Supplemento S83 - In depth review

Cosa c’è di nuovo nella terapia della CKD-MBD?

Abstract

Gli importanti avanzamenti nelle conoscenze scientifiche hanno portato ad un notevole arricchimento delle offerte terapeutiche nel campo della CKD-MBD, che hanno permesso un miglior controllo dei parametri biochimici correlati, rispetto al passato. A questo non è però corrisposto un tangibile miglioramento degli esiti clinici, sia ossei che cardiovascolari, connessi alla CKD-MBD, né vi è stato un sensibile calo del numero di pillole che i pazienti nefropatici devono assumere, con l’obiettivo di mantenere controllati i parametri biochimici, con un costo terapeutico di questi interventi che rimane elevato. Tutti questi bisogni insoddisfatti continuano a stimolare la ricerca per cercare soluzioni nuove che possano migliorare uno o più di questi obiettivi non ancora raggiunti.

In questa revisione della letteratura più recente, abbiamo cercato di sintetizzare quanto di nuovo è stato recentemente proposto nel campo terapeutico della CKD-MBD, sottolineando gli eventuali vantaggi dei nuovi farmaci rispetto alle terapie già disponibili, con particolare attenzione ai bisogni non ancora soddisfatti.

Abbiamo inoltre rivisitato le recenti acquisizioni relativamente a farmaci, già da tempo in uso, riportando anche quelle che sono le più recenti evidenze raccolte che potrebbero modificare l’approccio al loro utilizzo.

Parole chiave: CKD-MBD, iperparatiroidismo secondario, fratture ossee, malattia cardiovascolare

Introduzione

Negli ultimi decenni, l’ambito delle conoscenze sulle alterazioni del metabolismo minerale e osseo associate ai vari stadi della malattia renale cronica (CKD-MBD, nell’acronimo anglosassone), si è arricchito di importanti novità sia nel campo fisiopatologico che in quello clinico.

Nelle prime stagioni della storia della nefrologia, si riteneva che tale condizione clinica, identificata come una problematica limitata alle manifestazioni ossee osservate nel paziente con malattia renale cronica (osteodistrofia uremica), fosse quasi esclusivamente conseguenza dell’eccessiva produzione di paratormone (PTH), a sua volta secondaria alla ridotta capacità di mantenere livelli calcemici nella norma a causa della ridotta sintesi del metabolita attivo della vitamina D (calcitriolo) e della ritenzione di fosfati, entrambe conseguenti al progressivo venir meno della funzione endocrina e depurativa renale [1].

Negli anni seguenti, le nuove acquisizione fisiopatologiche e cliniche, favorite da uno sviluppo esplosivo delle tecnologie di indagine, hanno evidenziato la maggiore complessità patogenetica della CKD-MBD che, in aggiunta agli storici protagonisti (PTH, ViTD, calcio, fosforo), ha visto comparire una serie di altri fattori di derivazione ossea, renale o sistemica (solo per citarne alcuni, FGF23, Klotho, sclerostina, activina, vitK, etc.) che, con ruoli non ancora del tutto definiti, potrebbero non solo contribuire alle variegate e variabili espressioni fenotipiche delle alterazioni funzionali e strutturali del metabolismo minerale e del sistema scheletrico, ma essere anche coinvolti in altre manifestazioni cliniche sistemiche che caratterizzano la malattia renale cronica (da qui in avanti CKD, secondo l’acronimo anglosassone più in uso), in particolare in quelle dell’apparato cardiovascolare, oltre a poter contribuire ad accelerare la progressione della CKD stessa [2].

Negli ultimi due decenni, abbiamo anche assistito ad un progressivo arricchimento dell’armamentario terapeutico nell’ambito della CKD-MBD, con farmaci indirizzati a correggere in modo sempre più efficace le alterazioni del metabolismo minerale, con l’obiettivo di ridurre anche gli esiti clinici ossei (fratture), sistemici (morbilità e mortalità CV) e renali (progressione della CKD).

La tabella 1 sintetizza gli indirizzi terapeutici più consolidati per il trattamento della CKD-MBD, basati fondamentalmente   sulle raccomandazioni contenute nelle ultime le linee guida pubblicate [3], in attesa dell’imminente pubblicazione della prossima versione.

Nonostante però gli indubitabili miglioramenti raggiunti nel controllo dei parametri biochimici (calcio, fosforo, PTH, vitD), che si rispecchiano anche nella riduzione della necessità di ricorso alla paratiroidectomia (PTX), mancano ad oggi chiare evidenze di un miglioramento anche degli esiti clinici sia ossei che sistemici. Rimangono inoltre insoddisfatte altre aspettative connesse alle terapie utilizzate nel controllo della CKD-MBD, come la necessità di ridurre l’elevato numero di pillole che i pazienti devono assumere quotidianamente, oltre al carico economico correlato a tali farmaci per la spesa sanitaria globale.

Nei prossimi paragrafi saranno brevemente descritte le novità terapeutiche, quelle che, a nostro parere, hanno un rilievo clinico di maggior interesse (anche se non tutte al momento disponibili nella pratica clinica), oltre a riportare quelle che sono alcune nuove evidenze su farmaci già da tempo in uso nel campo della CKD-MBD. Si è cercato anche di dare risalto agli eventuali vantaggi, quando presenti, delle nuove proposte terapeutiche rispetto alle terapie già disponibili, prestando particolare attenzione ai bisogni non ancora soddisfatti.

