Introduzione della pianificazione condivisa delle cure (PCC) in emodialisi: un progetto pilota per l’applicazione della Legge 219/2017 nei Centri Dialisi

Abstract

In Italia la pianificazione condivisa delle cure (PCC) entra per la prima volta in un testo normativo con la legge 219/2017. La PCC si svolge all’interno di una relazione di fiducia fra il paziente e il personale sanitario: si riflette in anticipo sulle decisioni relative al fine vita tenendo conto, oltre che degli aspetti clinici, di quelli psicologici, culturali, sociali, spirituali ed etici. Il paziente si prepara alla propria eventuale incapacità di autodeterminarsi, può identificare un fiduciario ed esplicita le proprie indicazioni per le fasi di incapacità e/o per il fine vita in linea con i propri valori e i propri obbiettivi.

I pazienti affetti da malattia renale cronica avanzata (MRC) sperimentano sintomi fisici importanti associati al disagio psicologico e sociale e spesso vivono un lento declino organico e cognitivo. Nonostante questo, l’accesso alle Cure Palliative è ancora limitato nella MRC rispetto a quanto avviene per altre patologie end-stage. Da qui l’esigenza di approfondire il tema della PCC con i pazienti nefropatici avanzati.

Questo studio pilota, svolto su 3 pazienti del Centro Dialisi dell’ASST di Crema per valutare l’applicabilità della legge 219/2017 nei Centri Dialisi, evidenzia la necessità di approfondire il tema sia in termini di conoscenza da parte del personale sanitario sia in termini di accoglimento della proposta da parte dei pazienti e dei familiari. Per questo sono necessari studi più estesi con follow-up prolungato, nonché l’adeguata formazione del personale sanitario e l’informazione ed educazione della popolazione su che cos’è la PCC e sul perché è così importante per ciascuno di noi.

Parole chiave: pianificazione condivisa delle cure, malattia renale cronica terminale, dialisi

Introduzione

Che cos’è la pianificazione condivisa delle cure (PCC)?

Per “pianificazione condivisa delle cure” si intende un processo che si svolge all’interno di una relazione di fiducia tra il paziente e il personale sanitario, in cui si illustrano al paziente e alle persone a lui vicine la situazione attuale di malattia, le possibilità di cura e la prognosi e si riflette in anticipo in merito alle decisioni relative al fine vita tenendo inevitabilmente conto, oltre che degli aspetti clinici, di quelli psicologici e della dimensione culturale, sociale, spirituale ed etica del paziente [1].

Nel corso di questo processo il paziente si prepara alla propria eventuale, futura, incapacità di autodeterminarsi (e quindi di acconsentire o meno alle cure proposte), può identificare un fiduciario ed esplicita ai curanti le proprie indicazioni per le fasi di incapacità e/o per il fine vita in linea con i propri valori ed i propri obbiettivi [2].

In sintesi, la PCC permette al paziente di esprimere che cosa significhi per lui vivere e morire bene [2, 3]. 

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Coinvolgimento renale nel LES

Abstract

La nefrite lupica (NL) è una manifestazione frequente e severa di lupus eritematoso sistemico (LES). Clinicamente la NL può presentarsi con quadri clinici estremamente variabili, da anomalie urinarie isolate a quadri di glomerulonefrite rapidamente progressiva. La biopsia renale rimane il gold standard per la diagnosi di NL, in quanto non sempre la presentazione clinico-laboratoristica correla con il dato istologico. Il trattamento della NL prevede terapie di supporto e terapie immunosoppressive mirate con una fase di induzione, oggi chiamata terapia iniziale, e una fase di mantenimento, oggi chiamata terapia successiva. Accanto ai farmaci più utilizzati quali steroidi, micofenolato mofetile e ciclofosfamide, negli ultimi decenni sono stati introdotti nuovi farmaci quali gli inibitori delle calcineurine (voclosporina) e gli anticorpi monoclonali come belimumab, e rituximab. Sebbene il rischio di progressione a malattia renale terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e la sopravvivenza di questi pazienti siano significativamente migliorati dagli anni ‘70 ad oggi, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo. Diagnosi precoce, protocolli terapeutici più mirati, migliore prevenzione e gestione delle complicanze sono tra i fattori più importanti per la prognosi di questi pazienti.

Parole chiave: nefrite lupica, immunosoppressione, malattia renale cronica terminale, remissione

Introduzione

Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia cronica autoimmune sistemica, che colpisce maggiormente giovani donne, in età fertile, con un rapporto donne/uomini compreso tra 8:1 e 15:1, che scende a 4:3 in età pre-pubere e nei bambini [1, 2]. Il coinvolgimento renale in corso di LES è molto frequente ed è riscontrato in circa il 40% dei pazienti. Sebbene la prognosi dei pazienti affetti da nefrite lupica (NL) sia migliorata negli ultimi decenni grazie a diagnosi precoci, all’uso di protocolli terapeutici mirati e a migliori terapie di supporto, la sopravvivenza di questi pazienti continua ad essere inferiore a quella dei pazienti affetti da LES senza interessamento renale [3]. Insieme a infezioni, neoplasie ed eventi cardiovascolari improvvisi, la NL rappresenta ancora oggi una delle più comuni cause di morte [4-8].

Hanly et al descrivono una coorte internazionale incidente di 1826 pazienti affetti da LES. La NL, diagnosticata in 700 pazienti (il 38,3%), è più frequente in pazienti giovani, di sesso maschile e di razza non caucasica; purtroppo però in questo studio solo il 56,4% dei pazienti sono stati sottoposti a biopsia renale. Negli afroamericani la NL, oltre ad essere più frequente, si presenta più precocemente, con quadri più aggressivi e con una maggior incidenza di malattia proliferativa diffusa alla biopsia renale rispetto alle altre etnie [9, 10].

 

Manifestazioni cliniche 

L’esordio clinico renale è molto spesso subdolo e asintomatico e la diagnosi di NL si basa su un complesso inquadramento clinico-patologico. Da ciò si evince l’importanza di uno stretto follow-up della funzione renale e dell’esame urine con rapida esecuzione di biopsia renale se presenti segni clinico-laboratoristici sospetti. La maggior parte dei pazienti sviluppa interessamento renale nei primi 5 anni dalla diagnosi di LES anche se può manifestarsi come prima manifestazione di malattia [10]. L’interessamento renale in corso di LES è stato definito dai criteri dell’American College of Rheumathology (ACR) del 1982 dalla presenza di proteinuria maggiore di 500 mg/die o 3+ al dipstick urine e/o di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario [11]. I criteri del 2012 del Systemic Lupus International Collaborating Clinics (SLICC) hanno confermato come criterio clinico di interessamento renale la proteinuria delle 24 ore > 500 mg/die (o rapporto proteinuria/creatininuria P/C > 500 mg/g su campione estemporaneo) e/o la presenza di cilindri ematici al sedimento urinario. Inoltre, la presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale, secondo la classificazione dell’International Society of Nephrology/Renal Pathology Society (ISN/RPS) [12], in associazione a positività degli anticorpi anti-nucleo (ANA) o degli anti-double stranded (dsDNA), è sufficiente a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia [13]. Negli ultimi criteri classificativi del 2019 dell’ACR e dell’European Legue Against Rheumathism (EULAR) è stata introdotta la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES e sottolineata l’importanza della biopsia renale; la presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale, infatti, rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES (Tabella1) [14].

