Protetto: Nuove strategie di trattamento nel paziente affetto da scompenso cardiaco con ridotta frazione d’eiezione: oltre l’inibizione neuro-ormonale

Abstract

I pazienti affetti da insufficienza cardiaca (HF) con frazione di eiezione ridotta (HFrEF) sono soggetti a eventi clinici caratterizzati da peggioramento dei sintomi e segni di malattia nonostante la regolare assunzione della terapia medico, un quadro definito come “peggioramento dell’insufficienza cardiaca” (WHF). Nonostante la terapia medica convenzionale sia ben consolidata, un peggioramento del quadro cardiaco è responsabile di quasi il 50% di tutti i ricoveri ospedalieri per HF, con un conseguente incremento del rischio di morte e ospedalizzazione rispetto ai pazienti con HF “stabile”. Le nuove opzioni farmacologiche si stanno caratterizzando come vere e proprie pietre miliari nella riduzione del rischio residuo di mortalità cardiovascolare e di nuovi ricoveri ospedalieri per insufficienza cardiaca.
La presente rassegna prenderà in esame la definizione emergente di WHF alla luce del recente consenso clinico rilasciato dall’Associazione per lo Scompenso Cardiaco (HFA) della Società Europea di Cardiologia (ESC) e le nuove strategie terapeutiche nei pazienti con patologia cardiorenale.

Parole chiave: Scompenso cardiaco, WHF, Sindrome Cardiorenale, Vericiguat

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Protetto: La dialisi palliativa e di supporto: stato dell’arte e proposte per una buona pratica clinica

Abstract

Per dialisi “di supporto” o “palliativa” si intende il trattamento dialitico rivolto a pazienti che giungono alle fasi più avverse di malattia e nella fase finale della loro vita. Quando le condizioni di salute, le comorbidità, la prognosi sfavorevole e le complicanze legate alla malattia renale avanzata non consentono l’avvio o la prosecuzione del trattamento dialitico standard, occorre identificare i criteri con cui proporre schemi dialitici mirati, integrati con adeguate cure di supporto, sia a pazienti incidenti che prevalenti.

Questo documento riassume le raccomandazioni nefrologiche e le evidenze scientifiche in tema di approccio palliativo alla dialisi, e avanza una proposta operativa per una buona gestione clinica della dialisi palliativa. Dopo un percorso di pianificazione condivisa della cura (“shared-decision-making”) che prevede la valutazione multidimensionale del malato, l’inquadramento prognostico e l’esplicitazione degli obiettivi personali e di salute del paziente, ha inizio un iter di cura mirato a integrare le opzioni terapeutiche disponibili, l’appropriatezza e proporzionalità della cura, e le preferenze del paziente, condivise con i suoi caregiver. Con l’obiettivo di ridurre l’impatto del trattamento dialitico sulla qualità di vita, di garantire un adeguato controllo dei sintomi, di favorire la domiciliazione delle cure e ridurre le ospedalizzazioni nella fase finale della vita, proponiamo una raccolta di indicazioni che agevolino il nefrologo nel mettere in pratica misure di proporzionalità di trattamento nelle condizioni di maggiore fragilità clinica del malato, e nel favorire un percorso decisionale e di cura ad oggi sempre più necessario nella pratica nefrologica, ma non ancora standardizzato.

Parole chiave: cure palliative, malattia renale cronica, fine vita, dialisi palliativa, emodialisi, dialisi peritoneale, pianificazione condivisa delle cure

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Infezione da West Nile Virus e malattia renale: descrizione di due pazienti in dialisi peritoneale e revisione della letteratura

Abstract

Il virus del Nilo occidentale (WNV), un arbovirus a RNA, è trasmesso dagli uccelli selvatici e veicolato da zecche e zanzare. Ha avuto un’ampia diffusione in tutto il mondo e non si trasmette da uomo a uomo. Può dare sintomi clinici solo in una minoranza di soggetti infetti come febbre, mal di testa, stanchezza muscolare, disturbi visivi, sonnolenza, convulsioni e paralisi muscolare; nei casi più gravi anche un’encefalite potenzialmente fatale. In letteratura sono presenti pochi casi di infezione da WNV in pazienti con malattie renali: qui riportiamo la nostra esperienza su due pazienti in dialisi peritoneale infetti da WNV con una revisione della letteratura.

Parole chiave: infezione da West Nile virus, malattia renale cronica, end-stage kidney failure, dialisi peritoneale, trapianto rene

Introduzione

Il virus del Nilo occidentale (West Nile VirusWNV) (Figura 1), un arbovirus a RNA, fu isolato per la prima volta in Uganda nel 1937 e in seguito si è diffuso in Europa, Asia e Australia. Nel 1996, la prima grande epidemia europea si è verificata in Romania, seguita successivamente da diverse epidemie in vari paesi dell’Eurasia, dove i virus sono attualmente endemici. Nel 1999, il WNV ha raggiunto il continente nordamericano, dove negli USA si è diffuso rapidamente diventando endemico con circa 3 milioni di individui infetti nel 2010 (780.000 che hanno manifestato la malattia) [1, 2].

Il WNV si manifesta in due distinti gruppi, l’1 e il 2, con ceppi diversi, ed è ospite di uccelli selvatici; è veicolato da zecche e zanzare e non si trasmette da uomo a uomo.

La potenziale trasmissione per via orale in un uccello predatore può spiegare la diffusione relativamente rapida del WNV, così come di altri flavivirus caratterizzati da modelli di trasmissione simili [3].

In meno dell’1% dei casi, il WNV può provocare manifestazioni neurologiche, caratterizzate da una mortalità del 10% con meningite, encefalite, paralisi flaccida acuta simile alla poliomielite e sindrome simile a Guillain-Barré. I fattori di rischio associati a peggior prognosi sono la malattia renale cronica (MRC), il cancro, l’abuso di alcol, l’ipertensione, il diabete, l’età avanzata e l’immunosoppressione [4].

Il WNV può essere trovato dopo l’infezione in vari tessuti quali cervello, linfonodi, milza e reni: il virus è stato costantemente rilevato nelle urine di pazienti durante l’infezione acuta, persistendo per un tempo più lungo rispetto al sangue. La presenza di antigeni WNV è stata rilevata anche nel rene nelle autopsie di pazienti trapiantati colpiti da WNV [5]. 

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Fibrin sheath calcifico dopo rimozione di CVC incarcerato: case report e review della letteratura

Abstract

La prevalenza dell’uso dei cateteri venosi centrali (CVC) nel trattamento emodialitico si assesta attorno al 20-30%. In questo scenario, le complicanze legate all’uso del CVC sono di comune riscontro e impegnano il nefrologo nella loro gestione. Si annoverano complicanze infettive e legate al malfunzionamento del CVC. Tra queste ultime, la formazione di una guaina fibrosa a manicotto attorno al catetere (fibrin sheath) legata alla reazione da corpo estraneo dell’organismo, può determinare con varie modalità il malfunzionamento del CVC. Anche dopo eventuale rimozione del catetere, il fibrin sheath può rimanere all’interno del lume vascolare (ghost fibrin sheath) e in rari casi andare incontro a calcificazione. Descriviamo in questo articolo il caso clinico di una paziente emodializzata cronica che, successivamente alla rimozione di un CVC malfunzionante, incarcerato, presentava, a un riscontro occasionale, una struttura tubulare calcifica nel lume della vena cava superiore, diagnosticato come calcified fibrin sheath (CFS). Questa rara evenienza, descritta in letteratura in altri 8 casi, per quanto rara è sicuramente sotto diagnosticata e può andare incontro a complicanze come sepsi per infezione del CFS, embolismi polmonari e trombosi vascolare. Gli approcci terapeutici vanno presi in considerazione unicamente nei casi sintomatici e prevedono l’approccio chirurgico invasivo.

