Supplemento S83 - In depth review

Metabolismo del ferro e terapia marziale nella insufficienza renale cronica

Abstract

Intervenire con una terapia marziale nel paziente nefropatico permette di ottimizzare il trattamento con eritropoietina umana ricombinante (EPO), individuando la dose minima efficace in grado di migliorare la qualità di vita del paziente. Gli studi più recenti sul metabolismo marziale e sull’interferenza della sindrome sideropenica sulla funzionalità di alcuni organi, in particolare il miocardio, suggeriscono la necessità di intervenire molto precocemente soprattutto nel paziente con cardiomiopatia e deficit sistolico.
Impostare una terapia marziale nel nefropatico richiede prima di tutto una diagnosi corretta, diagnosi che risulta particolarmente difficile nel paziente comorbido ed infiammato. Data la scarsa affidabilità diagnostica in questi pazienti dei principali biomarcatori (ferritina e saturazione della transferrina), diventa importante ampliare utilizzare marker non influenzati dallo stato infiammatorio, non costosi e facilmente accessibili: l’emoglobina reticolocitaria potrebbe rispondere a tali requisiti.
Lo studio Pivotal, randomizzato su più di 2000 pazienti emodializzati incidenti in terapia con EPO, ha evidenziato che la somministrazione mensile di 400 mg di ferro per via endovenosa   utilizzando come target superiore livelli di ferritina di 700 mg/l e saturazione della transferrina del 40%, permette di ridurre la dose di EPO e il rischio composito di morte per tutte le cause, per infarto miocardico e ictus non fatali e insufficienza cardiaca.
È ancora da determinare, però, sei i risultati del Pivotal siano riproducibili in pazienti più comorbidi, considerando, inoltre, i nuovi e diversi scenari terapeutici che l’impiego della prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia verranno a determinare.

Già dalla prima pubblicazione sul trattamento con eritropoietina umana ricombinante (EPO) nel paziente emodializzato, emergeva il concetto che fosse necessario somministrare una terapia con ferro per trattare efficacemente il paziente vista la graduale riduzione dei livelli di ferritina [1].

Negli anni successivi sia gli studi sulla normalizzazione dei valori di emoglobina e le loro post hoc analysis [2-6], sia gli studi sugli effetti non eritropoietici dell’EPO [7] hanno portato al concetto che il trattamento ottimale richiede di individuare la “dose minima efficace” in grado di migliorare la qualità di vita del paziente. Ottimizzare la risposta eritropoietica all’EPO richiedeva, in prima analisi, la correzione di eventuali fattori carenziali, primo fra tutti quello marziale [8].

Dal 2009, anno della pubblicazione del Treat [5], in letteratura, sono stati pubblicati molti studi o “review analysis” per definire la terapia marziale ottimale nel nefropatico [9-11]. Il nefrologo ha acquisito nel corso degli anni sempre più informazioni dalla letteratura ematologica, una letteratura che è andata arricchendosi da quando nel 2000 è stata isolata e caratterizzata la molecola dell’epcidina [12]. Grazie agli studi sulle malattie congenite del metabolismo marziale e alla loro riproduzione sull’animale tramite la manipolazione genetica, è stato possibile   determinare i meccanismi molecolari che sono alla base dei sintomi della sindrome sideropenica [13, 14].