 

Criteri ACR del 1997*

Proteinuria persistente maggiore di 500 mg/24 ore o proteine > 3+ al dipstick urinario

e/o

Presenza di cilindri cellulari all’esame del sedimento urinario (ematici, granulari, tubulari o misti)

 

Criteri SLICC del 2012**

Proteinuria delle 24 ore > 500 mg/24 ore o rapporto P/C > 500 mg/g su campione urine estemporaneo

e/o

Presenza di cilindri ematici al sedimento urinario

e/o

Presenza di quadro istologico compatibile con LES alla biopsia renale (secondo la classificazione dell’ISN/RPS). Quest’ultima, in associazione a positività degli ANA o dei dsDNA, è sufficiente da sola a porre diagnosi di LES anche in assenza di ulteriori criteri di malattia

 

Criteri EULAR/ACR del 2019***

Proteinuria > 500 mg/24 ore o rapporto P/C equivalente su campione urine estemporaneo

e/o

Biopsia renale compatibile con nefrite lupica (secondo la classificazione dell’ISN/RPS).

La presenza di NL classe III e IV alla biopsia renale rappresenta l’unico criterio clinico/immunologico sufficiente da solo, insieme agli ANA positivi, a porre diagnosi di LES.

Tabella 1: Criteri classificativi di interessamento renale nel LES [11-14].
ACR: American College of Rheumatology; SLICC: Systemic Lupus International Collaborating Clinics; P/C: proteinuria/creatininuria; LES: lupus eritematoso sistemico; ISN/RPS: International Society of Nephrology/Renal Pathology Society; ANA: anticorpi anti-nucleo; dsDNA,:anti-double stranded; EULAR: European League Against Rheumatism.
*La classificazione ACR si basa su 11 criteri. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 degli 11 criteri classificativi.
**La classificazione SLICC si basa su 17 criteri, divisi in clinici (tra cui l’interessamento renale) e immunologici. La diagnosi di LES è possibile in presenza di almeno 4 criteri, di cui almeno 1 clinico e 1 immunologico o in presenza di biopsia renale compatibile con nefrite lupica in associazione a positività degli ANA o dei ds-DNA, anche in assenza di altri criteri.
***I criteri EULAR/ACR richiedono la positività degli ANA 1:80 quale criterio d’ingresso indispensabile per la diagnosi di LES. I criteri aggiuntivi sono 7 clinici (tra cui l’interessamento renale) e 3 immunologici, ognuno dei quali ha un punteggio da 2 a 10. La diagnosi di LES è possibile in presenza di ANA positivi e almeno 10 punti.

Le manifestazioni cliniche renali variano da anomalie urinarie isolate (proteinuria subnefrosica e/o microematuria glomerulare in assenza di alterazione della funzione renale) a quadri più severi quali sindrome nefrosica, sindrome nefritica o forme di glomerulonefrite rapidamente progressiva con insufficienza renale. In una recente casistica italiana di 499 pazienti affetti da NL, il 40,7% dei pazienti presenta anomalie urinarie isolate al momento della diagnosi, il 34,9% sindrome nefrosica, il 18,4% sindrome nefritica acuta e il 9% insufficienza renale rapidamente progressiva. Questi pazienti sono stati divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016. L’analisi dei tre gruppi ha mostrato significative differenze sia in termini epidemiologici che di presentazione clinico-laboratoristica. Dal 1970 al 2016 si è registrato, infatti, un progressivo aumento del numero di pazienti di sesso maschile (6,6% vs 12% vs 20%) e dell’età al momento della diagnosi (28,4 vs 28,9 vs 34,4). Dal punto di vista clinico, dalla primo al terzo periodo, è stata riscontrata una significativa riduzione di sindromi nefritiche e delle forme rapidamente progressive (da 29% a 12% e da 13,3% a 3,3% rispettivamente) a fronte di un incremento delle anomalie urinarie isolate (da 27% a 49%). Questi ultimi dati sono verosimilmente legati a una diagnosi precoce di NL (Figura 1) [15].

Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata
Figura 1: Presentazione clinica di 499 pazienti con nefrite lupica diagnosticata con biopsia renale e seguiti dal 1970 al 2016, divisi in 3 gruppi in base all’anno in cui sono stati sottoposti a biopsia renale, con 106 pazienti nel gruppo dal 1970 al 1985, 158 pazienti dal 1986 al 2000 e 235 pazienti dal 2001 al 2016.

 

Classificazione istologica e correlazione clinico-patologica

La biopsia renale percutanea è elemento fondamentale per la diagnosi e la classificazione della NL. Già nel 1999 venne dimostrata l’importanza della biopsia renale, in quanto le manifestazioni cliniche non sempre correlano con il dato istologico e anomalie urinarie isolate possono associarsi a quadri proliferativi alla biopsia renale [16-18]. L’analisi istologica ci permette di differenziare la NL in classi istopatologiche, di classificare la gravità del coinvolgimento renale in termini di attività e cronicità del danno parenchimale e di escludere altre patologie renali quali la microangiopatia trombotica, altri tipi di glomerulonefrite (IgA nephropathy ad esempio), podocitopatie non da immunocomplessi e quadri di nefrite tubulointerstiziale o di necrosi tubulare acuta [19-21].

La biopsia renale è indicata in tutti i pazienti con proteinuria > 500 mg/24 ore o con P/C > 500 mg/g (50 mg/mmol), microematuria glomerulare con o senza cast eritrocitari o in presenza di alterazione della funzione renale non attribuibile ad altra causa specifica. Anche in presenza di leucocituria o piuria persistente, dopo un completo screening diagnostico, può essere utile l’esecuzione di biopsia renale [22-24]. La NL è divisa in sei classi istologiche in base alla presenza di specifiche lesioni microscopiche e alla distribuzione degli immunocomplessi (IC), secondo la classificazione istologica ISN/RPS del 2003 poi revisionata nel 2018. Al momento non esistono marcatori sierici o urinari in grado di predire la classe istologica [12, 25].