Argomento della raccomandazione Obiettivo Intervento Punti di attenzione Considerazioni e Limiti
 

 

 

 

 

 

 

 

Approccio generale

Il trattamento della

CKD-MBD si basa sul controllo seriale dei parametri biochimici: calcio, fosforo, PTH, 25-OH-vitD, FA

Controllo ripetuto dei parametri biochimici, con frequenza variabile e incrementale in funzione del grado di CKD

Valutare, oltre al valore assoluto del singolo parametro, anche la direzione e entità delle sue variazioni nel tempo

Attenzione da porre alle variazioni dei metodi di laboratorio utilizzati nel tempo

Mancanza di valori di riferimento di normalità, in particolare per PTH, negli stadi di CKD non in dialisi.

Non è definito se alla calcemia totale, influenzata dal livello di albumemia, vada preferito il calcio corretto per albumina o il calcio ionizzato.

Le  indicazioni all’uso di parametri strumentali (mineralometria, biopsia ossea, metodi per valutare le calcificazioni vascolari) sono poco definite

 

 

 

 

 

 

 

Controllo del fosforo

Mantenere i livelli di fosforemia nel range di normalità

Riduzione dell’apporto di fosforo con la dieta (con particolare attenzione alle sorgenti di fosfato facilmente assorbibile)

Eventuale aggiunta di chelanti intestinali del fosfato, privilegiando quelli non contenenti Al o Ca

Attenzione alle sorgenti nascoste di fosforo con la dieta (cibi e bevande processate o colorate; prodotti da forno; leggere le etichette di composizione di tutti gli alimenti confezionati)

Mancanza di evidenze che il mantenimento di livelli normali di fosforo si traduca in un miglioramento degli esiti ossei, cardiovascolari e renali.

Il solo livello ematico di fosforo non è un indicatore del suo bilancio  corporeo.

Restrizioni dietetiche troppo rigide potrebbero determinare una malnutrizione proteico-calorica, in particolare nel soggetto anziano

 

 

Controllo del calcio

Mantenere i livelli di calcemia entro i limiti della norma; particolare attenzione ad evitare l’ipercalcemia Evitare o ridurre l’uso di chelanti del fosforo a base di calcio; calcio nel liquido di dialisi tra 1.25 e 1.50 mmol/L In funzione del minore impatto clinico dell’ipocalcemia rispetto all’ipercalcemia, particolare attenzione andrà posta nell’uso di quantità elevate di calcitriolo e/o analoghi della vitamina D Limitazioni informative della calcemia totale (vedi sopra).
Controllo del PTH

Mantenere i livelli di PTH tra 2 e 9 volte il limite massimo di normalità nel paziente in dialisi.

Negli altri stadi di CKD, valutare la tendenza all’incremento dei valori più che ai valori assoluti

Possono essere utilizzate combinazioni variabili di calcitriolo, analoghi della vitamina D e calcimimetici (questi ultimi solo nei pazienti in dialisi o trapiantati), in funzione dei valori di calcio e fosforo ematici.

PTX nei casi non responsivi alla terapia medica

Attenzione ad un’eccessiva inibizione del PTH, per evitare il rischio della malattia adinamica dell’osso

Mancanza di una definizione dei valori desiderati per gli stadi di CKD non in dialisi.

Mancata valorizzazione della normalizzazione dei livelli di vitamina D nativa per il controllo del PTH.

Mancanza di chiare indicazioni alla PTX

Controllo dello stato vitaminico D Mantenere i livelli di 25-OH-vitD (calcidiolo) superiori al limite della sufficienza (30 ng/mL) Supplementazioni con varie forme di vitamina D nativa o 25-monoidrossilata (colecalciferolo, ergocalciferolo, calcidiolo) Attenzione ad alcune condizioni relativamente rare di mutazioni della 24-25- idrossilasi con sviluppo di ipercalcemia, anche severa, dopo somministrazione di vitamina D nativa

Non definiti i valori di normalità per i pazienti con CKD.

Non ben definiti i livelli di calcidiolo da non superare.

 

Tabella 1. Raccomandazioni secondo le KDIGO per il controllo della CKD-MBD [3] Note: FA: fosfatasi alcalina; PTH: paratormone; PTX: paratiroidectomia.

 

Farmaci che riducono il trasporto intestinale del fosfato

Il controllo dei livelli della fosforemia è da sempre indicato come uno dei principali obiettivi terapeutici nel trattamento della CKD-MBD. I suggerimenti dietetici e, nel paziente in dialisi, l’ottimizzazione del trattamento dialitico rappresentano i passaggi preliminari ineludibili, ma spesso non sufficienti, per il mantenimento dei livelli di fosforemia entro i limiti desiderati, con la conseguente necessità di ricorrere spesso all’uso di farmaci che, legando il fosfato contenuto negli alimenti, ne riducono l’assorbimento intestinale (chelanti del fosforo). Nonostante l’elevato numero di chelanti del fosfato disponibili [4], solo una minor parte dei pazienti riesce a mantenere livelli di fosforemia stabilmente entro i limiti della normalità, anche a causa di una ridotta aderenza terapeutica legata sia ad effetti di intolleranza gastroenterica al farmaco, ma non infrequentemente anche all’elevato numero di pillole da assumere per raggiungere il risultato terapeutico.