Il ferro è elemento fondamentale in tutti gli organismi viventi come dimostra l’assenza in natura di pompe attive per la sua eliminazione. Il ferro in eccesso viene immagazzinato ma mai eliminato. Questa unicità del ferro deriva dalla sua capacità di passare facilmente attraverso diversi stati di ossidazione liberando e acquisendo elettroni, e fungendo, così, da cofattore ideale per l’attività enzimatica di almeno un centinaio di proteine oltre l’emoglobina. Il legame con le proteine, che permette la mobilizzazione del ferro nei liquidi biologici, ne determina la partecipazione in tutta una serie di attività biologiche quali la sintesi e regolazione degli acidi nucleici, alcune funzioni del sistema immunocompetente e alcune attività ormonali. Il ferro è inoltre parte attiva della glicolisi aerobica partecipando alla respirazione mitocondriale e alla produzione di ATP [15, 16]. Ciò spiega perché la carenza marziale interferisca con la performance muscolare, fra cui quella cardiaca. Le evidenze emerse degli effetti della sottrazione di ferro nelle colture di cardiomiociti sulla respirazione mitocondriale [17] hanno portato ai trial clinici sui benefici della correzione della carenza marziale, a prescindere dai valori di emoglobina, nel paziente con cardiomiopatia con riduzione della funzione contrattile [18, 19]. Questi sono studi che hanno visto coinvolti numerosi pazienti con insufficienza renale cronica, suggerendo l’indicazione ad iniziare un trattamento con ferro nei pazienti nefropatici e cardiopatici molto precocemente, prima dello sviluppo dell’anemia [20].

Il problema della diagnosi della carenza marziale nel paziente nefropatico ha, comunque, sempre rappresentato per il nefrologo una delle grandi sfide terapeutiche [21].

Da quando Escbach pubblicava nel 1987, i risultati sulla terapia con EPO [1], la diagnosi di carenza marziale è stata formulata utilizzando due biomarcatori: la saturazione della transferrina e la ferritina sierica [22]. Questi biomarcatori però, essendo profondamente influenzati dalla presenza di uno stato infiammatorio, non permettono di definire in maniera affidabile quale paziente presenti una carenza di ferro. Nei pazienti infiammati, infatti, si ha un aumento della sintesi epatica di epcidina la quale, interagendo con il suo recettore, la ferroportina, e poi degradandolo a livello basocellulare dell’enterocita e della cellula reticolo endoteliale blocca la biodisponibilità di ferro determinando la comparsa di una carenza funzionale di ferro [23]. L’aumento della ferritina nel paziente infiammato con malattia renale cronica può essere determinato sia da un incremento effettivo del ferro depositato a livello reticolo endoteliale, ma non sempre disponibile per l’eritropoiesi (blocco epcidinico), sia da un incremento “aspecifico” legato alla stimolazione della sintesi di ferritina da parte di citochine infiammatorie [24].

La saturazione della transferrina pur essendo stata associata, se ridotta, ad un peggioramento degli outcome, è influenzata anch’essa dalla presenza di uno stato infiammatorio e/o di uno stato di denutrizione [25, 26].

Tutte queste considerazioni portano alla necessità di individuare marcatori che siano meno influenzati dallo stato infiammatorio [27].

Nel corso degli anni, nel paziente nefropatico, sono stati studiati diversi indicatori di sideropenia sia da soli che in combinazione fra di loro. Sebbene alcuni studi abbiano mostrato risultati promettenti, molti di questi biomarcatori richiedono test di laboratorio complessi oltre che costosi [28, 29].

Un biomarcatore precoce e sensibile per la valutazione di una eritropoiesi ferropriva è il contenuto di emoglobina reticolocitaria. Studiato per lo più in campo ematologico, viene considerato un indicatore affidabile di sideropenia e poco influenzato dall’infiammazione [30]. La concentrazione di emoglobina reticolocitaria è stata valutata anche nel paziente con nefropatia cronica in una serie di piccole casistiche per valutarne specificità e sensibilità nel predire la risposta alla terapia marziale, sia come test singolo, sia se confrontato con i biomarcatori tradizionali [30-34]. Il fatto che i Coulter in grado di fornire questo parametro siano sempre più diffusi potrebbe permettere di eseguire studi prospettici su larga scala, su numeri adeguati e soprattutto su pazienti infiammati [27].

Determinare uno stato di carenza marziale, soprattutto nel paziente infiammato, implica inoltre la necessità di intervenire con lo schema terapeutico migliore.