La classe I o minima mesangiale è rara, ha una prevalenza dell’1% e del 2,3% negli adulti e nei bambini rispettivamente in quanto questi pazienti tipicamente presentano minima proteinuria e funzione renale nella norma. All’immunofluorescenza (IF) e alla microscopia elettronica (ME) si evidenziano immunodepositi mesangiali di C3 e di immunoglobuline (soprattutto IgG e IgM) in assenza di anomalie alla microscopia ottica (MO) [26]. La classe II o proliferativa mesangiale rappresenta il 7-22% di tutti i casi e si presenta clinicamente con microematuria glomerulare, proteinuria subnefrosica e funzione renale nella norma. Questa è caratterizzata da ipercellularità mesangiale ed espansione della matrice mesangiale alla MO, con immunodepositi mesangiali e pochi depositi subepiteliali e subendoteliali visibili unicamente all’IF o alla ME. La prognosi di questa classe istologica è buona e non richiede terapia specifica anche se il rischio di progressione a proliferativa diffusa può raggiungere il 47% [27]. Nella classe III o proliferativa focale < 50% dei glomeruli presenta alla MO ipercellularità endocapillare o extracapillare, segmentale o globale, ma depositi mesangiali e subendoteliali diffusi alla ME, positivi per IgG e C3 all’IF. La classe IV o proliferativa diffusa è la classe istologica più frequente (rappresenta 50% di tutte le biopsie). Istologicamente più del 50% dei glomeruli è coinvolto e presenta ipercellularità, lesioni necrotizzanti e anche in alcuni casi proliferazione extracapillare con formazione di semilune. All’IF ci sono depositi di immunoglobuline (specialmente di IgG) e complemento (soprattutto C3). La ME mostra depositi subendoteliali con o senza alterazioni mesangiali. Le classi proliferative si presentano tipicamente con microematuria glomerulare e proteinuria, anche se alcuni pazienti possono presentare sindrome nefrosica, sindrome nefritica, ipertensione arteriosa o riduzione del filtrato glomerulare con rapida progressione verso l’insufficienza renale. I pazienti hanno livelli di complementemia ridotti (specialmente C3) ed elevati livelli di ds-DNA soprattutto in corso di malattia attiva [28]. Le classi III e IV sono associate a prognosi peggiore, con maggior rischio di progressione a malattia renale cronica terminale (End-Stage Kidney Disease, ESKD) e necessitano di trattamento immunosoppressivo [29]. La classe V o nefropatia membranosa lupica rappresenta il 10-20% dei pazienti con interessamento renale [30, 31]. I pazienti presentano tipicamente sindrome nefrosica con quadro molto simile ai pazienti con nefropatia membranosa idiopatica. Dal punto di vista istologico è caratterizzata da ispessimento delle membrane basali glomerulari alla MO, immunodepositi subepiteliali con coinvolgimento segmentale o globale all’IF e alla ME. Può essere riscontrata in combinazione con le classi III o IV e in tal caso la diagnosi è mista; negli anni si è visto un aumento delle forme miste (III/IV+ V) (Tabella 2).

Classe I Glomeruli normali alla Microscopia ottica e depositi mesangiali alla Immunofluorescenza e Microscopia elettronica
Classe II Aumento della cellularità mesangiale e depositi mesangiali
Classe III Proliferazione focale e segmentaria o globale estesa a meno del 50% dei glomeruli in fase attiva (A) o cronica (C) (A, AC, C)
Classe IV Come la classe terza, ma coinvolge più del 50% dei glomeruli
Classe V Glomerulonefrite membranosa con depositi subepiteliali a distribuzione globale o segmentaria
Classe VI Lesioni sclerotiche estese a più del 90% dei glomeruli
Tabella 2: Classificazione istologica ISN/RPS nefrite lupica [25].

La classe V non presenta tipicamente manifestazioni cliniche o sierologiche tipiche del LES, con livelli di complementemia nella norma e autoimmunità negativa. La velocità di progressione a ESKD è lenta ma può associarsi a importanti complicanze correlate alla sindrome nefrosica quali eventi trombotici e infezioni [32]. La classe VI o di sclerosi avanzata è caratterizzata da glomerulosclerosi in più del 90% dei glomeruli, rappresenta lo stadio terminale dei processi infiammatori a carico dei glomeruli ed è associata a sedimento urinario inattivo, proteinuria di vario grado e progressione verso l’insufficienza renale [33].

La revisione della classificazione del 2018 ha introdotto un indice di attività e cronicità di malattia in sostituzione delle precedenti lesioni attive e croniche delle classi proliferative e ha eliminato la precedente distinzione tra segmentale (S) e globale (G) delle classi III e IV [25]. È stato sostituito il termine ‘proliferativo’ con ‘ipercellularità’ e sono state introdotte definizioni di caratteristiche istologiche tipiche, quali la definizione di podocitopatia, intesa come presenza di fusione pedicellare alla ME anche in pazienti con lesioni minime alla MO, con o senza IC; quest’ultima si presenta con sindrome nefrosica ed è più facilmente associata a progressione a ESKD [34].

Nella casistica italiana di 499 pazienti sopracitata, il 53,7 % dei pazienti presentava una glomerulonefrite proliferativa diffusa (classe IV) alla biopsia renale, il 22,8% una glomerulonefrite proliferativa focale (classe III), il 17,2% una nefropatia membranosa lupica (classe V) e il 4,4% una proliferativa mesangiale (classe II) (Figura 2). L’analisi istologica nei gruppi non ha mostrato differenze in termini di classi istologiche e di attività di malattia nei tre periodi, ma si è riscontrata una significativa progressiva riduzione dell’indice di cronicità nei pazienti sottoposti a biopsia dal primo al terzo. Quest’ultimo dato, unito al fatto che i pazienti biopsiati dal 2001 al 2016 presentavano più frequentemente anomalie urinarie isolate al momento della biopsia, conferma l’importanza della diagnosi precoce in termini prognostici [15].

Una seconda biopsia renale è indicata in caso di peggioramento della funzione renale, importante aumento della proteinuria o comparsa di sedimento urinario attivo oltre che in caso di non risposta al trattamento [35]. In un recente studio l’indicazione alla rivalutazione istologica potrebbe essere utile per guidare la sospensione della terapia immunosoppressiva [36].

Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica
Figura 2: Classe istologica alla biopsia renale dei 499 pazienti con nefrite lupica, diagnosticati tra il 1970 e il 2016.

 

Trattamento

L’approccio terapeutico nella NL è guidato dai dati clinico-istologici, in particolare non solo dalla classe istologica ma anche dal grado di attività o cronicità di malattia (activity index) e dalla presenza di lesioni alla biopsia renale, quali l’interessamento tubulo-interstiziale o microangiopatia trombotica.

In accordo con le ultime raccomandazioni EULAR, l’obiettivo della terapia della NL è preservare la funzione renale, ridurre le recidive, controllare le comorbidità e migliorare così la mortalità dei pazienti. Inoltre, è fondamentale prevenire le tossicità iatrogene, in particolare preservare la fertilità [18, 24]. In tutti i pazienti affetti da NL è raccomandata un’adeguata terapia di supporto volta a ridurre il rischio cardiovascolare (controllo delle dislipidemie, sospensione del fumo, controllo del peso corporeo), migliorare i valori di proteinuria (controllo della pressione arteriosa, inibizione del sistema renina angiotensina aldosterone (RAAS)), ridurre il rischio infettivo (di vaccinazioni, profilassi farmacologica per infezioni opportunistiche) e prevenire i danni farmacologici legati a trattamenti prolungati (controllo osteoporosi, screening oncologici e percorsi per preservare la fertilità) [37]. Nelle classi proliferative (III e IV) e nella classe V, accanto alla terapia di supporto, è necessario un trattamento immunosoppressivo. Da decenni l’utilizzo di protocolli terapeutici sempre più mirati, ha migliorato la prognosi di questi pazienti.

