre, in uno studio randomizzato cinese di 362 pazienti, la combinazione di CNI e MMF, definita terapia multi-tagret, si è dimostrata superiore rispetto alla CYC nel breve termine. Non essendo ancora studiata nelle diverse etnie, la terapia multi-target non risulta ancora tra i farmaci raccomandati come prima linea [50, 51].

Nel gennaio ‘21 la US Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’utilizzo di voclosporina in aggiunta a steroidi e MMF per il trattamento dei pazienti con NL attiva. La voclosporina è un CNI di nuova generazione con una differenza aminoacidica rispetto alla ciclosporina A (CyA) che la rende 4 volte più efficace; presenta un’eliminazione più rapida dei metaboliti e conseguente minor esposizione agli effetti collaterali soprattutto in termini di tossicità renale e miglior controllo lipidico e glucidico rispetto a CyA e TAC rispettivamente [52]. Nello studio randomizzato di fase II AURA-LV su 265 pazienti l’utilizzo di voclosporina, in aggiunta a MMF e steroide, confrontato al placebo dimostrava maggior efficacia in termini di risposta completa a 6 mesi anche se associato a maggior incidenza di eventi avversi [53]. Nello studio successivo, uno studio randomizzato di fase IIII, controllato in doppio-cieco, sono stati studiati 357 pazienti affetti da NL attiva, di diverse etnie, sottoposti a terapia orale con voclosporina o placebo in associazione a MMF e steroide per os a basso dosaggio e con rapido decalage. I pazienti trattati con voclosporina hanno raggiunto la remissione completa in numero più significativo senza differenze di riduzione della funzione renale, aumento della pressione arteriosa o scarso controllo glicemico e lipidico [54]. Questo studio dimostra come voclosporina a basse dosi in associazione alla terapia immunosoppressiva standard può migliorare la prognosi dei pazienti con NL; i limiti di questo studio sono l’esclusione di pazienti con GFR < 45 ml/min e un breve follow-up per la valutazione della nefrotossicità [55]. Anche l’ocrelizumab, anticorpo umanizzato anti CD20, è stato studiato nella NL nello studio BELONG. Lo studio è stato però interrotto per comparsa di un numero significativo di infezioni severe nel gruppo trattato con l’anticorpo monoclonale rispetto al placebo anche se si associava a miglioramento dei livelli di complemento e di ds-DNA [56].

Tra le alternative terapeutiche recentemente approvate nel LES c’è il belimumab, un anticorpo monoclonale umano che si lega al ‘B-cell activating factor’, BAFF, citochina coinvolta nella maturazione dei linfociti B. Questo farmaco è stato registrato per il trattamento del LES in associazione alla terapia standard grazie a una serie di studi controllati.  Nel BLISS-LN 448 pazienti con NL attiva sono stati trattati con belimumab (10 mg/kg) o placebo come terapia di induzione in associazione a MMF o CyC ev a bassa dose. Lo studio ha mostrato una risposta renale significativamente superiore nei pazienti trattati con belimumab rispetto al placebo; nei sottogruppi la significatività veniva raggiunta solo nei pazienti trattati con MMF, ma si manteneva nelle diverse etnie coinvolte. Il belimumab è il primo farmaco biologico che ha ottenuto risultati in termini di outcome primari e secondari. Esso può essere considerato in aggiunta alla terapia standard come steroid-sparing per ridurre le riacutizzazioni e come miglior controllo delle manifestazioni extrarenali [57-59].

Dopo un’adeguata terapia iniziale, è raccomandata la terapia di mantenimento o terapia successiva, che ha l’obiettivo di ridurre le recidive e consolidare la risposta terapeutica evitando le tossicità farmacologiche. Essa si basa sull’uso di steroidi per via orale a basso dosaggio (< 5-7,5 mg/die) in associazione a MMF come prima scelta (1-2 g/die o acido micofenolico 720-1440 mg/die) o AZA (1,5-2 mg/kg/die con dose massima di 150-200 mg/die) per 3-5 anni dopo la remissione completa. Nello studio MANTAIN non ci sono state differenze tra Aza e MMF in pazienti caucasici affetti da NL; nello studio ALMS condotto su diverse etnie il MMF si è dimostrato superiore rispetto ad AZA in termini di mortalità, progressione a ESKD, flares e necessità di terapia rescue. In alternativa a MMF e AZA, anche nella terapia di mantenimento sono indicati i CNI, in particolare nei pazienti con persistenza di elevati valori di proteinuria (TAC 4-6 ng/ml o CyA 60-100 nl/ml). Uno studio italiano randomizzato ha mostrato uguale efficacia di AZA e CyA come terapia di mantenimento nel prevenire le recidive in 75 pazienti con NL proliferativa trattati con boli di steroide e CYC per os come terapia di induzione e poi randomizzati a CyA o AZA per due anni; lo studio non ha mostrato differenze significative di funzione renale e controllo pressorio nei due gruppi. L’uso di CYC ev non è consigliato nel mantenimento in quanto meno efficace e più tossica [43, 60-66].

La durata ottimale della terapia immunosoppressiva non è ancora chiara; le linee guida suggeriscono una durata di almeno 36 mesi di trattamento nei pazienti affetti da NL e almeno 1 anno di remissione completa renale in assenza di manifestazioni extrarenali per poter sospendere la terapia immunosoppressiva [24, 37]. Una terapia di mantenimento più prolungata è consigliata in pazienti di sesso maschile, di etnia africana e ispanica, con glomerulonefrite con semilune o microangiopatia trombotica alla biopsia renale e in pazienti con ds-DNA ad alto titolo. La sospensione della terapia immunosoppressiva deve essere graduale e prevede l’eliminazione in primis della terapia steroidea, quindi dell’immunosoppressore; essendo una malattia sistemica, la terapia va stabilita anche in base alle manifestazioni extrarenali [24].

