Introduzione
Le vasculiti ANCA-associate (AAV) sono un gruppo di rare malattie autoimmuni, la cui incidenza è stimata attorno ai 20-30 casi per milione [1]. Si tratta di vasculiti necrotizzanti che coinvolgono i vasi di piccolo e, talvolta, anche medio calibro, con conseguente danno d’organo [2]. L’interessamento renale è frequente, e si manifesta come glomerulonefrite a semilune necrotizzante pauci-immune. La glomerulonefrite da AAV rappresenta la più comune forma di glomerulonefrite di nuova insorgenza negli adulti al di sopra dei 50 anni [3].
In questo lavoro rivedremo brevemente alcuni aspetti fondamentali relativi alla patogenesi e classificazione delle AAV, per poi soffermarci su alcune novità nella pratica clinica che stanno emergendo negli ultimi anni.
Classificazione e patogenesi
Le AAV vengono sottoclassificate in 3 sindromi, a seconda delle caratteristiche patologiche e cliniche [2]:
- Poliangioite microscopica (MPA)
- Granulomatosi con poliangioite (GPA, precedentemente nota come granulomatosi di Wegener)
- Granulomatosi eosinofilica con poliangioite (EGPA, precedentemente nota come sindrome di Churg-Strauss)
La MPA è espressione esclusivamente di vasculite dei piccoli vasi. Il coinvolgimento renale è molto frequente, e spesso coesiste anche capillarite polmonare. Si tratta di una diagnosi di esclusione, formulata in assenza delle caratteristiche tipiche delle altre due forme.
La lesione caratteristica della GPA consiste in infiammazione granulomatosa necrotizzante extravascolare, per lo più a carico del distretto testa-collo, delle vie aeree e del polmone, con noduli che spesso evolvono in cavitazione. Si associano frequentemente lesioni vasculitiche, di per sé non distinguibili dalla MPA.
L’EGPA è la più rara delle sindromi AAV. Come la GPA, è caratterizzata da infiammazione granulomatosa spesso a carico delle vie respiratorie, ma ha la peculiarità di essere ricca di eosinofili. Si associano asma ed eosinofilia periferica.
Gli ANCA, anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili, sono autoanticorpi diretti contro la mieloperossidasi (MPO) o la proteinasi 3 (PR3), componenti dei granuli dei neutrofili. Questi autoanticorpi sono riscontrabili nella maggioranza di pazienti con AAV, fatta eccezione per l’EGPA. Oltre a essere degli importanti biomarcatori per la diagnosi e il monitoraggio delle AAV, gli ANCA contribuiscono direttamente alla patogenesi della vasculite, come supportato da decenni di studi in vitro e in modelli animali [1]. Brevemente, in seguito al priming dei neutrofili, indotto per esempio da citochine in corso di un evento infettivo, MPO e PR3 vengono esposti maggiormente sulla superficie dei neutrofili. Gli autoantigeni diventano quindi accessibili agli autoanticorpi ANCA circolanti, che, legandosi ai recettori Fcγ sulla superficie dei neutrofili, ne aumentano lo stato di attivazione. I neutrofili attivati dagli ANCA inducono direttamente danno vascolare, infiltrando le pareti dei vasi, e amplificano ulteriormente la risposta infiammatoria, rilasciando chemochine, citochine, NETs (neutrophil extracellular traps, filamenti di materiale nucleare con effetti pro-infiammatori) e attivando la via alterna del complemento. Quest’ultima porta alla generazione dell’anafilotossina C5a, con conseguente ulteriore amplificazione dell’infiammazione e priming dei neutrofili [4].
ANCA, caratteristiche cliniche e genetica
Il sottotipo di ANCA (anti-MPO o PR3) è molto rilevante dal punto di vista clinico. I pazienti con MPA sono più frequentemente positivi per gli ANCA anti-MPO (55-65%), mentre i pazienti con GPA presentano più spesso ANCA anti-PR3 (65-75%) [5]. Nel caso dell’EGPA invece solo una minoranza di pazienti, circa il 30-40%, è positiva per gli ANCA, pressoché esclusivamente anti-MPO. La positività degli ANCA nell’EGPA si accompagna a una maggiore prevalenza di manifestazioni prettamente vasculitiche, come glomerulonefrite e mononeurite multipla, che sono invece raramente osservate nei pazienti ANCA-negativi [6]. È importante notare che il profilo ANCA nell’EGPA sembra anche associarsi a una risposta differenziale alla terapia, con maggiori tassi di risposta al rituximab osservati nei pazienti ANCA-positivi [7].