Per le classi I e II le attuali raccomandazioni non includono terapia con immunosoppressori ma sola terapia di supporto. Nelle classi III e IV i protocolli terapeutici prevedono una fase di induzione e una fase di mantenimento, oggi definite terapia iniziale e terapia successiva rispettivamente. La terapia iniziale dura 3-6 mesi, ha l’obiettivo di ottenere la remissione della malattia infiammatoria renale acuta ed è basata sull’uso corticosteroidi in associazione a farmaci immunosoppressori. Al fine di ridurre la dose cumulativa dello steroide e degli effetti collaterali ad esso correlati, è raccomandata la somministrazione di steroidi ev ad alte dosi (boli di metilprednisolone con dose cumulativa compresa tra 500 e 2500 mg, suddivisi in 3 boli in 3 giorni consecutivi) seguita da terapia per os (prednisone 0,3-0,5 mg/kg/die), da ridurre a ≤ 7,5 mg/die in 3-6 mesi.  L’utilizzo di prednisone per os (prednisone 1 mg/kg/die) non preceduto dai boli, è indicato in pazienti con bassa severità di malattia. I farmaci immunosoppressori raccomandati come prima linea nella terapia iniziale rimangono la ciclofosfamide (CYC) ev a bassa dose (500 mg ogni 2 settimane per un totale di 6 dosi) o il micofenolato mofetile (MMF) (dose target 2-3 g/die o acido micofenolico allo stesso dosaggio per 6 mesi) [38].

Già dagli anni ‘80 Austin et al (del National Institute of Health, NIH) hanno dimostrato che l’introduzione della CYC ev ad alta dose in aggiunta alla terapia steroidea è associata a un miglior outcome renale rispetto alla sola terapia steroidea. Successivamente Houssiau et al, al fine di ridurre il dosaggio cumulativo della CYC e la tossicità ad essa legata, hanno confrontato un gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose (schema Euro-Lupus Nephritis Trial, ELNT, 6 boli da 500 mg ogni 14 giorni) con i pazienti trattati con CYC ev ad alta dose (schema del NIH 8 boli 0,75g/m2 ogni mese) e evidenziando una minor incidenza di eventi avversi, in particolare di infezioni severe, nel gruppo di pazienti trattati con CYC a bassa dose [39-41]. Questo studio mostra anche che non ci sono differenze significative in termini di risposta al trattamento nei due schemi, seppur i pazienti dell’NIH presentassero un quadro clinico più severo rispetto ai pazienti dell’ELNT. Pertanto, alte dosi di CYC (0,5-0,7 g/m2 mensilmente per 6 mesi) sono consigliate solo nelle forme più gravi che si presentano con insufficienza renale, necrosi fibrinoide o semilune alla biopsia e quindi con elevato rischio di progressione a ESKD. La CYC può essere somministrata anche per via orale al dosaggio di 1-1,5 mg/kg/die con dose massima di 150 g/die per 2-4 mesi [42]. L’alternativa alla CYC è il MMF, che nelle ultime decadi risulta il farmaco più utilizzato. Lo studio multicentrico Aspreva Lupus Management Study (ALMS) ha dimostrato, infatti, una non inferiorità del MMF se utilizzato al dosaggio di 3 g/die, con pari effetti collaterali ma minor tossicità gonadica rispetto alla CYC; inoltre, il MMF si associa a miglior risposta terapeutica nei pazienti di razza africana e ispanica, sottolineando l’importanza dell’etnia in termini di risposta al trattamento [43]. Le attuali raccomandazioni suggeriscono in caso di non risposta al MMF di avviare trattamento con CYC e viceversa. Nei pazienti non-responder o refrattari alla terapia, il rituximab (RTX), anticorpo monoclonale anti-CD20, rappresenta un’alternativa per la terapia iniziale, pur essendo ancora off-label. Sebbene lo studio LUNAR (Lupus Nephritis Assessment With Rituximab Study), trial clinico randomizzato prospettico, non abbia dimostrato un miglioramento dell’outcome nei pazienti trattati con RTX in associazione a terapia di induzione standard (MMF o CYC) rispetto al placebo, altri studi retrospettivi/osservazionali hanno mostrato come la terapia con RTX si associa a significativa riduzione dell’attività di malattia e della proteinuria; inoltre, è stato dimostrato che possa essere utilizzato come steroid-sparing. Il dosaggio consigliato è di 1000 mg nei giorni 0 e 14 [44-49].

Gli inibitori delle calcineurine (CNI), soprattutto il tacrolimus (TAC), in associazione al MMF (1-2 g/die) costituiscono un’altra alternativa per la terapia iniziale e sono raccomandati principalmente nei pazienti con proteinuria in range nefrosico. Sono controindicati in presenza di malattia renale cronica, di alto indice di cronicità alla biopsia renale e di scarso controllo pressorio. In diversi studi i CNI determinano una remissione completa simile alla CYC ev e al MMF; inoltre, in uno studio randomizzato cinese di 362 pazienti, la combinazione di CNI e MMF, definita terapia multi-tagret, si è dimostrata superiore rispetto alla CYC nel breve termine. Non essendo ancora studiata nelle diverse etnie, la terapia multi-target non risulta ancora tra i farmaci raccomandati come prima linea [50, 51].

Nel gennaio ‘21 la US Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’utilizzo di voclosporina in aggiunta a steroidi e MMF per il trattamento dei pazienti con NL attiva. La voclosporina è un CNI di nuova generazione con una differenza aminoacidica rispetto alla ciclosporina A (CyA) che la rende 4 volte più efficace; presenta un’eliminazione più rapida dei metaboliti e conseguente minor esposizione agli effetti collaterali soprattutto in termini di tossicità renale e miglior controllo lipidico e glucidico rispetto a CyA e TAC rispettivamente [52]. Nello studio randomizzato di fase II AURA-LV su 265 pazienti l’utilizzo di voclosporina, in aggiunta a MMF e steroide, confrontato al placebo dimostrava maggior efficacia in termini di risposta completa a 6 mesi anche se associato a maggior incidenza di eventi avversi [53]. Nello studio successivo, uno studio randomizzato di fase IIII, controllato in doppio-cieco, sono stati studiati 357 pazienti affetti da NL attiva, di diverse etnie, sottoposti a terapia orale con voclosporina o placebo in associazione a MMF e steroide per os a basso dosaggio e con rapido decalage. I pazienti trattati con voclosporina hanno raggiunto la remissione completa in numero più significativo senza differenze di riduzione della funzione renale, aumento della pressione arteriosa o scarso controllo glicemico e lipidico [54]. Questo studio dimostra come voclosporina a basse dosi in associazione alla terapia immunosoppressiva standard può migliorare la prognosi dei pazienti con NL; i limiti di questo studio sono l’esclusione di pazienti con GFR < 45 ml/min e un breve follow-up per la valutazione della nefrotossicità [55]. Anche l’ocrelizumab, anticorpo umanizzato anti CD20, è stato studiato nella NL nello studio BELONG. Lo studio è stato però interrotto per comparsa di un numero significativo di infezioni severe nel gruppo trattato con l’anticorpo monoclonale rispetto al placebo anche se si associava a miglioramento dei livelli di complemento e di ds-DNA [56].