Nei prossimi paragrafi, riporteremo le note essenziali riguardo a due farmaci diretti al controllo dei valori fosforemici nel paziente con CKD che, a differenza di tutti i farmaci ipofosfatemici che agiscono con meccanismi di chelazione del fosfato contenuto nella dieta, hanno effetti inibitori diretti sul trasporto intestinale, attivo o passivo, di fosfato.

Nicotinamide

Oltre un decennio fa, era stato proposta come farmaco utile al controllo dell’iperfosforemia del paziente con CKD la Nicotinamide, derivato idrosolubile dell’acido nicotinico (Vitamina B3), la cui carenza è noto essere la causa della pellagra, per la sua azione inibitrice diretta del co-trasportatore attivo sodio/fosfato (NaPi2b), presente sul versante cellulare apicale degli enterociti [5]. Purtroppo, l’uso di questo farmaco si è dimostrato associato, nei primi studi, a numerosi effetti collaterali, anche gravi (4 casi di trombocitopenia e 2 decessi) [6]. Inoltre, un recente studio controllato nel quale è stata utilizzata in pazienti in trattamento dialitico una nuova formulazione di Nicotinamide a rilascio controllato, se pure confermando una certa efficacia nel controllo della fosforemia, ha anche evidenziato un’importante associazione con numerosi eventi avversi, in particolare gastroenterici, che hanno indotto una larga parte dei pazienti arruolati a sospendere il trattamento [7]. Per queste ragioni, la Nicotinamide non sembrerebbe avere al momento concrete prospettive di utilizzo in campo clinico.

Tenapanor

Recentemente, un altro farmaco che agisce sul trasporto intestinale di fosfato, il Tenapanor, è stato portato all’attenzione dei nefrologi come un nuovo possibile mezzo terapeutico indirizzato al controllo della fosforemia. Tenapanor, una piccola molecola con attività inibitrice sull’isoforma 3 dell’anti-trasportatore sodio/idrogeno (NHE3), espressa nelle cellule del tratto gastroenterico, è un farmaco già noto per i suoi effetti sodio-depletivi a livello intestinale, che ne aveva suggerito il possibile impiego nella correzione delle condizioni di idro/sodio ritenzione nei soggetti in dialisi, nei quali l’uso dei diuretici ha ovviamente uno spazio limitato se non nullo [8]. Tra gli effetti osservati con l’uso di tale farmaco, vi era quello di una riduzione dei valori della fosforemia, che successivi studi hanno dimostrato essere secondario ad una riduzione del trasporto paracellulare di fosfato nel tratto intestinale, conseguenza dell’inibizione di NHE3 [9]. A queste iniziali osservazioni, sono seguiti studi clinici che hanno confermato l’efficacia di questo farmaco nel controllo della fosforemia in pazienti in dialisi, peraltro associata ad una considerevole riduzione del numero di pillole necessarie al controllo di tale parametro, quando confrontato con la maggior parte dei chelanti del fosfato [10-13]. Il farmaco, approvato per l’uso del controllo della fosforemia dall’FDA, non è al momento approvato per tale applicazione in Italia. È comunque da segnalare che in tutti gli studi è stata riportata una frequente comparsa di eventi avversi gastroenterici, tra i quali, con particolare frequenza, la diarrea, talvolta di entità considerevole, che potrebbero limitarne un uso generalizzabile.

 

Calcifediolo a rilascio prolungato

L’uso del calcitriolo e degli altri analoghi della vitamina D è stato e continua a rimanere uno dei caposaldi della terapia della CKD-MBD, sulla base dei numerosi riconosciuti effetti diretti e indiretti della vitamina D sul controllo della produzione di PTH, sul metabolismo dell’apparato scheletrico, in aggiunta ai numerosi (presunti o reali) effetti pleiotropici. Le indicazioni specifiche al loro uso nei vari stadi della CKD hanno comunque subito ampie revisioni nelle linee guida che sono state prodotte negli ultimi 2 decenni [3, 14, 15]. È però altrettanto noto come l’efficacia dei metaboliti attivi della vitamina D sia spesso limitata dal loro effetto di incremento dei livelli sierici di calcio, di fosforo e, in una certa misura, anche di FGF23 associato al loro uso. Anche, ma non solo, sulla base di tutte queste considerazioni, negli ultimi due decenni si è andato sempre più consolidando l’interesse alla correzione del deficit di vitamina D nativa, di riscontro particolarmente elevato nella popolazione dei pazienti con CKD, preliminarmente o in contemporanea all’uso dei metaboliti attivi, al fine di rendere più efficace il controllo della CKD-MBD [3, 16]. In aggiunta però ai numerosi limiti nel definire quali siano i livelli di sufficienza di vitamina D nativa nei pazienti con varie forme di CKD [17], l’uso dei metaboliti della vitamina D nativa (colecalciferolo, ergocalciferolo, calcifediolo) si sono per il momento manifestati non particolarmente efficaci nella correzione dell’Iperparatiroidismo secondario (IPS) della CKD, forse anche a causa di un dosaggio non appropriato [18].