Altre importanti caratteristiche cliniche associate al profilo ANCA sono il rischio di recidiva, che è nettamente più elevato nei pazienti PR3-ANCA positivi [8], e la risposta preferenziale al rituximab, anziché alla ciclofosfamide, che è stata descritta nei pazienti PR3-ANCA positivi con recidiva di vasculite [9].
La specificità ANCA è anche sottesa da diversi profili di suscettibilità genetica, come ben dimostrato dai 2 maggiori GWAS (genome-wide association studies) in GPA e MPA [10, 11]. La positività per ANCA MPO o PR3 ha diverse associazioni con gli alleli di istocompatibilità maggiore (in HLA-DQ per MPO, HLA-DP per PR3), mentre altri polimorfismi sono associati esclusivamente al subset di pazienti PR3-ANCA positivi. Queste varianti si trovano nel gene PRTN3, che codifica per PR3 stessa, e in SERPINA1, il gene che codifica per alfa1-antitripsina, un inibitore enzimatico di PR3. È interessante che è emersa anche un’associazione genetica comune ai sottogruppi PR3- e MPO-ANCA positivi. Si tratta di una variante nel gene PTPN22, una tirosin-fosfatasi che modula la responsività dei recettori dei linfociti T e B. Questa variante è stata identificata anche in associazione a molte altre malattie autoimmuni, come artrite reumatoide e diabete mellito tipo I, rappresentando quindi un fattore di rischio comune allo sviluppo di autoimmunità [12].
Analogamente a GPA e MPA, anche nel caso dell’EGPA la specificità ANCA si associa a diversi profili genetici. Il recente GWAS dell’European Vasculitis Genetics Consortium ha mostrato che solo i pazienti MPO-ANCA positivi presentano associazione genetica con il locus HLA-DQ, mentre associazioni con geni associati al mantenimento della barriera mucosale sono emerse esclusivamente nei pazienti ANCA-negativi [13]. D’altro canto, sono state identificate anche associazioni genetiche comuni a tutti i pazienti con EGPA, indipendentemente dalla positività per ANCA. Si tratta di polimorfismi associati ad un’aumentata conta di granulociti eosinofili e all’asma, che determinano una suscettibilità genetica comune per l’EGPA.
Alla luce di queste importanti differenze cliniche e genetiche che correlano con il profilo ANCA, diversi autori hanno proposto di ripensare la classificazione delle AAV, incorporando la specificità ANCA nella classificazione [14, 15]. Questo cambio di nomenclatura potrebbe facilitare il disegno dei futuri studi clinici e la successiva personalizzazione del trattamento.
Approcci terapeutici
La terapia immunosoppressiva rappresenta il cardine del trattamento delle forme severe di AAV, con grave danno d’organo (per esempio, coinvolgimento renale o alveolite emorragica) che, in assenza di trattamento, conducono rapidamente alla morte. Negli ultimi 40-50 anni, il progresso negli schemi immunosoppressivi ha permesso un progressivo miglioramento della prognosi dei pazienti, con un graduale aumento della sopravvivenza a 5 anni fino all’attuale 70-80% [16, 17]. A grandi linee, si distingue in genere una fase di induzione della remissione di malattia, caratterizzata da immunosoppressione ad alta intensità (solitamente basata su glucocorticoidi in associazione a ciclofosfamide e/o rituximab ed, eventualmente, plasmaferesi), seguita da una fase di mantenimento, in cui l’immunosoppressione viene proseguita a minore intensità (usando per lo più un farmaco tra rituximab, azatioprina, metotrexate o MMF, possibilmente con glucocorticoidi a bassa dose), al fine di prevenire le recidive e il conseguente danno d’organo. Gli schemi immunosoppressivi attualmente impiegati sono molto efficaci ed inducono la remissione nella maggior parte dei casi. D’altro canto, però, le infezioni rappresentano la più frequente causa di mortalità nel primo anno dalla diagnosi, e le recidive di malattia sono frequenti, attorno al 50% entro i 5 anni [6, 17]. Si rende quindi necessario personalizzare gli approcci terapeutici, bilanciando il controllo della malattia, nel breve e lungo termine, con il rischio infettivo e di tossicità legato al trattamento stesso.