Tra le alternative terapeutiche recentemente approvate nel LES c’è il belimumab, un anticorpo monoclonale umano che si lega al ‘B-cell activating factor’, BAFF, citochina coinvolta nella maturazione dei linfociti B. Questo farmaco è stato registrato per il trattamento del LES in associazione alla terapia standard grazie a una serie di studi controllati.  Nel BLISS-LN 448 pazienti con NL attiva sono stati trattati con belimumab (10 mg/kg) o placebo come terapia di induzione in associazione a MMF o CyC ev a bassa dose. Lo studio ha mostrato una risposta renale significativamente superiore nei pazienti trattati con belimumab rispetto al placebo; nei sottogruppi la significatività veniva raggiunta solo nei pazienti trattati con MMF, ma si manteneva nelle diverse etnie coinvolte. Il belimumab è il primo farmaco biologico che ha ottenuto risultati in termini di outcome primari e secondari. Esso può essere considerato in aggiunta alla terapia standard come steroid-sparing per ridurre le riacutizzazioni e come miglior controllo delle manifestazioni extrarenali [57-59].

Dopo un’adeguata terapia iniziale, è raccomandata la terapia di mantenimento o terapia successiva, che ha l’obiettivo di ridurre le recidive e consolidare la risposta terapeutica evitando le tossicità farmacologiche. Essa si basa sull’uso di steroidi per via orale a basso dosaggio (< 5-7,5 mg/die) in associazione a MMF come prima scelta (1-2 g/die o acido micofenolico 720-1440 mg/die) o AZA (1,5-2 mg/kg/die con dose massima di 150-200 mg/die) per 3-5 anni dopo la remissione completa. Nello studio MANTAIN non ci sono state differenze tra Aza e MMF in pazienti caucasici affetti da NL; nello studio ALMS condotto su diverse etnie il MMF si è dimostrato superiore rispetto ad AZA in termini di mortalità, progressione a ESKD, flares e necessità di terapia rescue. In alternativa a MMF e AZA, anche nella terapia di mantenimento sono indicati i CNI, in particolare nei pazienti con persistenza di elevati valori di proteinuria (TAC 4-6 ng/ml o CyA 60-100 nl/ml). Uno studio italiano randomizzato ha mostrato uguale efficacia di AZA e CyA come terapia di mantenimento nel prevenire le recidive in 75 pazienti con NL proliferativa trattati con boli di steroide e CYC per os come terapia di induzione e poi randomizzati a CyA o AZA per due anni; lo studio non ha mostrato differenze significative di funzione renale e controllo pressorio nei due gruppi. L’uso di CYC ev non è consigliato nel mantenimento in quanto meno efficace e più tossica [43, 60-66].

La durata ottimale della terapia immunosoppressiva non è ancora chiara; le linee guida suggeriscono una durata di almeno 36 mesi di trattamento nei pazienti affetti da NL e almeno 1 anno di remissione completa renale in assenza di manifestazioni extrarenali per poter sospendere la terapia immunosoppressiva [24, 37]. Una terapia di mantenimento più prolungata è consigliata in pazienti di sesso maschile, di etnia africana e ispanica, con glomerulonefrite con semilune o microangiopatia trombotica alla biopsia renale e in pazienti con ds-DNA ad alto titolo. La sospensione della terapia immunosoppressiva deve essere graduale e prevede l’eliminazione in primis della terapia steroidea, quindi dell’immunosoppressore; essendo una malattia sistemica, la terapia va stabilita anche in base alle manifestazioni extrarenali [24].

In tutti i pazienti in classe V è consigliata un’adeguata terapia di supporto al fine di evitare possibili complicanze quali trombosi e dislipidemia. Solo nei pazienti con proteinuria > 1 g nonostante la terapia con inibitori del RAAS o con sindrome nefrosica è raccomandata la terapia immunosoppressiva. Le linee guida indicano come prima linea il MMF (3 g/die o acido micofenolico equivalente per 6 mesi) in associazione a steroide ev seguito da terapia steroidea per os (0,5 mg/kg/die); CYC ev e CNI (soprattutto TAC) sono indicati come alternative. I CNI possono essere somministrati in monoterapia o in associazione al MMF soprattutto nei pazienti con sindrome nefrosica. Il RTX può essere considerato nei pazienti non responder [24, 37, 67-69]. Se in associazione a classe III o IV, la nefropatia membranosa lupica va trattata come le classi proliferative.

La classe VI non richiede alcun trattamento immunosoppressivo, ma l’avvio al follow-up della malattia renale cronica.

L’idrossiclorochina (HCQ), antimalarico, è indicata in tutti i pazienti affetti da LES, se non controindicato, al dosaggio di ≤ 5 mg/kg aggiustato nei pazienti con GFR< 30 ml/min; a essa, infatti, si associa minor rischio di sviluppare NL nei pazienti con LES e in associazione alle terapie immunosoppressive riduce le recidive, rallenta la progressione a ESKD, aumentando così la sopravvivenza di questi pazienti. Può essere utilizzata anche in gravidanza.

 

Risposta alla terapia e ‘flare’ di malattia

La risposta renale al trattamento viene valutata in termini di remissione completa (RC), intesa come riduzione della proteinuria a 0,5-0,7 g/die entro 12 mesi dall’inizio del trattamento e remissione parziale (RP) con proteinuria ridotta di almeno il 50% entro 6 mesi, entrambe in presenza di stabilità della funzione renale. Nei pazienti con proteinuria in range nefrosico il tempo per valutare la risposta arriva sino a 12 mesi.  La proteinuria a un anno dall’inizio del trattamento rappresenta, infatti, il miglior predittore di outcome renale a lungo termine [17, 40, 62, 70-71].

Le recidive sono molto frequenti nei pazienti affetti da NL e si associano a peggior outcome renale. Per ‘flare’ o recidiva di malattia si intende un incremento di attività di malattia che richiede una modifica terapeutica. I flares sono classificati in proteinurici e nefritici e severi e non severi. I principali fattori di rischio correlati alla comparsa di recidive sono giovane età < 30 anni alla diagnosi, sesso maschile, etnia afro-americana, ritardo diagnostico-terapeutico, bassi livelli di C4, risposta parziale, rialzo dei ds-DNA, ipertensione arteriosa, bassa dose di immunosoppressione e manifestazioni extrarenali di LES severe quali coinvolgimento del sistema nervoso centrale [72-74].