Parole chiave: Complicazioni CVC, guaina di fibrina, fibrin sheath calcificato, catetere incarcerato, emodialisi

Introduzione

La malattia renale cronica (MRC) rappresenta un crescente problema di sanità pubblica a livello mondiale, associata a morbilità, mortalità e incremento dei costi per la sanità [1, 4]. Nel 2017 è stato stimato che circa 850 milioni di individui fossero affetti da malattia renale cronica, ovvero il doppio della prevalenza stimata del diabete a livello mondiale e oltre venti volte la prevalenza globale stimata dell’HIV o dell’AIDS [5].

I dati derivanti dallo studio Global Burden of Disease (GBD) mostrano come la prevalenza della MRC è aumentata del 19,6% nell’ultima decade [6]. Oltre a questo, come logico aspettarsi, si è osservato un incremento della prevalenza della malattia renale cronica terminale (End-stage renal disease ‒ ESRD), raggiungendo più di 2 milioni di pazienti in trattamento sostitutivo della funzione renale di cui circa l’87% in emodialisi [7]. L’aumento dell’aspettativa di vita e l’incremento di patologie croniche hanno determinato una modifica del fenotipo eziopatogenetico della MRC contando un incremento di ipertensione arteriosa, diabete e cardiopatia quali principali cause di MRC [8].

L’accesso vascolare di prima scelta adatto all’esecuzione della terapia dialitica è rappresentato dalla fistola artero-venosa distale con vasi nativi (FAV), poiché, in confronto agli innesti protesici (graft) e ai cateteri venosi centrali (CVC), presenta una minore incidenza di complicanze infettive e trombotiche oltreché una ridotta morbilità e mortalità e una maggiore durata [9, 10]. 

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Revisione ed esempio pratico dell’utilizzo del propensity score: confronto tra dieta ipoproteica e dieta mediterranea in pazienti affetti da malattia renale cronica

Abstract

Sebbene gli studi clinici randomizzati rappresentino il gold standard per confrontare due o più trattamenti, non si può ignorare l’impatto degli studi osservazionali. Ovviamente questi ultimi vengono condotti su un campione non bilanciato, per cui possono emergere differenze tra i gruppi confrontati. Queste differenze potrebbero avere un impatto sull’associazione stimata tra allocation e outcome. Per evitarlo, dovrebbero essere applicati alcuni metodi nell’analisi della coorte osservazionale.
Il propensity score (PS) può essere considerato come un valore che riassume e bilancia le variabili conosciute. Esso ha l’obiettivo di regolare o bilanciare la probabilità di ricevere un gruppo di assegnazione specifico e potrebbe essere utilizzato per abbinare, stratificare, ponderare ed eseguire un adeguamento per le covariate. Il PS viene calcolato con una regressione logistica, utilizzando i gruppi di assegnazione come variabile dipendente. Grazie al PS, calcoliamo la probabilità di essere assegnati a un gruppo e possiamo abbinare i pazienti ottenendo due gruppi bilanciati. In questo modo si darà origine ad una analisi su due gruppi ben bilanciati.
Abbiamo confrontato la dieta a basso contenuto proteico (LPD) e la dieta mediterranea nei pazienti affetti da malattia renale cronica (CKD) e li abbiamo analizzati utilizzando i metodi del PS. La terapia nutrizionale è fondamentale per la prevenzione, la progressione e il trattamento della malattia renale cronica e delle sue complicanze. Un approccio individualizzato e graduale è essenziale per garantire un’alta aderenza ai modelli nutrizionali e raggiungere gli obiettivi terapeutici. Qual è il miglior regime alimentare è ancora oggetto di discussione. Nel nostro esempio, l’analisi non bilanciata ha mostrato una significativa conservazione della funzione renale nella LPD, ma questa correlazione è stata contestata dopo l’analisi del PS.
In conclusione, sebbene l’analisi non abbinata abbia mostrato differenze tra le due diete, dopo l’analisi del propensity score non sono state rilevate differenze. Se non è possibile eseguire uno studio clinico randomizzato, bilanciare il propensity score consente di equilibrare il campione ed evitare risultati distorti.

Parole chiave: malattia renale cronica, dieta ipoproteica, matching, dieta mediterranea, terapia nutrizionale, propensity score, studi clinici randomizzati

Ci spiace, ma questo articolo è disponibile soltanto in inglese.

Introduction

Clinical investigations are mainly categorized in observational and interventional studies, the latter including randomized controlled trials (RCT) [1]. Comparative effectiveness studies belong to the family of observational studies and aim to compare two active treatments to identify which one is more efficient in improving the time course of a disease or reducing the risk of a given condition in real life (i.e., in a context different from an RCT) [2]. From this perspective, this type of study design differs from RCTs because the latter specifically contemplate ‘no intervention’ (i.e., the placebo arm).

Treatments are candidates to be investigated by a study of comparative effectiveness only when the same treatment was proved to be effective versus a control in an RCT. The main reason why these studies are considered with caution by the scientific community is the lack of randomization, which implies that the results of these studies are prone to a peculiar type of bias called ‘confounding by indication’ [3]. In a given treatment-outcome pathway, a confounder is a variable that is associated with the treatment (i.e., it differs between the study arms). It is not an effect of the treatment, does not lie in the causal pathway between the treatment and the outcome, and represents a risk factor for the outcome. In real life, a confounder can increase, reduce, or definitely obscure the true effect of treatment on an outcome. Despite these challenges, observational studies of effectiveness offer opportunities to examine questions impossible to be investigated by RCTs [4]. First, they can be used to examine the effectiveness of medication that has already obtained marketing authorization and for which funding for further trials may be limited. Second, they can allow the examination of effectiveness for rare treatment indications. Third, a large observational study can be more representative of a clinical population and less prone to selection bias than a trial.

In observational studies of effectiveness, common methods used to adjust to confounding are multiple regression models [5], the use of instrumental variables [6], and the propensity score (PS) [7]. Briefly, multiple regression analyses are performed by including in the model all variables that meet the criteria to be considered as confounders. An instrument is a variable that predicts exposure, but conditional on exposure shows no independent association with the study outcome. As an example, we can consider an observational multicenter study that evaluates how different treatments can affect a clinical outcome. The facility allocation can be considered as the result of a ‘natural experiment’ by simulating a randomization. In this manuscript, we describe an efficient statistical technique used by researchers to mitigate the problem of confounding in observational studies of effectiveness.

 

Propensity score

The propensity score (PS) was described in 1983. This method allows adjusting or balancing for the probability to receive a specific allocation group, an estimation of the likelihood of being in one or in another group in relation to a set of covariates [8]. PS could be used to match, stratify, weight, and perform a covariate adjustment. If the outcome is a binary variable, matching has less bias than stratification or covariate adjustment, as in a time-dependent outcome both matching and Inverse Probability of Treatment Weighting (IPTW) are less biased than stratification or covariate adjustment. PS is calculated with a logistic regression, using allocation groups as outcome. Thanks to this method, we can compute the probability of confounder variables to be allocated in one group. Since PS has no limits of variables, it can be used in small samples and for rare diseases [9], unlike multivariate regression.