Calcifediolo a rilascio prolungato (ERC)

Recentemente, si è resa disponibile una nuova formulazione di calcifediolo, a rilascio prolungato nell’apparato gastrointestinale, che avrebbe dimostrato una maggiore efficacia nel controllo dei livelli di PTH, associandosi peraltro ad un miglior profilo nel controllo della calcemia, fosforemia e livelli di FGF23, quando confrontata non solo con altre formulazioni di vitamina D nativa, ma anche con analoghi della vitamina D attiva [19-21]. Sebbene questo farmaco si presenti come un mezzo terapeutico indubitabilmente efficace nel controllo quantomeno dell’IPS della CKD, rimangono da chiarire alcuni aspetti fisiopatologici e clinici che spieghino più approfonditamente le ragioni del differente profilo di efficacia e sicurezza rispetto agli altri preparati attualmente disponibili (migliore correzione dei livelli di 25-OH-VitD? Più elevati livelli di calcitriolemia? Etc.), oltre alla mancanza di dati su un confronto testa a testa con il già disponibile calcifediolo, possibilmente utilizzato allo stesso dosaggio, per poterne poi valutare il rapporto costo/efficacia. ERC rappresenta comunque una nuova opportunità terapeutica che certamente allargherà il paniere dei metaboliti della vitamina D utilizzabili in questo campo.

 

Nuovi calciomimetici

L’intensa ricerca che fece seguito alla identificazione, oltre 3 decenni fa, da parte di Edward E. Brown & Collaboratori di un recettore specifico per il calcio (CaSR), espresso sulle cellule paratiroidee e in grado di controllare la secrezione del PTH [22, 23], diede seguito alla produzione di una serie di molecole in grado di modulare tale recettore, controllando in senso inibitorio (calcimimetici) o stimolatorio (calcilitici) la produzione e secrezione del PTH [24]. Tra i calciomimetici, farmaci in grado di sopprimere la secrezione di PTH in condizioni ipersecretive, in particolare nell’IPS della CKD in fase avanzata, cinacalcet, un modulatore allosterico del CaSR, è stato il primo a entrare nell’uso clinico, sia nei pazienti in dialisi che dopo trapianto renale, dimostrandosi efficace nel controllo dei livelli di PTH, di calcio (con tendenza all’ipocalcemia) e del fosforo [25, 26]. Fu però chiaro, sin dagli inizi del suo uso, che una buona percentuale di pazienti si dimostrava intollerante al farmaco, in particolare a causa di effetti avversi gastroenterici (nausea, vomito, epigastralgie, diarrea); inoltre, l’efficacia di cinacalcet nel controllo dei livelli dei parametri biochimici non è stata accompagnata da un miglioramento significativo degli esiti clinici, ossei o sistemici [27, 28].

Per superare o quantomeno limitare i problemi legati alla gastro-tolleranza di cinacalcet, circa una decina di anni fa, è stato proposto l’uso di etelcalcetide, un altro calciomimetico utilizzabile per via endovenosa, con azione agonista diretta sul CaSR, che presenta una efficacia inibitoria sul PTH discretamente superiore a quella di cinacalcet, accompagnata comunque da effetti ipocalcemizzanti e ipotensivizzanti moderatamente più spiccati rispetto a cinacalcet [30].

Nel tentativo di migliorare la tollerabilità sia gastroenterica e/o di limitare l’effetto ipocalcemizzante, mantenendo sostanzialmente invariata l’efficacia nel controllo dei livelli di PTH, sono stati proposti alcuni nuovi calciomimetici che però, al momento, non sono disponibili per l’uso clinico in gran parte dei Paesi nel mondo, inclusa l’Italia.

Ci limiteremo a descrivere brevemente le caratteristiche principali di due tra questi nuovi calcimimetici, evocalcet e upacicalcet, visto che di essi vi sono già dati in letteratura relativi al loro utilizzo clinico.

Evocalcet

Evocalcet è un nuovo calcimimetico, sviluppato in Giappone, assumibile per via orale, che agisce in modo non dissimile da quello di cinacalcet (modulatore allosterico). Studi sperimentali avevano dimostrato che questo nuovo calcimimetico interferiva con lo svuotamento gastrico notevolmente meno rispetto a cinacalcet e inoltre, al contrario di quest’ultimo, non aveva nessuna interferenza metabolica con il CYP2D6 [31]. Un trial randomizzato, doppio cieco e doppio “dummy”, effettuato in Giappone, su pazienti in dialisi, ha dimostrato che l’efficacia di evocalcet  nel controllo dei livelli di PTH non è inferiore a quella di cinacalcet, ma l’incidenza di eventi avversi gastroenterici era significativamente inferiore con evocalcet, rispetto a cinacalcet (circa la metà) [32]. Risultati sostanzialmente confrontabili sono stati riportati anche  in un più recente studio randomizzato, in doppio cieco, effettuato in paesi dell’Asia orientale (Cina, Giappone, Corea, Taiwan), dove gli autori, oltre a confermare una frequenza decisamente inferiore nella comparsa di eventi  avversi gastroenterici nei pazienti in trattamento con evocalcet rispetto a quelli trattati con cinacalcet, sottolineano un sovrapponibile effetto ipocalcemizzante di evocalcet rispetto a cinacalcet [33].