La terapia con ferro nel nefropatico è più efficace se somministrata in endovena, questo sia per la riduzione dell’assorbimento a livello intestinale epcidino-mediato, sia per una scarsa compliance del paziente soprattutto in presenza di pluriterapie [35, 36]. Va comunque ricordato che alcuni autori hanno sottolineato una maggiore cautela nell’utilizzo estensivo del ferro endovena soprattutto nei pazienti non in dialisi e maggiormente comorbidi, dati i possibili effetti collaterali (sovraccarico di ferro, rischio infettivo, effetto tossico sull’endotelio) [37]. L’utilizzo dei preparati marziali di ultima generazione, grazie alla minore immunogenicità e soprattutto alla maggiore stabilità dei preparati, ha comunque determinato una maggiore maneggevolezza terapeutica [38].

Lo schema terapeutico con il ferro endovena nel dializzato ha visto generalmente due approcci diversi: l’uno definito come “proactive”, l’altro come “reactive”. Uno schema “proactive” prevede che la terapia con ferro venga somministrata continuativamente per raggiungere e mantenere livelli di ferritina e saturazione della transferrina adeguati (target superiore). L’altro schema terapeutico, viceversa, suggerisce la somministrazione di ferro a “boli” per mantenere il paziente al di sopra di quei livelli di ferritina e saturazione della transferrina indicativi di una carenza marziale assoluta (target inferiore) [39, 40]. I livelli di saturazione della transferrina e ferritina per determinare i target superiori e inferiori sono da sempre molto variabili, soprattutto a seconda dell’area geografica in cui è avvenuta la stesura delle linee guida [41]. Tutto ciò a causa della profonda interferenza sui parametri utilizzati dell’infiammazione, che viene a sua volta influenzata sia da fattori genetici che ambientali.

Fondamentale, al di là dell’approccio terapeutico utilizzato, è la “dose” di ferro da somministrare, la quale è stato il fattore prevalentemente correlato con l’aumento del rischio clinico. Gli studi sulla correlazione fra dose di ferro somministrata e rischio clinico, hanno generato una ricca letteratura per lo più costituita da studi osservazionali, anche su grandi numeri estratti dai registri nazionali, da alcuni studi randomizzati e da alcune metanalisi [42-44].  Fino alla pubblicazione dello studio Pivotal nel 2019 [45] la correlazione fra dose e rischio non ha,comunque, portato a conclusioni definitive.

Lo studio Pivotal che ha arruolato più di 2000 pazienti (incidenti con PCR negative) seguiti per un follow-up di 2 anni  ha permesso di concludere  che uno schema  proactive (livelli target di ferritine fino a 700 mic/l e di saturazione della transferrina  fino al 40%) utilizzando  una dose mensile di ferro saccarato di 400 mg,  rispetto ad un protocollo reactive (livelli  di ferritine maggiori 200 mic/l e di saturazione della transferrina maggiore del  20%), portava ad una minore incidenza di eventi cardiovascolari, un minore rischio di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e di infarto miocardico pur a parità di rischio di eventi infettivi [46, 47].

Lo studio Pivotal resta un lavoro fondamentale nel definire, con l’utilizzo dei marcatori tradizionali e con l’impiego di EPO, come trattare con ferro il paziente nefropatico in emodialisi.

Resta però da definire, nella “real life”, quanto i risultati del Pivotal siano riproducibili in una popolazione di emodializzati più fragili (non incidenti, infiammati). In questi pazienti la presenza di una severa carenza di ferro funzionale richiede, come già detto prima, una diagnosi affidabile. La terapia marziale endovena determina un incremento del ferro intracellulare e, di conseguenza, un aumento   di   sintesi di ferroportina che viene però rapidamente degradata dagli alti livelli epcidinici  [48]. Per aumetare la biodisponibilità del ferro, in questi pazienti, è necessario ridurre i livelli di epcidina. Tutto ciò può essere ottenuto incrementando l’eritroferrone, che è il fisiologico inibitore del polipeptide, tramite un’espansione dell’eritropoiesi ottenuta con un aumento della dose di eritropoietina [49]. Il ruolo degli inibitori della prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia, considerando il loro effetto direttamente inibitorio sull’epcidina, sarà un ulteriore ed intrigante aspetto da definire [50].

 

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