Matching

Matching with PS methods allows us to compare one or more patients with the same allocation probability, so it follows that matched patients have similar features, decreasing bias. This method consists of matching cases of two or more groups on the basis of similar predicted PS, thus allowing the comparison of groups with an equal distribution of confounders (covariate balance) [10, 11]. Imaging having two groups of patients, at first, we need to compute PS, corresponding to the probability of receiving allocation in group A, for each one of them [12]. By doing this, a binomial logistic regression is performed to select, among the study variables, those associated with the allocation variable. Patients with the same PS value are thus compared. Minimizing the differences between patients, and comparing homogeneous groups, confounding is reduced.

Stratification

The stratification by PS follows the matching methods. Strata will be created between subjects with similar PS of treatments. The Stratification method removes about 90% of bias due to covariate imbalance [13].

Formally, stratification by PS can be resumed as follows:

  • choosing variables included in the PS model among personal data, comorbidities, laboratory data, and variables clinically related to outcome
  • estimating PS value for each subject, with logistic regression using allocation as the dependent variable
  • calculating the Cumulative Distribution Function for each subject, able to define the distribution also in a discrete and binomial variable
  • ranking population based on PS value, dividing the whole sample into quartiles, tertiles, deciles, etc., based on PS values
  • assessing balance for each of the K (K is the indicator of the treatment group), analyzing the baseline features
  • retaining the PS value ordering that creates strata with the best covariate balance and conducting a stratified outcome analysis to estimate ATE or ATT [14].

The number of strata can be evaluated based on the number of covariates (2×covariates – 1) with groups of more than ten subjects [15]. In a large observational study, Cernaro V. et al. [16], on behalf of the Workgroup of the Sicilian Registry of Nephrology, analyzed the impact of convective dialysis on mortality and cardiovascular mortality. They performed Cox Regression analysis with incremental multivariate models but, although the independent impact of convective dialysis on mortality, many other variables were related to the outcome.

Thus, as highlighted in their methods section, PS stratification was computed to perform a sensitivity analysis [17]. PS was computed through a multivariate logistic regression model including age, gender, ethnicity, arterial hypertension, diabetes mellitus, and cardiac diseases. Then, the whole sample was divided into quartiles (based on PS value) and survival analyses computed in the whole sample were repeated. These latter results confirmed the independent impact of the treatment, but in subsamples that are theoretically more homogenous because PS value was computed on the bases of the possible confounding.

Inverse Probability of Treatment Weighting (IPTW) Estimation

IPTW analyses aimed to create a weighted sample in which the distribution of each confounding variable was the same between the compared groups [18]. Patients will be allocated the reciprocal of the PS value: each patient of the treated group receives the weight of 1/PS and each patient of the untreated group receives the weight of 1/(1-PS). A treated patient with a low PS value enters in the analysis with a high weighting because he is considered likely an untreated patient in terms of comorbidities, so a valid comparison can be made between the two [19]. Practically, in the analysis, each patient is evaluated as many times as their IPTW is.  A treated patient with a PS of 0.1 will weigh 1/0.1=10 and will be considered in the analysis ten times. Similarly, a treated patient with high PS, for example 0.8, will weigh 1/0.8=1.25 and it will be considered in the analysis 1.25 times. Moreover, IPTW was at the basis of the Marginal Structured Models, a multistep estimation procedure designed to control confounding variables at different time points in longitudinal studies [20]. IPTW method is not robust against the outliers.

Covariate adjustment

This method uses the PS values as a covariate in a linear regression analysis. Even if there is no significant association between the covariates used to compute PS value and the outcome, the use of PS value as a covariate allows us to approximate the effect of each of the aforementioned covariates [21].

 

Practical example

To explain these methods, we will use a dataset containing 75 non-randomized patients with CKD stage III-IV.

All the remaining patients gave written consent to data processing for research purposes in respect of privacy. Ethical approval was not necessary according to National Code on Clinical Trials declaration and according to Italian ministerial rules of September 6, 2002 n°6, because our observation derives from a real-life retrospective study.

Patients were followed up for one year.  40 patients followed an LPD, defined by a protein intake of 0.6 g/kg/day (Group A), and 35 patients were subjected to the Mediterranean diet (Group B). The allocation, according to the real-life observation design, was based on dietician suggestions, patient’ habits, and adherence abilities, which were evaluated during the baseline visit.  Supplementary Table 1 and Table 2 summarized the details about the quantity and the nature of both diet regimens. Laboratory data were collected at the baseline visit (T0) and the annual follow-up (T1), as follows: serum urea (mg/dl), serum creatinine(mg/dl), serum phosphorous (mg/dl), serum sodium (mmol/l), serum potassium (mmol/l), white blood cells (WBC) (cc/mmc).

The groups had significant differences in BMI (28.7 [25.0, 34.7] vs 26.4 [24.0, 28.0], p=0.02), age (68 ± 9 vs 74 + 13, p=0.04), and basal creatinine clearance (33 [25, 44] vs 27 [21, 36], p=0.03). Baseline features were summed up in Table 1.

Variable Whole sample Group A (n= 40) Group B (n= 35) p
Age (years) 71 ± 11 68 ± 9 74 + 13 0.04
Sex (M/F) 45/55 40/60 49/51 0.32
BMI (kg/mq) 27.4 [24.2 – 30] 28.7 [25.0 – 34.7] 26.4 [24.0 – 28.0] 0.02
Clearance (ml/min) 31 [23 – 41] 33 [25 – 44] 27 [21- 36] 0.03
Serum Urea (mg/dl) 73 [64 -102] 75 [65 -99] 73 [60 -121] 0.84
Serum creatinine (mg/dl) 1.8 [1.5 – 2.5] 1.7 [1.4 – 2.4] 2.0 [1.6 – 2.7] 0.03
Serum sodium (mmol/L) 141 ±3.3 4.7 [4.5 – 5.0] 4.4 [4.9 – 5.2] 0.40
Serum Potassium (mmol/l) 4.74 ± 0.58 4.72 ± 0.53 4.76 ± 0.64 0.68
Serum phosphorous (mg/dl) 3.8 [3.6 – 4.1] 3.7 [3.5 – 4.0] 3.8 [3.7 – 4.3] 0.35
WBC (cc/mmc) 7744 ± 1824 7575 ± 1947 7932 ±1683 0.46
Delta_Clearance -3.50/ 0.00/ 4.00 -0.25/ 1.00/ 7.25 -5.50/-2.00/ 2.00 0.001
Table 1. Baseline features of whole sample and into the two groups. Body mass index (BMI); White blood cells (WBC).

An unadjusted model with GLM for repeated measures showed a significant effect on creatinine clearance of the Mediterranean diet compared to LPD, with an estimate marginal mean of -9.98 ml/min [95% CI], 15.6/, 4.3]. Adjusted model for age, BMI and sex (Table 2) appeared to confirm this significance in the between-group mean in the joint mean difference (‒9.34, 95%CI ‒15.44/ ‒3.24) (Table 2).

Variable F p 2
Mediterranean diet vs low protein diet ‒9.34 0.003 0.119
Sex (Male vs female) 2.71 0.104 0.038
Age (years) 0.08 0.780 0.001
BMI (kg/m2) 0.04 0.947 0.000
Table 2. Between-group mean in the joint mean differences: Adjusted GLM model for repeated measures. Body mass index (BMI).