Upacicalcet

Questo nuovo calcimimetico, anch’esso sviluppato in Giappone, è un farmaco somministrabile per via endovenosa come etelcalcetide e come quest’ultimo agisce legando i siti extracellulari del CaSR, che interagiscono con i vari agonisti, primo fra tutti il calcio [34, 35]. Il tipo di interazione è comunque differente tra i due calcimimetici, in quanto etelcalcetide agisce independentemente dalla concentrazione del calcio, mentre l’interazione tra upacicalcet è il CaSR è influenzata dal livello di questo catione, con l’effetto ipocalcemizzante che si attenua sino ad annullarsi per concentrazioni calcemiche al di sotto della norma [36]. Inoltre, sempre in studi sperimentali, questo nuovo calcimimetico sembrerebbe interferire con lo svuotamento gastrico in misura significativamente inferiore rispetto a cinacalcet [36]. Queste caratteristiche farebbero prevedere una maggiore maneggevolezza di upacicalcet rispetto sia ad etelcalcetide (per una possibile minore incidenza di episodi ipocalcemici severi) che a cinacalcet (per una migliore tolleranza gastroenterica). È necessario comunque precisare che, al momento, non sono disponibili dati prodotti su pazienti, con un confronto testa a testa di upacicalcet con gli altri calcimimetici già in uso. Gli studi disponibili, tutti di confronto con placebo, hanno comunque riportato un’incidenza relativamente bassa di eventi ipocalcemici, con una frequenza di disturbi gastroenterici nei pazienti trattati con upacicalcet sovrapponibile a quella dei gruppi trattati con placebo [37, 38].

Sebbene pertanto questi nuovi calcimimetici proposti  presentino prospettive di migliorare quantomeno alcuni dei limiti presentai nei farmaci dello stesso gruppo già entrati nell’uso clinico, è giusto sottolineare che gli studi al momento disponibili sono limitati sia dalla scarsa generalizzabilità, essendo stati effettuati solo in paesi dell’Asia orientali, che dalla mancanza di confronti diretti testa a testa con i calcimimetici già disponibili, rendendo difficile un’eventuale valutazione del costo efficacia comparativo. È inoltre ancora una volta necessario ricordare che anche per questi nuovi farmaci sarà auspicabile avere dati sulla loro ricaduta sugli esiti clinici ossei e sistemici.

 

Farmaci con azione ossea diretta

Come già accennato in precedenza, uno degli obiettivi principali della terapia della CKD-MBD è quello di ridurre il rischio di fratture, il principale evento clinico collegato alla patologia ossea, che nei pazienti con CKD è due-tre volte superiore a quello della popolazione generale di pari età, impattando inoltre in modo negativo anche sulla sopravvivenza, oltre che sulla qualità della vita, dei pazienti con insufficiente funzione renale [39]. È altrettanto noto che i farmaci sino ad oggi utilizzati per il controllo dei parametri biochimici nella CKD-MBD hanno avuto un limitato, se non nullo, impatto nel modificare il rischio di fratture. Per tale motivo è andato nel tempo crescendo l’interesse all’uso dei farmaci indirizzati alla prevenzione delle fratture, in uso nella popolazione generale.

Nei prossimi paragrafi saranno brevemente trattati le più importanti novità relative a questo gruppo di farmaci.

Difosfonati

I difosfonati rappresentano da decenni i farmaci maggiormente utilizzati per la prevenzione delle fratture ossee nella popolazione generale. Il loro uso è stato però fortemente limitato nel paziente nefropatico, in particolare quando il VFG è inferiore ai 30 mL/min, per un pericolo di accumulo nel tessuto osseo con conseguenze potenzialmente severe come la malattia adinamica dell’osso che può paradossalmente aumentare il rischio di fratture patologiche nei pazienti con CKD o come la necrosi a livello delle ossa mandibolari e mascellari, evento raro, ma di rilevante impatto clinico. Inoltre, il loro uso in presenza di una ridotta funzione renale può essere associato ad un maggiore sviluppo di ipocalcemia, con conseguente stimolazione paratiroidea, oltre a poter provocare un peggioramento della funzione renale e disturbi gastroenterici anche severi [40, 41]. Per tali motivi anche le ultime KDIGO pubblicate, se pure sulla base di evidenze di livello molto limitato (raccomandazione 2D), suggeriscono particolare cautela nell’uso dei difosfonati negli stadi di CKD superiori al 3a, comunque limitando questa scelta nei casi ad elevato rischio fratturante e considerando eventualmente l’esecuzione di una biopsia ossea, al fine di avere una diagnosi più precisa della patologia scheletrica sottostante [3].

Per completezza di informazione, è giusto però segnalare che da alcuni anni è in atto una tendenza a rivalutare l’uso dei difosfonati nei pazienti anche con stadi avanzati di CKD, con dati che in parte ridimensionano gli eventi avversi relativi allo sviluppo di nefrotossicità, di ipocalcemia o di sintomi gastroenterici, ascrivendo a questi farmaci anche un effetto protettivo a livello vascolare, relativamente in particolare alla progressione delle calcificazioni vascolari [42-44].