 

Outcome e conclusioni

Negli ultimi 50 anni la prognosi dei pazienti affetti da NL è significativamente migliorata, con un aumento del tempo di progressione a insufficienza renale e una riduzione della mortalità. In una metanalisi sul rischio di ESKD in pazienti di diverse etnie affetti da NL dal 1970 al 2015, Teckidou et al descrivono un significativo miglioramento dagli anni ‘70 agli anni ‘90, legato all’introduzione della ciclofosfamide, con una successiva stabilizzazione della progressione a ESKD e della sopravvivenza negli ultimi decenni [17].  Nella coorte italiana di 499 pazienti sopradescritta, principalmente costituita da pazienti caucasici, lo sviluppo di malattia renale cronica e ESKD si è significativamente ridotto negli anni (dal 7,9% e 24,8% dei pazienti del periodo 1970-1985 contro il 4,5% e l’1,3% del periodo 2001-2016 rispettivamente), con un ESKD-free survival a 10 e 20 anni del 87% e 80% nel primo gruppo, del 94% e 90% nel secondo gruppo e del 99% nel terzo gruppo. Allo stesso modo nei pazienti diagnosticati e trattati negli ultimi anni è stato registrato un incremento significativo della remissione completa (ottenuta nel 58% dei pazienti con diagnosi dal 2001 al 2016 contro il 49,6% nel primo periodo). Anche la riduzione della mortalità nell’ultimo lasso di tempo rispetto agli altri è statisticamente significativa [15]. I fattori demografici che influenzano negativamente l’outcome renale sono il sesso maschile e l’etnia, con un miglior outcome nei caucasici rispetto agli africani e agli asiatici; i fattori clinici includono la presenza di proteinuria nefrosica, di anemia, di insufficienza renale e giovane età al momento della biopsia renale e di ipertensione arteriosa non controllata e aumentato rischio cardiovascolare durante il follow-up; infine, dal punto di vista istologico le classi istologiche proliferative III e IV sono quelle caratterizzate da decorso clinico più aggressivo e peggior prognosi.

In conclusione, pur essendo migliorata la prognosi di questi pazienti, la NL rimane un importante fattore prognostico negativo nei pazienti affetti da LES e diagnosi precoci, terapia immunosoppressive mirate, adeguate terapie di supporto con prevenzione e miglior gestione delle complicanze sono fondamentali nel determinare la prognosi di questi pazienti.

 

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Hemodialysis shake-up on the front lines of the Covid-19 pandemic: the Treviglio Hospital experience

Abstract

The new coronavirus disease (Covid-19) pandemic in Italy formally started on 21st February 2020, when a 38-years old man was established as the first Italian citizen with Covid-19 in Codogno, Lombardy region. In a few days, the deadly coronavirus swept beyond expectations across the city of Bergamo and its province, claiming thousands of lives and putting the hospital in Treviglio under considerable strain.

Since designated Covid-dialysis hospitals to centrally manage infected hemodialysis patients were not set up in the epidemic areas, we arranged to treat all our patients. We describe the multiple strategies we had to implement fast to prevent/control Covid-19 infection and spread resources in our Dialysis Unit during the first surge of the pandemic in one of the worst-hit areas in Italy. The recommendations provided by existing guidelines and colleagues with significant experience in dealing with Covid-19 were combined with the practical judgement of our dialysis clinicians, nurses and nurse’s aides.

KEYWORDS: COVID-19, hemodialysis, end-stage kidney disease, coronavirus, pandemic.

Introduction

Since December 2019, an outbreak of new coronavirus disease (Covid-19), caused by severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2), has developed into a global pandemic [1]. Its outburst in Italy officially dates back to February 21st, 2020. In a few days, the number of detected cases increased beyond expectations [2]. The deadly coronavirus swept across the city of Bergamo and its province, claiming thousands of lives and putting the hospital in Treviglio under considerable strain; all departments had to be readapted and most beds were rapidly occupied by infected patients.

Droplet spread and close contact are the main routes of Covid-19 transmission [3]. Hemodialysis centers have an exceptionally high risk of infection exposure due to patients’ recurring attendance at the facilities, physical proximity and several times a week mobility; their co-morbidities and suppressed immunity enhance the risk of infection further, endangering the staff unit in close contact [4]. Since designated Covid-dialysis hospitals to centrally manage infected hemodialysis patients were not set up in our area, we had to implement local strategies to prevent/control the infection and spread resources during the emergency from February to May 2020, in one of the worst-hit areas in Italy. We took into account the Institute of Medicine definition of ‘crisis surge’ that states “Adaptive spaces, staff, and supplies are not consistent with usual standards of care, but provide sufficiency of care in the setting of a catastrophic disaster (i.e., provide the best possible care to patients given the circumstances and resources available). Crisis capacity activation constitutes a significant adjustment to standards of care.” [5]. The recommendations provided by guidelines and colleagues with significant experience in dealing with Covid-19 [6-9] were combined with our staff’s practical judgement (Table I).

Area management

Avoid crossing areas

Create staff filter zones

Create a check-in area to welcome and screen patients

Create different paths for patients

Dialyze patients in separate hemodialysis rooms or group them in a proper area

Apply environmental cleaning and disinfection of the areas

Management of healthcare team members

Educate staff

Avoid cluster activities

Screen and protect staff

Cohort manpower

Use PPE judiciously

Implement contingency plans

Work with local Covid-19 Response Team to apply best practice changes

Management of hemodialysis patients

Screen patients

Educate patients

Create an environment where patients feel safe

Table I: Our guiding principles for the Covid-19 outburst

Area management

The usual entry to the dialysis center gave access to a large waiting room, where patients used to meet before entering the aisle and reach their changing rooms. Hence this zone was closed to avoid movement across different areas and a new outside entrance was established directly from the outdoor parking. Team members wore personal protective equipment (PPE) in a tiny passage which became the filter zone to enter the hemodialysis area. Stable patients waited outside the facility in their private vehicle/ambulance or standing in line keeping proper distances. Patients with symptoms or those who had had contact with Covid-19 infected people were asked to inform the staff by phone before arrival, so we could be prepared to anticipate their entrance. Accompanying people, including ambulance personnel and relatives, were not allowed to enter the center, being potential vectors of the disease. A check-in was set up at the entrance to welcome patients one-by-one, require them to use hand sanitizer, wear supplied surgical face mask and gloves, take the temperature with a temperature gun and ask about their epidemiologic contact history and state of health, with a focus on fever, cough, dyspnoea, rhinorrhoea, conjunctivitis, diarrhoea. According to their medical status, they were accompanied one-by-one to distinct changing and waiting rooms, equipped with given numbered lockers and well-spaced armchairs to avoid gatherings; patients with mild symptoms were screened one-by-one in a dedicated room, whereas those with dyspnoea and signs of organ dysfunction were referred to the emergency ward. Hospitalized hemodialysis patients were accompanied to the facility by dedicated paths according to their infection status. Separate hemodialysis rooms, with separate access serving as both entrance and exit, were used for suspected or confirmed Covid-19 patients; early in the pandemic, our dialysis operating room was turned into a two-bed Covid-19 room, but as the epidemic spread, infected patients were clustered in a designated seven-bed room. In our dialysis facility in Romano di Lombardia a separate room was not available, thus patients were grouped during the same shift at the end-of row stations, away from the main flow and spaced from the others in all directions. Assigned healthcare teams entered the isolation room/cohort area. Staff members took off PPE in a dedicated zone before getting out of the hemodialysis area. Environmental cleaning and disinfection of the areas were carried out at the end of each shift by personnel equipped with PPE. The medical waste from suspected or confirmed Covid-19 patients was considered as infectious material and disposed of accordingly. Uremic critical patients with Covid-19 were treated separately by dedicated portable reverse osmosis systems in the Covid-19 Sub-Intensive Care Unit.