Due to the non-randomized study design and the unbalanced groups, we decided to implement the analysis with the PS matching. We computed PS value using the treatment as dependent variable of the logistic regression, and graphically evaluated it (Figure 1). The PS values were not equally distributed between the two groups. Carrying on with the matching, choosing a caliper of 0.2, 20 patients from group A were paired with 20 patients from group B (Table 3). Unmatched patients are excluded from the analysis, reducing sample’s size. This reduction of the patients admitted in the analysis is one of the major limitations of the matching.

Analyzing the standardized means of the baseline features before and after the matching, a better balance between the two groups could be shown (Figures 2a and 2b).

GLM for repeated measures performed in the matched sample did not show significant differences between the two groups (2.737, 95%CI –4.328/9.803). Also using the covariate adjustment, that uses the whole sample, the not significant relationship between the two treatments and the clearance progression was confirmed in the GLM for repeated measures including treatment and ps-value (-3.314, 95%CI -8.524/1.897).

Figure 1. Propensity score distribution before the matching.
Figure 1. Propensity score distribution before the matching.
Group A Group B PS value group A PS value group B
1 48 0.5728 0.5990
2 56 0.5029 0.4885
3 43 0.7979 0.8133
4 53 0.2244 0.2236
5 41 0.8256 0.8244
6 65 0.2370 0.2436
8 49 0.7872 0.7496
9 47 0.7313 0.7068
10 52 0.2709 0.2670
11 66 0.5662 0.5339
12 68 0.6588 0.6768
14 71 0.6731 0.6888
15 75 0.1971 0.2084
16 39 0.6640 0.6990
18 63 0.3849 0.3833
19 55 0.4595 0.6256
21 67 0.6014 0.6256
26 45 0.4350 0.4386
27 42 0.2674 0.2947
31 60 0.4544 0.4280
Table 3. Groups composition based on Propensity Score Matching.
Figure 2a. Balance of the covariate before and after the Matching.
Figure 2a. Balance of the covariate before and after the Matching.
Figure 2b. Propensity score distribution after the Matching.
Figure 2b. Propensity score distribution after the Matching.

 

Usefulness of propensity score

A few RCTs were conducted on ERSD patients due to high costs and their difficult organization. In these cases, a well-structured comparative effectiveness study could be done to generate hypothesis or to add results to existing RCT. For Example, Chan KE et al. conducted a large observational study including more than 10000 patients, the study’s population and structure were modeled on 4D study’s methods, using the same eligibility criteria, endpoints, and similar timeline. To reduce bias caused by known and unknown variables, patients were initially matched in statin-group and control-group based on similar lipid profiles and years of dialytic treatment. Subsequently, a logistic model was performed to compute the probability of receiving the therapy, also all Cox analyses were weighted using the IPTW methods. Differently from the unmatched baseline analysis, the baseline characteristic computed after propensity scoring showed two well-balanced groups. At the outcome analysis, all HRs computed in this observational study were compared with the HRs showed in the 4D Study, and no significant differences were found between these two studies (Figure 1). Furthermore, RCTs are often smaller than observational studies, due to the stronger inclusion criteria and the higher costs than observational design. As shown in Figure 1, PS methods computed in a big sample, allowed to find a smaller confidence interval compared to 4D RCT, without significant differences in anyone outcome.

Through these comparisons, although RCTs were the lowest-biased studies, we can speculate about the effective validity of observational comparative studies using PS methods to reduce biases.

 

Limitation of propensity score methods

PS is applicable when the treatment assignment is neglectable, with unknown and unmeasured confounders. Furthermore, PS value > 0 is necessary. According to G. et Lepeyre-Mestre M. [22], propensity score methods is not very able to reduce selection bias, information bias and instrumental bias. Despite PS reducing inhomogeneity between groups, some unconsidered variables can exist, hence residual bias should be taken into account in the interpretation of results and in the critical appraisal of the study [23].

Leisman D.E. et al., resumed ten “Pearls and Pitfalls” about the use of matching method [24]. They highlighted problems regarding the reduction of sample size: the number of cases does not represent the whole sample because every unpaired subject is excluded from the analysis.  This can impair the external validity of the study, reducing its applicability. Consequently, the power of the study should be computed on the balanced sample, excluding the unmatched patients. Indeed, the analysis reflects the matched sample, losing information about the excluded cases. However, no patients were excluded by the analysis using the covariate adjustment and the IPTW. We highlighted that, similarly to our sample, no significant differences between matching and covariate adjustment were found. However, can be useful performing more PS methods, to compare the results. Furthermore, machine learning methods can be used to compute PS, and they reduce the variability of the PS.

Last but not least, a limitation of these methods is the inability to detect interaction variables. In correlated subgroup effects, these variables could indeed invalidate the PS model and should be excluded from it [25].

 

Discussion

Our analysis seemed to show a slow CKD progression in patients treated with LPD compared to patients treated with Mediterranean diet. However, the unbalanced covariate distribution between the two groups must be highlighted. Conversely to classic analysis, our result showed no difference between the two groups in matched sample, where the two groups were well balanced.

Healthy dietary habits are essential to contrast the progression of chronic diseases such as CKD and the risk factors related to its development. A tailored diet that follows patients’ eating habits can enhance compliance with nutritional therapy, improving the conservative management of CKD patients.

In patients with renal impairment, optimal eating is crucial, representing a high-impact modifiable lifestyle factor for the primary prevention of CKD progression [26], and it avoids the dysregulation of fluid status, pH, electrolytes [27, 29], chronic metabolic acidosis [30], all factors that should be corrected by an adequate dietary regimen and balanced supplementation of the missing nutrients.

Nutritional therapy can be useful to slow CKD progression and delay ESRD with a consistent improvement of the patient’s quality of life [31]. LPD should be started from GFR <30 ml/min, with a protein intake below 0.8 mg/kg/die, and it shown slower CKD progression and reduction of the mortality [32]. Rhee et al. (2018) [33] in their meta-analysis of randomized controlled trials (RCTs) found that the risk of progression to ESRD was significantly lower in patients with LPD regimens than those with higher‐protein diets, with serum bicarbonate augmentation. Notwithstanding its restrictions, LPD does not seem to impair the quality of life of CKD patients. The study of Piccoli et al. (2020) [34] on 422 CKD patients with stages III-V demonstrated that moderately protein-restricted diets (0.6 g/kg/day) guaranteed good compliance to therapy, with a median dietary satisfaction of 4 on a 1-5 scale with a minimal dropout.

The Mediterranean diet is a nutritious regimen first proposed by Keys in the mid-1980s that has been demonstrated to exert a favourable action on inflammation, CKD, cardiovascular health, and overall mortality [35, 37]. Different studies demonstrated a tight link between CKD prevention and Mediterranean diet regimen [38, 39]. How the Mediterranean diet exerts kidney protection is still under debate, and the anti-inflammatory and antioxidant effects were suggested [40, 41]. Moreover, tighter adherence to a healthy plant-based diet was associated with a slower eGFR decrease [42].

Asghari et al. (2017) [43] showed, in a six-year follow-up study, that adherence to the Mediterranean diet is associated with a reduced risk of 50% of incident CKD. These results are in line with the ones from the Northern Manhattan Study. In this cohort of patients, the patients with relatively preserved renal function and high adherence to the Mediterranean diet experienced an approximate 50% decreased odds for incidence of eGFR<60 ml/min/1.73m2.