In tutti i pazienti in classe V è consigliata un’adeguata terapia di supporto al fine di evitare possibili complicanze quali trombosi e dislipidemia. Solo nei pazienti con proteinuria > 1 g nonostante la terapia con inibitori del RAAS o con sindrome nefrosica è raccomandata la terapia immunosoppressiva. Le linee guida indicano come prima linea il MMF (3 g/die o acido micofenolico equivalente per 6 mesi) in associazione a steroide ev seguito da terapia steroidea per os (0,5 mg/kg/die); CYC ev e CNI (soprattutto TAC) sono indicati come alternative. I CNI possono essere somministrati in monoterapia o in associazione al MMF soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica. Il RTX può essere considerato nei pazienti non responder [24, 37, 67-69]. Se in associazione a classe III o IV, la nefropatia membranosa lupica va trattata come le classi proliferative.

La classe VI non richiede alcun trattamento immunosoppressivo, ma l’avvio al follow-up della malattia renale cronica.

L’idrossiclorochina (HCQ), antimalarico, è indicata in tutti i pazienti affetti da LES, se non controindicato, al dosaggio di ≤ 5 mg/kg aggiustato nei pazienti con GFR< 30 ml/min; a essa, infatti, si associa minor rischio di sviluppare NL nei pazienti con LES e in associazione alle terapie immunosoppressive riduce le recidive, rallenta la progressione a ESKD, aumentando così la sopravvivenza di questi pazienti. Può essere utilizzata anche in gravidanza.

 

Risposta alla terapia e ‘flare’ di malattia

La risposta renale al trattamento viene valutata in termini di remissione completa (RC), intesa come riduzione della proteinuria a 0,5-0,7 g/die entro 12 mesi dall’inizio del trattamento e remissione parziale (RP) con proteinuria ridotta di almeno il 50% entro 6 mesi, entrambe in presenza di stabilità della funzione renale. Nei pazienti con proteinuria in range nefrosico il tempo per valutare la risposta arriva sino a 12 mesi.  La proteinuria a un anno dall’inizio del trattamento rappresenta, infatti, il miglior predittore di outcome renale a lungo termine [17, 40, 62, 70-71].

Le recidive sono molto frequenti nei pazienti affetti da NL e si associano a peggior outcome renale. Per ‘flare’ o recidiva di malattia si intende un incremento di attività di malattia che richiede una modifica terapeutica. I flares sono classificati in proteinurici e nefritici e severi e non severi. I principali fattori di rischio correlati alla comparsa di recidive sono giovane età < 30 anni alla diagnosi, sesso maschile, etnia afro-americana, ritardo diagnostico-terapeutico, bassi livelli di C4, risposta parziale, rialzo dei ds-DNA, ipertensione arteriosa, bassa dose di immunosoppressione e manifestazioni extrarenali di LES severe quali coinvolgimento del sistema nervoso centrale [72-74].

 

Outcome e conclusioni

Negli ultimi 50 anni la prognosi dei pazienti affetti da NL è significativamente migliorata, con un aumento del tempo di progressione a insufficienza renale e una riduzione della mortalità. In una metanalisi sul rischio di ESKD in pazienti di diverse etnie affetti da NL dal 1970 al 2015, Teckidou et al descrivono un significativo miglioramento dagli anni ‘70 agli anni ‘90, legato all’introduzione della ciclofosfamide, con una successiva stabilizzazione della progressione a ESKD e della sopravvivenza negli ultimi decenni [17].  Nella coorte italiana di 499 pazienti sopradescritta, principalmente costituita da pazienti caucasici, lo sviluppo di malattia renale cronica e ESKD si è significativamente ridotto negli anni (dal 7,9% e 24,8% dei pazienti del periodo 1970-1985 contro il 4,5% e l’1,3% del periodo 2001-2016 rispettivamente), con un ESKD-free survival a 10 e 20 anni del 87% e 80% nel primo gruppo, del 94% e 90% nel secondo gruppo e del 99% nel terzo gruppo. Allo stesso modo nei pazienti diagnosticati e trattati negli ultimi anni è stato registrato un incremento significativo della remissione completa (ottenuta nel 58% dei pazienti con diagnosi dal 2001 al 2016 contro il 49,6% nel primo periodo). Anche la riduzione della mortalità nell’ultimo lasso di tempo rispetto agli altri è statisticamente significativa [15]. I fattori demografici che influenzano negativamente l’outcome renale sono il sesso maschile e l’etnia, con un miglior outcome nei caucasici rispetto agli africani e agli asiatici; i fattori clinici includono la presenza di proteinuria nefrosica, di anemia, di insufficienza renale e giovane età al momento della biopsia renale e di ipertensione arteriosa non controllata e aumentato rischio cardiovascolare durante il follow-up; infine, dal punto di vista istologico le classi istologiche proliferative III e IV sono quelle caratterizzate da decorso clinico più aggressivo e peggior prognosi.

In conclusione, pur essendo migliorata la prognosi di questi pazienti, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo nei pazienti affetti da LES e diagnosi precoci, terapia immunosoppressive mirate, adeguate terapie di supporto con prevenzione e miglior gestione delle complicanze sono fondamentali nel determinare la prognosi di questi pazienti.

 

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