Denosumab

Risale a circa 20 anni fa la produzione di Denosumab, un anticorpo monoclonale completamente umanizzato (IgG2) diretto contro il ligando dell’attivatore recettoriale di NFkB (RANKL), proteina prodotta dagli osteoblasti. Denosumab, legandosi a RANKL, impedisce   l’interazione di quest’ultimo con il suo recettore specifico (RANK), espresso a livello della linea cellulare osteoclastica, bloccando la conseguente attivazione degli osteoclasti, con conseguente riduzione del riassorbimento osseo [46]. Tra le sue prime attese applicazioni vi è stato il suo utilizzo nei soggetti con osteoporosi nella popolazione generale [47], che, negli anni, ha consolidato i risultati di efficacia non solo nel migliorare alcuni parametri indicatori del metabolismo osseo (densitometria ossea, indicatori biochimici di riassorbimento osseo), ma anche e soprattutto nel ridurre in modo significativo il rischio di fratture ossee, con maggior efficacia rispetto ai difosfonati [48].

Viste le caratteristiche biologiche di questo nuovo farmaco, con mancanza dei problemi di accumulo presentati dai difosfonati, il suo utilizzo nei pazienti con CKD apparve sin da subito una nuova allettante opportunità [49]. Queste prospettive furono presto confermate da positivi risultati di efficacia nel suo utilizzo in pazienti con vario grado di riduzione della funzione renale, inclusi i pazienti portatori di trapianto renale [50-53].

Negli anni successivi, con l’uso sempre più diffuso e prolungato del farmaco, sono emersi alcuni problemi legati all’uso di Denosumab, non solo nella popolazione generale ma anche e soprattutto nei pazienti con CKD. Alcuni di questi problemi erano in comune con quelli descritti con l’uso dei difosfonati, come la possibilità di indurre una patologia ossea adinamica, oltre ad alcune segnalazioni di necrosi ossee mandibolari [54-57]. Tali eventi potrebbero comunque essere più gestibili nei pazienti trattati con Denosumab rispetto a quelli trattati con difosfonati, grazie alla mancanza dell’effetto di accumulo osseo che caratterizza questi ultimi farmaci, con possibilità pertanto di vedere ridurre l’effetto anti-riassorbitivo osseo in tempi relativamente brevi dopo la sospensione di Denosumab, ma non di un difosfonato.

I problemi invece di maggiore rilevanza clinica, in particolare nei pazienti con gradi avanzati di CKD o portatori di trapianto renale sono quelli che riguardano: a) una maggiore suscettibilità alle infezioni; b) episodi di ipocalcemia severa; c) rapida riduzione del contenuto minerale osseo, alla sospensione del Denosumab.

La possibilità che Denosumab possa aumentare il rischio di infezioni si basa sulla considerazione che il sistema RANKL-RANK è espresso a livello di gran parte delle cellule dell’apparato immunitario, coinvolte sia nella risposta immune innata che acquisita, concorrendo ad aumentarne l’efficacia anti-infettiva. Il blocco di RANKL con Denosumab potrebbe pertanto associarsi ad un maggior rischio di infezioni. Di fatto, i vari trial hanno in parte confermato un aumentato rischio infettivo, prevalentemente riguardo ad infezioni delle vie urinarie e sostanzialmente concentrato nelle fasi iniziali dell’uso del farmaco [58]. Questo problema potrebbe avere rilevanza clinica nei pazienti portatori di trapianto renale: nella nostra esperienza, abbiamo scelto di escludere da tale trattamento i pazienti trapiantati che avessero manifestato episodi infettivi urinari ripetuti nel periodo precedente all’indicazione all’uso di Denosumab, con il risultato di aver potuto osservare una bassa o nulla incidenza di eventi infettivi. Naturalmente, in assenza di esperienze più ampie e controllate, questo rimane un semplice suggerimento da utilizzare con atteggiamento critico e legato alla valutazione del singolo caso.

Di particolare rilievo clinico è invece il problema relativo agli eventi ipocalcemici gravi in corso di terapia con Denosumab, riportati con particolare maggiore frequenza nei pazienti in trattamento dialitico o in fasi avanzate di CKD. Un recente studio retrospettivo, condotto su un ampio numero di pazienti di genere femminile, con età uguale o superiore a 65 anni,  in trattamento dialitico cronico, delle quali 1523 erano in trattamento con Denosumab e 1281 con difosfonati per via orale,  ha riportato un’incidenza di ipocalcemia severa (< 7.5 mg/dL), richiedente in molti casi anche un ricovero, nel 41.1 % delle pazienti trattate con Denosumab, contro  il 2% di eventi simili osservati nel gruppo trattato con difosfonati per via orale [59]. Pertanto, è necessario valutare con particolare attenzione l’indicazione all’uso di Denosumab nei pazienti con CKD in fasi avanzate e in particolare nei soggetti di sesso femminile, età superiore ai 65 anni e in trattamento dialitico, evitando di trattare pazienti con livelli di calcemia e 25-OH-vitaminaD inferiori alla norma e comunque rinforzando la terapia con vitamina D e supplementazioni calciche sin dalle settimane precedenti l’inizio della terapia [60].

Il terzo altrettanto rilevante problema nell’uso di Denosumab è quello relativo all’ormai riconosciuto effetto rebound sullo stato mineralometrico osseo a seguito della sospensione del farmaco. Infatti, numerose evidenze indicano che, alla sospensione del farmaco, fa seguito una rapida demineralizzazione ossea associata ad un aumentato rischio di fratture già poche settimane dopo la sospensione [61, 62]. Questo problema rende particolarmente poco maneggevole e talvolta critico l’uso di Denosumab in pazienti con progressione del grado di malattia renale che induca, per qualsiasi motivo, a considerare la sospensione del trattamento. Al fine di quantomeno ridimensionare questo fenomeno, sono state recentemente proposte terapie sequenziali con l’uso di difosfonati, somministrati sia per via orale che endovenosa al momento  della sospensione del denosumab, che hanno ottenuto risultati parzialmente positivi [63-65].