Le linee guida sul trattamento delle AAV sono state recentemente aggiornate, sia dall’American College of Rheumatology [18], sia dal gruppo internazionale KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes) [19]. Queste raccomandazioni offrono una panoramica esaustiva e aggiornata sul trattamento dei pazienti con AAV. Ci soffermeremo qui su alcuni aspetti emergenti negli ultimi anni, in particolare il ruolo della plasmaferesi, il dosaggio dei corticosteroidi, l’uso di inibitori del complemento e strategie nella terapia di mantenimento.
Ruolo della plasmaferesi
Il ruolo della plasmaferesi nel trattamento delle AAV è controverso. Il primo grande studio prospettico al riguardo, il trial MEPEX, ha randomizzato 137 pazienti con grave coinvolgimento renale (creatinina >5.8 mg/dl) a ricevere 7 sedute di plasma exchange (gruppo PLEX) o 3 g di metilprednisolone ev (gruppo controllo), in aggiunta a ciclofosfamide orale e prednisolone [20]. Il gruppo PLEX ha mostrato migliori risultati riguardo all’outcome primario, l’indipendenza dalla dialisi a 3 mesi [69% vs 49% nel gruppo di controllo, p=0.02]. Tuttavia, questo beneficio non si è tradotto in significative differenze nella mortalità a 12 mesi. Un successivo follow-up a lungo termine della stessa coorte (tempo di osservazione mediano 3.95 anni) non ha dimostrato significativi benefici della PLEX sull’incidenza di insufficienza renale cronica terminale e/o mortalità [21].
In questo contesto di incertezza sull’utilità clinica della PLEX, è stato disegnato PEXIVAS, uno studio randomizzato controllato con design fattoriale 2×2 [22]. Questo studio si è posto l’obiettivo di studiare contemporaneamente l’effetto di 2 diversi interventi in pazienti con grave AAV: la PLEX e l’adozione di diversi dosaggi di glucocorticoidi. Sono stati reclutati 704 pazienti in 16 Paesi, che fanno di PEXIVAS il più grande studio in AAV ad oggi condotto [23]. La quasi totalità dei pazienti presentava vasculite renale, con necessità di terapia sostituiva in un quinto dei casi, mentre solo il 18% dei partecipanti presentava emorragia polmonare. In linea con la pratica clinica al tempo del reclutamento, la maggioranza dei pazienti hanno ricevuto induzione con ciclofosfamide, e il 15% circa con rituximab. Dopo una mediana di follow-up di 2.9 anni, l’outcome primario, un end-point composito di morte o malattia renale terminale, si è verificato nel 28% del gruppo PLEX e nel 31% del gruppo no PLEX. Queste differenze non sono risultate statisticamente significative, anche se si è osservata una tendenza alla superiorità della PLEX nei primi anni dal trattamento, con successiva perdita dell’effetto. Non sono emerse significative differenze neppure per alcun outcome secondario, né in termini di efficacia né di sicurezza. Le analisi secondarie in sottogruppi specificati non hanno dimostrato significative differenze in base a età, gravità clinica, specificità ANCA o regime immunosoppressivo, anche se si è osservato un trend per un possibile beneficio della PLEX nei pazienti con coinvolgimento renale o polmonare più grave.
Nel complesso, le evidenze ad oggi disponibili non giustificano l’uso della PLEX nella maggior parte dei pazienti con AAV. D’altra parte però, nonostante la notevole numerosità campionaria per una malattia rare come AAV, il potere statistico dello studio PEXIVAS rimane insufficiente per escludere definitivamente un possibile beneficio della PLEX nei pazienti con manifestazioni cliniche più gravi, e ulteriori studi saranno necessari a chiarire questo aspetto.