During the pandemic, almost all operating rooms were converted into Intensive Care Units and creation/revision of arteriovenous fistulas became impracticable. We quickly replaced short term in use hemodialysis central venous catheters (CVC) with tunnelled ones. A designated room was identified at the Department of Interventional Cardiology for catheters placement in non-infected patients. Covid-19 infected patients who needed CVC placement were managed in dedicated areas. During the first surge of the pandemic, we observed only two arteriovenous fistula thrombosis; they occurred in two infected patients a few hours before their died.

Management of healthcare team members

Dialysis physicians, nurses and nurse’s aides received instructions in SARS-CoV-2 infection prevention and control. Nurses were trained to take nasopharynx swabs for Covid-19 polymerase chain reaction. Cluster activities (i.e., large shifts, group studies, patient discussion, coffee breaks) were cancelled; when gathering was essential, it was mandatory to wear protective equipment. Staff members were required to take body temperature at the beginning of their shift and inform the team leader. If the body temperature was ≥ 37.5°C, they were suspended from duty and examined by nasopharynx swabs and chest x-ray; they could return to work only after the evaluations proved negative. Hand hygiene was strictly implemented. Hemodialysis staff wore appropriate PPE putting on filtering face piece (FFP2) masks, goggles or shields, hats, gloves, long-sleeved waterproof isolation clothing, shoe covers during check-in, nasopharynx swab collection and hemodialysis sessions. Manpower was divided in separate teams for the management of suspected or confirmed COVID-19 and non-infected patients. We established policies to optimize PPE use, as these precious resources had to be deployed for many weeks: only the minimum required team entered the hemodialysis restricted area and all non-scheduled colleagues were excluded; patients were grouped according to their infective status in order to plan full shifts; reusable shields and goggles were cleaned and disinfected. Contingency plans were continuously implemented as Covid-19 infections curtailed the staff available to dialyse patients; the shortage of qualified personnel was due to illness. Physicians communicated daily with the local Covid-19 Response Team to apply best practice changes.

Healthcare workers experience severe emotional stress on the front lines of a pandemic, knowing that some of them might die. The Impact of Events Scale-Revised (IES-R) [10] and the Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) [11-13] were administered to assess their psychological impact and immediate stress. Of the 40 renal healthcare staff members who were on duty during the Covid-19 outbreak, 14 completed the survey. The total response rate was 35.0%. The response rates stratified by employment group were as follows: doctor, 57.1% (100% of total medical staff); nurse’s aide, 7.1% (50% of total nurse’s aide staff); nurse, 35.8% (17% of total nurse staff). The mean IES-R score was 30.50 ± 17.02; of all responders, 6 (42.8%) received a score of 33 or higher, indicating the presence of PTSD (post-traumatic stress disorder). In the HADS 7 staff members (50.0%) scored 8 or above on the anxiety item and 5 (35.7%) scored 8 or above on the depression item (Table II). Prompt psychological help was provided as needed.

#

Employment role

(1=nurse’s aide;

2= nurse; 3=doctor)

HADS D (cut-off >8)

HADS A (cut-off >8)

IES-R

(cut-off >=33)

IES-R Intrusion

Subscale

IES_R

Avoidance

Subscale

IES-R Hyperarousal

Subscale

1 1 14* 14* 44* 2.33 2.00 1.71
2 2 7 7 19 0.57 1.25 0.71
3 2 7 10* 27 1.14 1.13 1.43
4 2 5 7 18 0.71 0.88 0.86
5 2 10* 12* 36* 2.00 0.88 2.14
6 2 11* 13* 55* 2.43 2.63 2.43
7 3 7 5 10 0.71 0.50 0.14
8 3 11* 15* 53* 3.14 1.88 2.29
9 3 3 4 20 1.57 0.63 0.57
10 3 12* 16* 59* 3.57 2.04 2.57
11 3 7 6 15 0.57 0.88 0.57
12 3 1 4 10 0.57 0.75 0.00
13 3 8 11* 39* 2.00 1.50 1.86
14 3 5 9 22 1.43 0.50 1.14

Mean
7.71 9.50 30.50 1.62 1.24 1.31
(SD)
(3.60) (4.11) (17.02) (0.99) (0.66) (0.86)
Table II: IES-R and HADS measurements in renal healthcare staff members

Our infection rates were 12.5% for medical staff (1 out of 8), 20% for nurses (6 out of 30) and 50% for nurse’s aides (1 out of 2); most infections and subsequent absences from duty occurred in March 2020. Nobody needed hospitalization and everyone had a benign course.

Management of hemodialysis patients

We drew up a triaging plan to identify infected patients before they entered the treatment area. Subjects with signs and symptoms (fever, cough, dyspnoea, rhinorrhoea, conjunctivitis or diarrhoea) or those who had had contact with the new coronavirus infected people were asked to inform staff by phone to anticipate their arrival. Stable patients waited in the outdoor parking. They were welcomed and screened one-by-one by staff members at the new entry, as described in detail above. According to their medical status, patients were accompanied one by one to distinct changing and waiting rooms, equipped with given numbered lockers. We had two available changing rooms: one was dedicated to asymptomatic patients, the other to infected ones. The latter was also outfitted as waiting room for infected patients with suitably spaced armchairs. While time-consuming, the procedure allowed to avoid moving across areas and increased safety; Collective Patient Transport personnel was very cooperative in managing travel management despite some delay.

In absence of positive finding, the patient proceeded to normal dialysis treatment. If an abnormal body temperature (≥ 37.5°C) or any signs and symptoms or contact history were detected, the patient was screened for Covid-19 in a dedicated room and submitted to nasopharyngeal swab, thoracic X-ray, and biochemical determinations. If the first swab came back negative but thoracic X-ray and clinical criteria were highly suspected for Covid-19, patients were treated as if they were infected and re-examined for SARS-CoV-2 nucleic acid [14]; most of them turned out positive. Patients with dyspnoea and signs of organ dysfunction were referred to the emergency ward. If Covid-19 was excluded, the patient came back for routine dialysis. Patients with suspected or confirmed Covid-19 were clustered in designated hemodialysis rooms or grouped during the same shift at the end-of row stations.

During the dialysis session, nurses provided education on keeping social distances, coughing and sneezing etiquette, how to use face masks, how to dispose of contaminated items, and how and when to perform hand hygiene. Patient snack time during the session was cancelled.

Discontinuation of isolation was determined on a case-by-case basis, depending on the resolution of the symptoms, imaging improvement (thoracic x-ray and/or computed tomography) and the detection of two consecutive negative nasopharynx swabs.