In sintesi, sebbene Denosumab si presenti come un’ottima opportunità per ridurre il rischio di fratture scheletriche anche nei pazienti con CKD, l’indicazione all’uso deve essere valutata tenendo conto delle caratteristiche anagrafiche, biochimiche e cliniche del singolo paziente, mettendo in atto le misure precauzionali a cui si è accennato, per ridurre i rischi connessi all’uso e alla sospensione del farmaco.

Romosozumab

Sclerostina è una glicoproteina secreta dagli osteociti che, legandosi al Wnt espresso a livello della membrana degli osteoblasti, blocca le vie di segnale intracellulari secondarie all’attivazione di Wnt/BMP, inducendo una riduzione della proliferazione e dell’attività osteoblastica che si traducono in una ridotta neoformazione ossea [66]. Un decennio fa, si è reso disponibile un anticorpo monoclonale diretto contro la sclerostina, che pertanto presentava un profilo di azione molto favorevole alla stimolazione della formazione ossea, come dimostrato dai primi trial controllati [67]. L’entusiasmo per questa evidente efficacia venne però molto presto stemperata da numerose segnalazioni di eventi avversi cardiovascolari, alcuni anche mortali, che venivano riportati in particolare in soggetti con più elevato rischio di base per patologia cardiovascolare [68-70]. La considerazione che i pazienti con CKD presentano di base un rischio CV aumentato rispetto ai pari età della popolazione generale è stato certamente un fattore di freno nell’utilizzo di tale farmaco in questa tipologia di pazienti. Alcuni trial però, sebbene condotti in pazienti con una riduzione della funzione renale solo lieve o al più moderata, sembrerebbero rassicurare sia riguardo l’efficacia che la sicurezza nell’uso di Romosozumab nei pazienti con CKD [71, 72]. È comunque evidente che solo studi allargati nei pazienti con CKD in stadi più avanzati, incluso quello dialitico, potranno essere rassicuranti in termini di sicurezza. Sino a quel momento riteniamo ci si debba comportare con estrema cautela nell’uso di questo farmaco certamente promettente, riservandone l’uso a casi particolari in cui l’indicazione sia molto forte, come nel report riportato in bibliografia [73].

Teriparatide

Questo farmaco è una proteina, ottenuta con tecniche di ricombinazione genica, costituita dalla sequenza amino-acidica 1-34 del PTH, che rappresenta la porzione attiva di tale ormone, interagendo con i suoi principali recettori.  Teriparatide svolge pertanto le stesse attività del PTH, prima di tutto stimolando il riassorbimento osseo e, a seguire, la osteoformazione. Per tali caratteristiche ha trovato ampie applicazioni, oltre che nei casi di ipoparatiroidismo, anche e soprattutto nel campo dell’osteoporosi, in particolare in quelle forme con alta attività fratturante e segni biochimici di turnover osseo normale o basso [74, 75].

Sebbene il suo uso nei pazienti con CKD possa apparire contraddittorio, vista la prevalente presenza di un IPS di varia entità, è aumentata nel tempo la consapevolezza di una serie di condizioni nelle quali potrebbe esserci spazio per tale terapia. Giusto a titolo di esempio, ricordiamo che in pazienti sottoposti a paratiroidectomia totale è spesso presente un turnover osseo molto ridotto che potrebbe giovarsi di tale terapia [76]. Inoltre, un’altra possibile indicazione potrebbe essere quella presente in pazienti con CKD e livelli di PTH solo moderatamente elevati se non normali, che potrebbero non essere sufficienti a garantire un adeguato turnover osseo, determinando una condizione di basso turnover, che raggiunge talvolta il livello di una vera e propria forma adinamica dell’osso, fattore predisponente alle fratture [76]. Alcuni studi, sebbene molto limitati nel disegno e nella numerosità del campione, sembrerebbero comunque giustificare la possibilità dell’uso di Teriparatide in tali circostanze [77, 78]. Inoltre, un aumento del rischio di sviluppare fratture ossee, associato ad un turnover osseo normale o ridotto, è una condizione tutt’altro che rara nel paziente trapiantato renale, in particolare nelle prime fasi post-trapianto, quando l’esposizione ad elevate dosi di steroidi è evento frequente: alcune segnalazioni in letteratura sottolineano lo spazio terapeutico per Teriparatide in tali circostanze [79].

Per quanto riguarda un altro analogo del frammento 1-34 del PTH, Abaloparatide, accreditato di una maggiore affinità per il recettore del PTH rispetto a Teriparatide [80], i dati nel campo delle sue applicazioni nei pazienti con CKD sono molto limitati e non permettono al momento di esprimere un giudizio affidabile [81].

Globalmente parlando, è evidente che il supporto di evidenze sull’uso di questi analoghi del PTH nei pazienti con CKD è molto scarso, per cui non possono che valere le stesse raccomandazioni prudenziali nel loro uso in questi pazienti.