Dosaggio dei corticosteroidi
L’altro aspetto su cui si è focalizzato lo studio PEXIVAS è il dosaggio dei glucocorticoidi [23]. Tutti i pazienti sono stati trattati con boli di metilprednisolone, e quindi randomizzati a dose standard o ridotta di glucocorticoidi per os. Entrambi gli schemi di dosaggio partono da una dose di prednisone di 1 mg/kg. Dopo la prima settimana, lo schema a dose ridotta comincia un rapido decalage, risultante in una riduzione del 54% della dose cumulativa a 3 mesi. Non si sono osservate significative differenze tra i due gruppi nell’end-point primario di morte o insufficienza renale terminale, mentre è emerso un importante segnale di safety a favore del dosaggio ridotto, con un minor rischio di infezioni severe a un anno (27.2%, vs. 33% nel gruppo dose standard).
Un simile segnale a favore di dosi ridotte di corticosteroidi è stato osservato nel trial LoVas, uno studio multicentrico, open label di fase 4 che ha reclutato 140 pazienti in Giappone [24]. Questo studio si è focalizzato su una popolazione di pazienti meno gravi rispetto a PEXIVAS, escludendo pazienti con eGFR < 15 mL/min/1.73 m2 o con emorragia alveolare. Tutti i pazienti hanno ricevuto induzione con rituximab e sono stati randomizzati a prednisolone a dose ridotta (0.5 mg/kg/giorno, scalato fino alla sospensione a 5 mesi) o alta (1 mg/kg/giorno, scalato fino a 10 mg a 5 mesi). La dose ridotta di prednisolone ha raggiunto l’end-point di non inferiorità per l’outcome primario di remissione a 6 mesi, con una significativa riduzione del tasso di eventi avversi seri, di gravi infezioni e di alcune pre-specificate complicanze legate agli steroidi, come diabete ed insonnia.
Complessivamente, questi studi hanno mostrato, in pazienti con un ampio spettro di gravità clinica, che un dosaggio ridotto di corticosteroidi, in associazione ad induzione con ciclofosfamide o rituximab, è non inferiore a dosaggi più elevati, con il vantaggio di una significativa riduzione dei rischi, soprattutto infettivi, associati al trattamento.
Inibitori del complemento
Un altro approccio per limitare la tossicità legata all’immunosoppressione, e in particolare ai glucocorticoidi, consiste nell’impiego di agenti immunomodulanti alternativi. Particolarmente promettenti appaiono gli inibitori del complemento. Lo sviluppo di questi farmaci in AAV è stato fortemente supportato da modelli murini, che hanno dimostrato che la via alterna del complemento svolge un ruolo patogenetico fondamentale nel mediare il danno renale da anticorpi anti-MPO [25]. Questi dati pre-clinici hanno spianato la via a studi clinici con inibitori del complemento in AAV, in particolare con avacopan, una piccola molecola che antagonizza il recettore per C5 C5aR. Due studi di fase 2 con avacopan in AAV non hanno rilevato particolari segnali di safety e hanno mostrato promettenti dati preliminari di efficacia [26, 27]. Sono stati recentemente pubblicati i dati dello studio di fase 3, ADVOCATE, che ha arruolato 331 pazienti seguiti per 60 settimane [28]. Tutti i pazienti hanno ricevuto induzione con ciclofosfamide, seguita da mantenimento con azatioprina, o rituximab, e sono stati randomizzati ad avacopan per 52 settimane, oppure a un ciclo di prednisolone a scalare per 20 settimane. Il trattamento con avacopan si è dimostrato non inferiore nell’end-point di remissione a 26 settimane, e superiore nell’end-point di remissione sostenuta a 52 settimane. I tassi di eventi avversi seri sono stati simili nei due bracci, ma il gruppo avacopan ha mostrato una ridotta frequenza di eventi avversi correlabili ai glucocorticoidi e migliore percezione della qualità di vita. Le analisi secondarie hanno evidenziato dei promettenti segnali di superiorità dell’avacopan negli outcome renali, con una più marcata riduzione precoce dell’albuminuria e un miglior recupero del filtrato glomerulare. Quest’ultimo effetto è risultato particolarmente rilevante nei pazienti con più grave coinvolgimento renale (eGFR <30 mL/min/1.73 m2 all’arruolamento), che hanno mostrato un recupero di eGFR a 52 settimane maggiore di 5.6 ml/min [95%CI 1.7-9.5] nel gruppo avacopan, rispetto al prednisolone.