The effectiveness of LPD compared to the Mediterranean diet is still a matter of debate. Mediterranean diet is characterized by free fat, abundant vegetables, legumes, fresh fruits, cereals, moderate wine consumption, low milk and milk products, low meat/animal products, and frequent fish. Moreover, both the Mediterranean diet and LPD are effective in the modulation of gut microbiota, reducing protein-bound uremic toxins levels, especially in patients suffering from moderate to advanced CKD.

Davis et al. (2015) [44] tried to define nutrient content and range of servings for the Mediterranean diet, analysing the variations in the quantity of this diet components in recent literature. The Mediterranean diet’s positive effects are not only limited to metabolic influence, but the conviviality, culinary and physical activity exerts a beneficial effect on mental health, ameliorating body homeostasis and reactivity to the chronic disease [45].

A diet regimen feasible in different settings is essential for adherence to nutritional therapy. Different dietetic strategies have been investigated over the years, but which is the best nutritional regimen remains controversial. Kim et al. analysed the data of 4343 incident CKD patients, during a median follow-up of 24 years and showed that higher adherence to a balanced diet was linked to a lower risk of CKD progression.

In conclusion, although our previous analysis showed differences between the two diets, after propensity match no differences were detected, as well as after the covariate adjustment methods. In the study of Hu et al. (2021) [46] adherence to healthy nutritional patterns was associated with lower risk for renal impairment progression and all-cause mortality in CKD patients. Thus, based on our results and according to the literature, the Mediterranean diet should be a good choice for patients who are not compliant with a low-protein diet, without a significant increase of CKD progression risk [47].

 

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Malattia di Kikuchi-Fujimoto: una patologia rara e sottostimata con possibile coivolgimento renale

Abstract

La malattia di Kikuchi-Fujimoto (KFD), o linfoadenite necrotizzante istiocitaria, è una malattia rara, con distribuzione mondiale ma è meglio conosciuta in Giappone e nell’Asia meridionale. La caratteristica più comune è la linfoadenopatia cervicale, accompagnata da dolorabilità o febbre alta, con sudorazione notturna, ma può anche essere asintomatica o con una gamma di sintomi molto ampia. La diagnosi è istopatologica, sulla biopsia escissionale. La malattia di Kikuchi-Fujmoto può imitare il linfoma ma anche la tubercolosi e alcune malattie autoimmuni, o essere associata a esse. È molto importante che la conosca anche il nefrologo per il suo possibile coinvolgimento renale. L’associazione con il LES è la più frequente ma non l’unica. Una diagnosi precoce di questa malattia può evitare accertamenti inutili e terapie aggressive.

Parole chiave: malattia di Kikuchi-Fujimoto, linfoadenite necrotizzante istiocitaria, coinvolgimento renale, biopsia escissionale, diagnosi differenziale

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Introduction

The Kikuchi-Fujimoto disease is a rare condition [1] discovered in 1972 by Kikuchi and Fujimoto and is also known as histiocytic necrotizing lymphadenitis. It has a worldwide distribution but is more prevalent in Japan and Asia, with isolated cases in Europe and the USA, often because it is undiagnosed. Any age can be affected; the reported cases are between 6 years and 85 years old, most often young adults under 30, with a previously overestimated female preponderance by a 4:1 ratio, but the actual ratio is about 1:1 [1]. The etiology is not clear; a viral or autoimmune cause has been suggested. The contribution of genetic or environmental factors to the development of Kikuchi-Fujimoto disease remains unclear too. KFD associated with connective tissue disease, especially systemic lupus erythematosus (SLE), causes an exacerbation of the patient’s symptoms, requiring treatment, and also reports cases with serious, potentially life-threatening sequelae.

 

Etiopathogenesis

This rare disease has an unclear etiology; both the role of infection as a trigger of lymphadenopathy and the possible autoimmune etiology are still debated. There are many pathogens associated with cases of KFD, the most frequently involved are herpes virus 6, EBV, and Toxoplasma gondii, but also Brucellosis, Bartonella henselae, Entamoeba histolytica, Yersinia enterocolitica, Parvovirus B19, Mycobacterium szulgai, and HTLV 1 [2]. KFD has also been found to be associated with Covid 19 infection [3, 4]. It is also true that KFD is often not related to any type of infection. A differential diagnosis of lymphadenopathy with many conditions is very important to avoid misdiagnosis of KFD (Table 1), as this has happened in the past when patients have received chemotherapy or tuberculosis treatments, so it is important for the histologist not to confuse KFD with lymphoma or something else.

Table 1. Etiological differences of lymphadenopathies.
Table 1. Etiological differences of lymphadenopathies.

SLE is the most common autoimmune disease in connection with Kikuchi but not the only one, KFD is fund also associated with: Polymyositis, Scleroderma, Still’s disease, Rheumatoid Arthritis, Hashimoto Thyroiditis, and Sjogren’s Syndrome; Lymphoma can also be associated with KFD. It has also been identified in the presence of a silicone implant and after vaccinations: in 2022, has been reported also the first case of KFD related to the BNT162b2 mRNA COVID-19 vaccine and the concomitant onset of hemophagocytic lymphohistiocytosis and Kikuchi disease [5].

 

Clinical manifestations

Tender cervical, unilateral or bilateral lymphadenopathy, located in the posterior cervical triangle, is the most common feature of KFD (56-98%). The enlarged lymph nodes range from 0.5 cm to 4 cm in diameter, rarely up to 6 cm [1]. Lymphadenopathy is reported as painful in about 50% of cases and generalized lymphadenopathy may be found in 1-22%; although rarely, it can be localized in the peritoneal or retroperitoneal and mediastinal area. Right hilar, axillary lymphadenopathy is also reported, as well as in the pelvic region. KFD is a cause of prolonged fever of unknown origin; fever is present in 30% to 50% of the cases and, it is associated with frequent upper respiratory symptoms and odynophagia. Less common symptoms include nausea, vomiting, headaches, arthralgia, weight loss, night sweats, and fatigue during the latter parts of the day. It is also possible that skin involvement of the face, upper limbs, and trunk may precede or accompany lymphadenopathy. The skin lesions can be of various types: urticaria, plaques, nodules, rash, and papules. In case the lesions persist skin biopsy is mandatory to rule out associated vasculitis or otherwise. Hepatosplenomegaly is rare. Nervous system involvement is also rare but possible as encephalitis, acute cerebellar ataxia, and septic meningitis.

KFD can involve heart and lungs, eyes with panuveitis, and impairment of visual acuity, although rarely. Kidney involvement is also possible, in both in the condition of multiorgan extranodal involvement and as direct damage, often not documented by renal biopsy, or it is associated with a subsequent concurrent diagnosis of SLE. Cases have been reported of KFD associated with ADPKD [6], acute pyelonephritis, and antiphospholipid syndrome. The renal involvement has been seen as either glomerular: podocyte damage or tubular damage alone or together. Activation of histiocytes by KFD may result in acute renal failure due to acute tubular necrosis and also nephrotic syndrome due to podocyte damage. There is also an association between KFD and Hemolytic Uremic Syndrome [7] with severe renal involvement confirmed by renal biopsy with diffuse endothelial damage, and arteriolar lumen obstruction, resulting in complete ischemia of the glomeruli.