The world pandemic created concern in many hemodialysis patients. Hence, IES-R [10] and HADS [11-13] were administered to assess their psychological impact and immediate stress. Of the 130 hemodialysis patients, 29 completed the survey. The total response rate was 22.3% (13 female and 16 male). The mean IES-R score was 26.93 ± 17.61; of all responders, 10 (34.4%) received a score of 33 or higher, indicating the presence of PTSD (post-traumatic stress disorder). In the HADS, 5 patients (17.2%) scored 8 or above on the anxiety item and 4 (13.7%) scored 8 or above on the depression item (Table III). Psychological help was provided as needed by phone or appropriate electronic means.

#

Age

(years)

Gender

(1=Male; 2=Female)

HADS Depression (cut-off >8) HADS Anxiety (cut-off >8) IES-R     (cut-off >=33)

IES-R

Intrusion

Subscale

IES_R Avoidance

Subscale

IES-R Hyperarousal

Subscale

1 75 2 3 4 15 0.75 0.57 0.67
2 67 1 0 1 25 0.75 1.88 0.67
3 56 1 1 2 23 0.88 1.25 1.00
4 76 2 12* 8 53* 2.38 2.13 2.83
5 79 2 16* 15* 58* 3.00 2.00 3.00
6 49 1 4 4 18 1.13 0.88 0.33
7 30 2 15* 14* 59* 2.50 2.38 3.33
8 57 1 2 4 20 0.75 0.88 1,17
9 67 1 6 5 34* 1.63 1.75 1.17
10 81 1 1 2 12 0.75 0,75 0.00
11 51 1 6 4 27 1.58 1.00 1.00
12 68 2 1 2 14 1.00 0.29 0.67
13 61 2 5 1 20 0.50 1.25 0.83
14 71 2 7 8 54* 0.63 0.50 0.17
15 74 1 2 5 20 3.00 1.88 2.33
16 49 2 3 3 36* 1.50 0.63 0.50
17 49 2 3 4 18 3.38 2.04 2.67
18 81 1 2 3 17 0.50 0.88 0.67
19 75 1 7 8 21 0.75 0.88 1.17
20 62 2 10* 12* 57* 2.75 2.50 2.00
21 54 1 7 8 55* 1.25 0.38 1.17
22 64 2 1 1 8 1.00 1.13 1.67
23 52 2 3 7 19 0.75 0.88 0.83
24 69 1 7 14* 37* 2.29 2.00 1.67
25 89 1 5 5 0 1.75 0.88 2.50
26 67 1 0 3 20 0.50 0.75 0.00
27 38 2 4 10* 34* 2.38 2.63 2.50
28 68 1 1 0 7 2.00 1.50 1.83
29 73 1 0 0 0 1.38 0.50 1.17

Mean 63.86
4.62 5.41 26.93 1.49 1.27 1.36
(SD) (13.59)
(4.26) (4.28) (17.61) (0.87) (0.69) (0.94)
Table III: IES-R and HADS measurements in hemodialysis patients

Covid-19 was diagnosed from 10th to 30th March 2020 in 23 people out of a population of 130 hemodialysis patients (infection rate 17.6%, mean age 68±14 years, dialysis vintage 52±47 months, 14 male and 9 female). Infected patients’ hospitalization rate was 61%. Seven patients died (mean age 71±10 years, 6 male and 1 female); at the initial presentation of the disease, their White Blood Cells Count (6.5±2.1 vs 4.9±1.6 103/mcL, p<0.05), Neutrophils (80.9±8.8 vs 69.9±13.7 %, p < 0.05) and C-reactive Protein level (153.9±57.9 vs 47.5±49.4 mg/L, p<0.05), tested by Student’s t-test for paired data, were significantly higher than in recovered Covid-19 patients. Detailed data are provided in Table IV.

#

Age

(years)

Gender

(1=Male; 2=Female)

Dialysis vintage (months) Presenting symptoms/signs

Pneumonia

(x-ray or CT scan)

Laboratory Findings Treatment Hospitalization

Outcome

(1=death; 2=recovery)

Fever Cough Dyspnea GI Myalgia

WBC

(103/mcL)

N

(%)

D-dimer (ng/ml)

CRP

(mg/L)

Antiviral HCQ LMWH
1 60 1 24 X
X X
X 5.7 87.7
118.6 X X
X 1
2 84 1 28 X X

X 7.6 70.0
128.1 X

X 1
3 84 1 26 X

X 9.1 76.4
207.8

X 1
4 60 2 65 X X

X 3.7 73.8 651 90.1 X X
X 1
5 84 2 26 X X

X 3.5 73.7 6122 90
X
X 2
6 60 1 2 X

3.6 50.6 578 28.4
X
X 2
7 69 1 57 X
X

X 6.4 82.3 2006 255.7 X X
X 1
8 73 2 37 X

X 2.3 58.4
27.6
X

2
9 65 1 55 X

4.9 72.2 306 10.5
X

2
10 65 1 210 X

X 4.3 80.0 859 124.5 X X
X 1
11 83 1 138 X
X

X 3.1 70.6 1720 14.2
X X
2
12 61 2 8 X

X 7.3 88.5 3835 40.4 X X
X 2
13 74 1 68 X

X 5.8 82.9 1838 77.8

X X 2
14 82 2 73 X

X
X 5.8 38.7 1012 6.4
X

2
15 78 1 8 X

X 9.2 96.1 20000 153 X X
X 1
16 37 2 45 X

X X 4.6 59.6 1356 2.9
X X
2
17 76 1 21 X

X 4.4 88.8 2016 87.7
X

2
18 47 2 58 X

5.7 69.2 1083 23.2
X X
2
19 66 1 106 X

X 3.0 67.7 4715 84.3
X X X 2
20 86 1 5 X
X

X 8.4 86.2 1620 194.2

X X 2
21 73 1 38 X

6.5 65.5 1027 21.5
X X
2
22 38 2 73 X

X 4.6 68.1 481 36.9
X X
2
23 67 2 26 X
X

X 5.3 78 1002 15

X X 2
Table IV: Clinical features of hemodialysis patients with Covid-19 infection in order of disease onset
Abbreviations: GI: gastrointestinal symptoms; WBC: white blood cells count; N: neutrophils; CRP: C-reactive Protein; Antiviral: lopinavir/ritonavir; HCQ: hydroxychloroquine; LMWH: low molecular weight heparin.

Home hemodialysis and peritoneal dialysis

Patients continued the treatment at home using electronic systems for clinical management. None of them (21 patients on peritoneal dialysis and 3 on home hemodialysis) developed symptomatic infection.

Conclusions

COVID-19 is a major global human threat that has turned into a pandemic. Being prepared for a surge of patients, suspected or confirmed, is crucial to minimize the risk for other patients and personnel taking care of them. We are currently facing a new, bigger wave; cases are surging mainly in other provinces and our hospital is supporting them.

The best reward. Courtesy of Simona Zerbi

Acknowledgments

The author thanks all the nurses and nurse’s aides of their Dialysis Centres of Treviglio Hospital and Romano di Lombardia Hospital for their suggestions and invaluable effort.

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