Gli inibitori del complemento rappresentano delle attrattive alternative terapeutiche ai glucocorticoidi in AAV, con un migliore profilo di tossicità, soprattutto in termini di qualità di vita, e un interessante profilo di efficacia, specie nelle forme renali. Ulteriori studi saranno necessari per meglio definire lo spazio terapeutico di questi farmaci, così come i dosaggi e timing ottimali del trattamento.
Strategie nella terapia di mantenimento
I più recenti studi sulla terapia di mantenimento in AAV hanno mostrato la superiorità del rituximab rispetto all’azatioprina nel mantenere la remissione in diversi contesti clinici, senza che siano emersi significativi segnali di safety. In particolare, lo studio MAINRITSAN [29] ha confrontato il mantenimento con rituximab o azatioprina dopo induzione con ciclofosfamide, mentre lo studio RITAZAREM ha paragonato i due farmaci dopo induzione con rituximab in pazienti con recidiva di vasculite [30].
Una delle più rilevanti domande riguardo alla terapia di mantenimento è quale sia la durata ideale. A questo proposito, due recenti studi hanno confrontato diverse durate della terapia di mantenimento, MAINRITSAN3 [31] (rituximab vs placebo per 18 mesi, dopo iniziale mantenimento con rituximab di 18 mesi) e REMAIN [32] (interruzione dell’azatioprina a 24 mesi dalla diagnosi vs prosecuzione fino a 48 mesi). In entrambi i casi, la prosecuzione della terapia si è dimostrata superiore nel prevenire le recidive e, aspetto molto rilevante, nel preservare la funzione renale residua: nello studio REMAIN si sono verificati 4 casi di insufficienza renale terminale, tutti nel gruppo che aveva sospeso l’azatioprina [p=0.012]. Nonostante questi studi non avessero una numerosità campionaria sufficiente per valutare differenze in safety, sono emersi degli iniziali segnali di aumentato rischio di tossicità nei pazienti sottoposti a trattamenti immunosoppressivi più prolungati (ipogammaglobulinemia in corso di rituximab; maggior frequenza di citopenie, infezioni e complicanze cardiovascolari con azatioprina). Si rende quindi necessaria un’attenta valutazione del rapporto rischi-benefici nel singolo paziente, con un conseguente approccio personalizzato al trattamento immunosoppressivo. A questo fine, può essere utile considerare i fattori di rischio per recidiva ad oggi identificati, ossia positività per gli ANCA-PR3, fenotipo granulomatoso, storia di precedenti recidive, e persistente positività degli ANCA al momento della sospensione della terapia immunosoppressiva [8, 32]. La ricerca di biomarcatori predittivi del rischio di recidiva rappresenta un campo attivo di ricerca, che potrebbe significativamente migliorare la stratificazione del rischio e la personalizzazione del trattamento.
Conclusioni
Il trattamento delle vasculiti ANCA-associate necessita di un delicato equilibrio tra il controllo della malattia con farmaci immunosoppressori e il rischio di importanti tossicità legate al trattamento stesso. Recenti studi hanno contribuito a meglio definire il ruolo di diversi approcci terapeutici. Si è dimostrato che la plasmaferesi non ha comprovati benefici nella maggior parte dei pazienti, mentre potrebbe essere utile in un piccolo, selezionato sottogruppo di pazienti con le presentazioni cliniche più gravi. L’adozione di dosaggi più bassi di glucocorticoidi ha mostrato un’efficacia paragonabile alle dosi più alte, con una significativa riduzione del rischio di infezioni. La disponibilità di nuovi farmaci, come gli inibitori del complemento, sta aprendo la via a nuovi schemi terapeutici altamente efficaci in assenza di steroidi, con dei risultati molto promettenti soprattutto nelle vasculiti renali. La durata ottimale della terapia immunosoppressiva rimane incerta, e verosimilmente non è la stessa per tutti i pazienti. È necessario personalizzare l’approccio terapeutico al singolo paziente, tenendo conto sia dei rischi legati alla recidiva di malattia, sia di quelli secondari alla tossicità sul lungo termine della terapia immunosoppressiva. Questo sarà facilitato dallo sviluppo di strumenti innovativi per la stratificazione del rischio, come biomarcatori che permettano di meglio valutare lo stato immunologico del paziente.
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