Vitamina K

La vitamina K svolge molteplici ruoli legati alla sua azione di cofattore nella carbossilazione dei residui di acido glutammico di numerose proteine, con la loro conseguente attivazione [82], tra le quali le più note sono quelle coinvolte nel complesso processo coagulativo ematico. Non di secondaria importanza è il ruolo svolto da una ampia serie di proteine γ-glutamil carbossilate (per citarne solo alcune, osteocalcina, MGP, GMP, etc.) che sono coinvolte sia nel mantenimento di una normale struttura e funzionalità del tessuto osseo, agendo sulle componenti cellulari (osteoblasti, osteoclasti) e matriciali, che all’inibizione del processo patologico della calcificazione vascolare [83, 84].

Il paziente con CKD si trova spesso in condizioni di deficit vitaminico K a causa di numerosi fattori: a) modificazioni della dieta, per la frequente e spesso poco giustificata riduzione dell’assunzione di alimenti vegetali, che rappresentano una delle sorgenti dietetiche principali di vitamina K1; b) modificazioni del microbiota intestinale,  che caratterizzano in particolare le fasi avanzate di CKD, con riduzione della produzione fermentativa di vitamina K2; c) il frequente uso dei dicumarolici, inibitori specifici dell’azione carbossilativa della vitamina K [85].

È lecito pertanto ipotizzare che il deficit vitaminico K possa concorrere alla patogenesi sia della patologia ossea che delle alterazioni vascolari che caratterizzano il quadro clinico della CKD-MBD [86]. Di fatto, una lunga serie di evidenze ha evidenziato una forte associazione tra deficit di vitamin K e aumento del rischio di frattura e di eventi CV nel paziente in CKD [87, 88].

Come spesso accade però, anche in questo campo, ai pur solidi presupposti fisiopatologici e ai numerosi risultati di studi di associazione, non si sono al momento affiancati risultati di studi di intervento che mostrino in modo inequivocabile un ruolo delle supplementazioni di vitamina K nella riduzione di esiti clinici relativi sia al sistema scheletrico che vascolare, vuoi nella popolazione generale e ancor meno in quella con CKD [89-91].

È pertanto improbabile che, al momento, possano essere fornite raccomandazioni basate su evidenze per suggerire una supplementazione con vitamina K e si dovrà rimanere in attesa di studi prospettici disegnati in modo tale da superare alcuni limiti metodologici, relativi al tipo e dosaggio delle supplementazioni di vitamina K, presenti nei pochi studi ad oggi disponibili, come sottolineato recentemente da alcuni autori [85].

In attesa, comunque, dei risultati di questi studi futuri, ci si potrebbe accontentare di provare a ridurre l’uso dei dicumarolici, quantomeno in alcune indicazioni che non trovano un chiaro consenso, o di un utilizzo più esteso dei nuovi anticoagulanti orali [92], che, per quanto ad oggi noto, sembrerebbero privi degli effetti negativi dei dicumarolici sia sullo scheletro che sull’apparato vascolare.

 

Conclusione

Il notevole sviluppo delle conoscenze scientifiche, anche nel campo della CKD-MBD, ha arricchito anche il paniere delle offerte terapeutiche in questo campo della Nefrologia, permettendo certamente di migliorare quantomeno il controllo dei parametri biochimici associati a tale specifica patologia. Rimangono, come già detto, numerosi aspetti e bisogni non soddisfatti, in particolare per quanto riguarda gli esiti clinici della CKD-MBD. Le ultime acquisizioni nel campo della terapia farmacologica ci forniscono qualche (modesto) avanzamento nel soddisfacimento di questi bisogni (come sintetizzato nella Figura 1).

Non dobbiamo però dimenticare che nel paziente con CKD molti fattori non direttamente connessi al metabolismo minerale sono coinvolti nel determinare l’aumentata incidenza degli esiti clinici negativi, sia ossei che cardiovascolari (la Tabella 2 raffigura alcuni di questi fattori coinvolti nella patogenesi delle problematiche ossee presenti nel paziente con CKD).

Non dobbiamo neppure sottovalutare quanto interventi non farmacologici, legati allo stile di vita, come l’abolizione del fumo, il consumo di una dieta che privilegi i cibi vegetali e, non ultima in importanza, una costante attività fisica [93], possano impattare in modo positivo sugli esiti clinici, forse anche in misura maggiore rispetto all’intervento farmacologico.

Fattori non direttamente legati al metabolismo minerale che possono influire sul rischio di frattura nel paziente con CKD
Figura 1. Fattori non direttamente legati al metabolismo minerale che possono influire sul rischio di frattura nel paziente con CKD. SNC: sistema nervoso centrale; SNP: sistema nervoso periferico
Valutazione qualitativa, basata sulle evidenze disponibili, del possibile soddisfacimento dei bisogni non soddisfatti dalla terapia
Tabella 2. Valutazione qualitativa, basata sulle evidenze disponibili, del possibile soddisfacimento dei bisogni non soddisfatti dalla terapia attualmente disponibile per la CKD-MBD da parte delle nuove proposte terapeutiche o con l’utilizzo di farmaci già da tempo in uso sulla base dei più recenti suggerimenti della letteratura. CV: cardiovascolare; EA: eventi avversi; n.a.: non applicabile + = effetto positivo; ++ = effetto molto positivo  – = effetto negativo; – – = effetto molto negativo ? = effetto non dimostrato

 

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