 

Diagnosis

  • Laboratory test. To date, there is no specific laboratory test that aids in the diagnosis. Leukopenia is present in 30-70% of cases. Other nonspecific abnormal laboratory tests are increased erythrocyte sedimentation rate with low C-reactive protein in 30-50% of cases, anemia, and atypical peripheral blood lymphocytes, and serum hepatic transaminase activities and lactate dehydrogenase levels are also often increased. A high antinuclear antibody titer can also be The presence of ANAs and anti-DNA antibodies is significantly associated with the development of SLE.
  • Radiological Investigations. There are no radiological or ultrasound characteristics that could lead to the diagnosis. Chest Rx should always be performed to rule out tuberculosis or malignancy; CT and ultrasound are always performed but there are no imaging features that can lead to the final diagnosis, so they are important in guiding lymph node biopsy.
  • Histopathology. Surgical consultation is indicated for a diagnostic excisional lymph node biopsy. Excisional biopsy is the gold standard to arrive at the diagnosis of KSD while FNAC alone has an estimated diagnostic accuracy of about 56.3%. It is important for an experienced histologist not to confuse the histology of KSD with lymphoma or anything else. In KFD the lymph nodes demonstrate paracortical areas of apoptotic necrosis with plasmacytoid dendritic cells, karyorrhectic debris, the proliferation of histiocytes, and CD8(+) T cells but no neutrophils and infrequent B cells, no presence of Reed-Sternberg cells, relatively low mitotic rates. Three phases of evolution are found in the histology of KFD: the proliferative phase, followed by the necrotized phase, and finally the xanthomatous phase [2]. The positivity of CD8 cells highlights their role as effector and target cells, while very abundant histiocytes are enhancers; the consequent abundant apoptosis that occurs induces the necrotizing lesions.
  • The differential diagnosis between KFD and lymphoma is not difficult even if in the early stages of the disease the absence of necrosis and the abundant immunoblasts can lead to an erroneous diagnosis of lymphoma. The differential diagnosis with lymphoma is found in KFD: absence of Reed-Sternberg cells, incomplete architectural obliteration with patent sinuses, the presence of numerous reactive histiocytes, and relatively low mitotic rates. It could be difficult a differential diagnosis between KFD and SLE lymphadenitis, both can have similar clinical and histological findings. KFD often is in association with SLE; KFD may precede, occur concurrently, or follow the diagnosis of SLE, in this case, it is important to check C3, C4, anti-Sm, and LE cells to rule out SLE. Of course, the finding of lymph nodes with necrosis must rule out tuberculosis lymphadenitis, particularly in those areas of the world where it is still very frequent. In favor of the diagnosis of tuberculosis, we find granulomas with epithelioid cells and Langerhans cells, and the presence of caseous necrosis while we do not find karyorrhectic debris as in KFD. The investigation must always be completed with the search, in all cases, for special stains for acid-fast bacilli.
Figure 1. From excisional lymph node biopsy is visible abundant histiocytosis and necrosis [[8]].
Figure 1. From excisional lymph node biopsy is visible abundant histiocytosis and necrosis [8].

Prognosis

KFD is a benign, self-limiting disease, typically resolved within a few weeks to months. Its persistence in chronic is rare; there is, however, the possibility of recurrence in 3-4% of cases, the reappearance of the disease can occur from a few months up to 16-18 years from the first manifestation. The overall prognosis is good, with extremely rare complications such as Hemophagocytic lymphohistiocytosis (HLH). Although it is a self-limiting disease, a long-term follow-up, even for years, is very important, due to the possible appearance of an autoimmune disease. The most frequent is SLE, which has been reported to manifest from a few months to a few years after the onset of Kikuchi lymphadenopathy. Mortality is very rare but is possible when there is extranodal involvement, in particular when the kidney or the heart is involved due to necrosis or the lung is involved due to pulmonary hemorrhage; otherwise, mortality can be due to disseminated intravascular coagulopathy.

 

Therapy

There are no guidelines for the therapy of KFD. Asymptomatic patients are often not treated with pharmacological therapy but observed over time, ruling out association with autoimmune disease. When KFD is symptomatic, there is, generally, a benefit to nonsteroidal anti-inflammatory therapy. However, patients with atypical and refractory symptoms may require steroid therapy.

Hydroxychloroquine is also prescribed, it interferes in complement-dependent antigen-antibody reactions, and inhibits neutrophil transport and eosinophil chemotaxis. It also described the prescription of intravenous immunoglobulins, Anankira, in cases of steroid resistance.

 

Conclusions

Although rare, KFD is underdiagnosed, particularly in Europe, due to mixed non-specific symptoms at presentation and a lack of knowledge among general practitioners and specialists. It must be present in the cultural background of nephrologists, to be able to make differential diagnoses in patients with nephropathy presenting with fever of unknown etiology and cervical lymphadenopathy. This is particularly crucial in patients of Asian origin and those who are immunosuppressed, which the nephrologist is used to managing. At the moment there are very few nephrological reports of KFD in the literature, partly due to the many missed diagnoses.

Many questions still have incomplete answers: the role of infections in Kikuchi-Fujimoto disease is not known, just as the relationship between Kikuchi-Fujimoto disease and autoimmune diseases. Autoimmune diseases are often present at the time of diagnosis or may appear months or years later. Therapy also remains an open discussion: whether and when to treat with steroids and whether antibiotic therapy has any real benefit. The gold standard for diagnosis is lymph node histology with excision biopsy. A multidisciplinary clinical approach is important to achieve an early diagnosis of KFD and avoid inadequate and aggressive therapy.

 

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  6. Arvind Ganpule, Jaspreet Singh Chabra, Abhishek G. Singh, Gopal R. Tak, Shailesh Soni, Ravindra Sabnis, Mahesh Desai. Case Report: Kikuchi-Fujimoto disease: a diagnostic and therapeutic dilemma following pretransplant nephrectomy for a 2.35 Kg kidney. F1000 Research 2016, 5:1407. https://doi.org/10.12688/f1000research.8992.1
  7. Salwa Tauseeq Khan, Rubina Naqvi, Rahma Rashid, Sana Abbas Naqvi. A rare presentation of Kikuchi Disease with Hemolytic Uremic Syndrome Pak J Med 2019 Mar-Apr;35(2):586-588. https://doi.org/10.12669/pjms.35.2.735.
  8. JP Ramchandani , A Gupta , M Goh , A Dalal Kikuchi–Fujimoto disease: a rare cause of histiocytic necrotising lymphadenitis in young ethnic women Ann R Coll Surg Engl 2022; 104: e79–e80. https://doi.org/10.1308/rcsann.2021.0116.

Gestione del catetere venoso centrale nei pazienti sottoposti a trattamento emodialiatico

Abstract

Background. L’infezione del flusso sanguigno correlata al catetere (CRBSI) è definita come la presenza di batteriemia originata da un catetere venoso ed è una delle complicanze più comuni e costose, a cui spesso fanno seguito morte e setticemia.
Obiettivi. Valutare l’efficacia di specifici interventi sui tassi di riduzione di CRBSI.
Materiali e metodi. La revisione è stata svolta consultando evidenze scientifiche attraverso la banca dati PUBMED/MEDLINE utilizzando termini MeSh, operatori booleani e la consultazione di Linee Guida di settore. Sono stati selezionati e inclusi studi inerenti all’ipotesi formulata.
Risultati. I risultati hanno evidenziato che grazie ad una serie di interventi è stato possibile diminuire il rischio di CRBSI e abbassato il rischio di rimozione dei cateteri, il tasso di ospedalizzazione e il tasso di morbilità.
Discussioni e conclusioni. La corretta cura del catetere e le procedure di controllo sono i primi passi nella prevenzione delle infezioni. L’audit e l’istruzione del personale dell’unità di dialisi sono fondamentali.

Parole chiave: Catetere, infezione del flusso sanguigno, gestione del catetere per emodialisi, infermiera, linee centrali, tasso di infezione

Introduzione

La fistola arterovenosa (FAV) è considerata l’accesso vascolare ottimale per i pazienti in emodialisi perché è associata a minor rischio di infezione e minore mortalità, garantendo prestazioni migliori. Le infezioni sono considerate la seconda causa di morte nei pazienti in emodialisi e le linee guida raccomandano l’utilizzo della FAV rispetto a quello del catetere venoso centrale (CVC), affermando che quest’ultimo dovrebbe essere impiantato solo se non sono disponibili altre opzioni [1]. Nella pratica clinica, tuttavia, i cateteri venosi centrali sono ampiamente utilizzati come primo accesso vascolare e in Italia oltre il 40% dei pazienti inizia l’emodialisi con CVC, sebbene sia associato a un rischio maggiore di infezioni che includono l’exit site, il tunnel e le infezioni del flusso sanguigno (catheter related bloodstream infections, CRBSI) [1].

L’infezione del flusso sanguigno correlata al catetere (CRBSI) è definita come la presenza di batteriemia originata da un catetere venoso ed è una delle complicanze più comuni e costose, a cui spesso fanno seguito setticemia e morte [2].

Solitamente, in emodialisi vengono utilizzati CVC di tipo temporaneo, che rimangono in sede dalle 3 alle 4 settimane, quando il paziente necessita del trattamento HD ma presenta le seguenti condizioni:

– Insufficienza renale acuta (IRA) che richiede trattamento HD urgente;

– Fistola trombizzata o che esige revisione chirurgica;

– FAV assente o non ancora matura.

Altra tipologia di CVC è rappresentata da quelli tunnellizzati che compiono un tragitto sottocutaneo prima di raggiungere la vena incannulata per poi essere ancorati ai tessuti tramite una cuffia.

Questi trovano utilizzo in tutte quelle situazioni in cui la preparazione della FAV sembra impraticabile o la sua portata risulta insufficiente, in situazioni di emergenza o per altre indicazioni diagnostiche o terapeutiche. Il CVC evita così ai pazienti di sottoporsi allo stress di continui interventi, talvolta infruttuosi. Va ricordato che un CVC causerà danni al vaso in cui è stato allocato, quindi deve essere localizzato con indicazione precisa di necessità, e gestito secondo un protocollo ben definito [3].

Alcuni studi affermano che il tasso di CRBSI sia più alto nei CVC non tunnellizati rispetto a quelli tunnellizati con tassi di incidenza di 3,1-6,6 episodi/1000 giorni di catetere e 0,5-5,5 episodi/1000 giorni di catetere [4]. Contrarre una possibile infezione da CVC è una questione che può compromettere notevolmente la qualità di vita e la vita stessa del paziente emodializzato poiché alcune volte il catetere risulta essere l’unico accesso vascolare disponibile. Per questo motivo, il paziente necessita di una corretta gestione del dispositivo da parte di personale adeguatamente addestrato per prevenire tale complicanza [5].

L’assistenza infermieristica al paziente cronico in trattamento emodialitico deve essere di tipo olistico, cioè deve tenere conto del suo vissuto psicologico e della complessità clinica del caso; gli infermieri rivestono un ruolo fondamentale nella gestione, nell’informazione e nell’educazione dell’utente [5]. Il CDC di Atlanta ha messo in evidenza quanto questo ruolo sia prezioso nel rendere minima l’incidenza di CRBSI [6].

Questo studio si propone lo scopo di poter essere consultato anche come documento che possa essere utile a professionisti sanitari, studenti o anche solo a persone interessate all’argomento riguardante la gestione del catetere emodialitico. Uno dei cateteri maggiormente utilizzati in emodialisi è il catetere di Tesio. Nel 1986 Canaud e successivamente Tesio, proposero l’incannulazione della vena giugulare interna con due cateteri distinti in silicone, le cui parti terminali vengono posizionate in atrio destro, mentre le parti distali fuoriescono separatamente al di sotto della clavicola, dopo aver percorso un tunnel sottocutaneo [7]. È formato da due cannule lunghe 30 cm ciascuna con un diametro interno di 2 mm e uno esterno di 3,2 mm. I due lumi separati consentono la circolazione del sangue nel circuito extracorporeo per la dialisi allo scopo di minimizzare il rischio del ricircolo. Oggi il materiale di cui sono principalmente composti è il poliuretano per la sua ottima biocompatibilità grazie alla quale presentano un maggior rapporto diametro interno/esterno. L’inserimento di questo dispositivo avviene per via transcutanea attraverso la giugulare interna destra con tecnica di Seldinger.

 

Gestione del CVC e prevenzione delle infezioni

Le infezioni del torrente circolatorio correlate al catetere (CRBSI) sono tra le complicanze più comuni tra i cateteri venosi centrali a lungo termine nei pazienti con malattia renale all’ultimo stadio sottoposti a trattamento emodialitico [8]. Il processo infettivo può scaturire tramite contaminazioni microbiche attraverso il contatto dei microorganismi alla superficie del dispositivo con conseguente colonizzazione e formazione di biofilm. I biofilm sono colonie di microrganismi autosufficienti e irreversibilmente aderenti incorporati in una matrice esopolisaccaridica in grado di crescere autonomamente [9]. Possono formarsi sia all’interno che all’esterno di ogni tipo di catetere entro 24-48 ore dall’inserimento. Le fonti di colonizzazione del catetere sono responsabili della maggior parte delle infezioni catetere-correlate; queste sono solitamente causate da microrganismi che originano dalla cute attorno all’exit-site contaminando il catetere al momento dell’impianto e migrando lungo il tratto intradermico dopo l’impianto; anche la contaminazione dei raccordini è una delle fonti più comuni di infezione dei cateteri, in particolare di quei cateteri che sono rimasti in sede per lunghi periodi di tempo a causa della loro costante manipolazione da parte degli operatori sanitari, consentendo agli agenti patogeni di migrare lungo il lume del catetere nel flusso sanguigno [10]. Le mani degli operatori e dei pazienti sono i principali vettori di microrganismi infettivi, pertanto le linee guida insistono sul lavaggio frequente delle mani con una tecnica adeguata e sull’uso di frizioni antisettiche a base alcolica. L’igiene delle mani deve essere eseguita prima e dopo ogni contatto con un paziente portatore di CVC. Naturalmente, oltre all’igiene delle mani, l’uso di barriere protettive come guanti, maschere e telini sterili sono fondamentali durante l’inserimento e la gestione quotidiana del dispositivo [11].

Negli ultimi venti anni sono stati fatti innumerevoli sforzi al fine di ridurre il più possibile il numero e il tasso di infezioni nei CVC. Le linee guida del CDC di Atlanta [6] includono l’utilizzo di una medicazione sterile necessaria su tutti i cateteri venosi centrali, anche per i cateteri tunnellizzati cuffiati, fino a quando la sede di inserzione non risulta guarita completamente. Nella gestione e nella sostituzione delle medicazioni, bisogna rispettare sempre la tecnica asettica. L’antisettico cutaneo di prima scelta è la Clorexidina 2% e in caso di controindicazioni è possibile utilizzare uno iodoforo (iodopovidone) o alcool 70% [12]. Per la sostituzione della medicazione, se è stata effettuata con membrane semipermeabili trasparenti, va fatta ogni 5-7 giorni mentre quella eseguita con garza e cerotto sterile va sostituita almeno ogni due giorni. Bisogna inoltre rimuovere la medicazione ogni qual volta risulti bagnata, sporca o non ancorata propriamente alla cute. Negli ultimi dieci anni ha trovato impiego la colla in ciano acrilato, utilizzata per la prima volta in uno studio [13] per la stabilizzazione dei cateteri ad inserimento centrale evitando l’uso dei punti di sutura. Dopo varie ricerche e approfondimenti si è evidenziato che oltre a ridurre il sanguinamento dall’exit-site dopo le prime 24 ore dall’inserimento [14] in tutti i dispositivi di accesso venoso centrale, è in grado anche di ridurre il rischio d’infezione diminuendo la contaminazione batterica attraverso il percorso extraluminale [15].

Necessario approfondire anche il lock del CVC che generalmente viene effettuato con eparina sodica pura al fine di prevenire la formazione trombotica endoluminale. Può essere utilizzato anche il citrato, ma il suo impiego non è diffuso come quello con l’eparina. Altre raccomandazioni riguardano lo scrub degli hubs con Clorexidina 2% o alcool 70%, l’educazione e l’addestramento del personale sanitario e l’uso di locks antimicrobici. Non ostante tutte queste accortezze l’uso dei CVC per emodialisi contribuisce ad innalzare il tasso di infezioni, ospedalizzazioni e mortalità dei pazienti [16].

L’uso del CVC in dialisi è sempre più frequente con la conseguente necessità di implementare e aggiornare i protocolli operativi al fine di ridurre le complicanze, soprattutto quelle infettive, che impattano significativamente sulla mortalità dei pazienti in dialisi.

L’infermiere riveste un ruolo fondamentale, poiché egli non è solo un mero “utilizzatore” del presidio, ma è il professionista responsabile delle corrette misure preventive e dell’educazione propria, del paziente e del caregiver.

 

Strategie per la prevenzione delle infezioni catetere correlate

L’uso di un catetere venoso centrale (CVC) per l’accesso vascolare in emodialisi (HD) è una delle principali cause di infezione. L’infezione del flusso sanguigno correlata al catetere (CRBSI), definita come la presenza di batteriemia originata da un catetere endovenoso, è una delle complicanze più comuni e costose, che spesso porta alla sepsi e alla morte [2].

Sono state sviluppate numerose linee guida, INS [12], EPIC3 (2014), CDC di Atlanta (2011) per ridurre ulteriormente le infezioni correlate al catetere.

Le indicazioni includono:

– Esperienza e formazione del personale;

– Monitoraggio continuo;

– Igiene delle mani;

– Utilizzo di tecniche asettiche;

– Accurata disinfezione del sito di uscita;

– Indossare DPI, ad esempio guanti sterili, camice, maschera, occhiali, cuffie e telo sterile.

Nel corso degli anni sono stati studiati nuovi dispositivi che riducono i tassi di infezione, come l’uso di tappi rivestiti di Clorexidina che uccidono la flora batterica esistente [16]. Un’altra innovazione ha riguardato l’utilizzo di un progetto volto a formare adeguatamente gli operatori sanitari attraverso un programma computerizzato volto a far apprendere anche virtualmente tutte le tecniche e procedure per una migliore gestione dei cateteri per emodialisi come affermato nello studio redatto da Hymes [6].

Un altro tipo di intervento riguarda il tipo di lock utilizzato per impedire le infezioni catetere-correlate.

 

Materiali e metodi

La ricerca bibliografica è stata condotta dal mese di agosto al mese di dicembre 2022, consultando la banca dati di PUBMED/MEDLINE, tramite bibliografia e motore di ricerca Google. Sono stati considerati nel lavoro studi che hanno preso in considerazione l’applicabilità di tecniche per ridurre il tasso di CRBSI nei pazienti portatori di catetere. La ricerca è stata limitata ai campi “published in the last 10 years”, “humans”, “English”, “Italian”, “Full-text”. Sono stati considerati studi RCT prospettici, cluster randomizzati e studi randomizzati multicentrici che analizzano metodi e interventi per cercare di ridurre il tasso di CRBSI nei pazienti sottoposti a trattamento HD. Sono stati inclusi studi con partecipanti esclusivamente adulti, maggiori di 18 anni di età, sottoposti a trattamento emodialitico e aventi come accesso vascolare un CVC tunnellizato.

Gli studi sono stati identificati tramite ricerche bibliografiche nella banca dati elettronica PUBMED/MEDLINE utilizzando i termini Mesh “central line”, “infections rate”, “Hemodialysis catheter management”, “nurse”, “catheter”, “bloodstream infection”, combinati tramite l’operatore booleano “AND”.

Le seguenti fonti sono state consultate per identificare gli studi presi in esame:

– Pubmed

– Cochrane

– Linee guida KQOI – INS 2021

– Linee guida Gavecelt

Sono state consultate altre fonti come libri di testo di nefrologia, articoli e studi pertinenti.

Gli studi sono stati individuati da due ricercatori indipendenti, quelli non pertinenti sono stati esclusi se non corrispondenti ai criteri di inclusione sopra citati. Il lavoro di scelta degli articoli è stato coadiuvato da un terzo ricercatore.

Di tutti questi studi gli abstract sono stati estratti e il testo completo è stato recuperato per determinare quali soddisfacessero i criteri di inclusione.

L’estrazione dei dati è stata effettuata in modo indipendente utilizzando tabelle per l’estrazione dei dati.

Studi diversi dalla lingua italiana o inglese non sono stati tradotti o valutati per l’eleggibilità.

Sono stati inclusi studi primari che rispondessero ai limiti impostati e ai criteri sovraelencati, al contrario, sono stati esclusi studi che non prendessero in considerazione l’emodialisi, studi che non utilizzassero come campione pazienti con CVC tunnellizzato.

In tabella 1 si riportano le stringhe di ricerca utilizzate per la conduzione della ricerca. 

Banca Dati Parole Chiave       Limiti Referenze Referenze Selezionate Full text recuperati e analizzati
Pubmed/Medline

“central line”

AND

“Infections rate”

– Published in the last 10 years

– Humans

– English

96 3

Winnicki et al, 2018;

Kotwal et al, 2022;

Hymes et al, 2017

Pubmed/Medline

“Hemodialysis

Catheter management”

AND

“Nurse”

– Published in the last 10 years

– Humans

– English

3 1

Pun et al, 2016

Pubmed/Medline

“Catheter”

AND

“Bloodstream infections”

– Published in the last 10 years

– Humans

– English

112 2

Righetti et al, 2016;

Moghaddas et al, 2015

Tabella 1. Stringhe di ricerca utilizzate nella ricerca.

Le flow chart (Figure 1-3) sottostanti schematizzano il processo di identificazione e selezione degli studi in base alle differenti stringhe di ricerca utilizzate.

 Figura 1. Flow chart della ricerca con la stringa “Central line AND infections rate”.
Figura 1. Flow chart della ricerca con la stringa “Central line AND infections rate”.
Figura 2. Flow chart della ricerca con la stringa “Hemodialysis catheter management AND nurse”.
Figura 2. Flow chart della ricerca con la stringa “Hemodialysis catheter management AND nurse”.
Figura 3. Flow chart della ricerca con la stringa “Catheter AND Bloodstream infection”.
Figura 3. Flow chart della ricerca con la stringa “Catheter AND Bloodstream infection”.

 

Risultati

Gli studi identificati e visionati sono stati un totale di 211, dopo averne letto gli abstract ne sono stati scartati 129 e 6 sono stati presi in considerazione per l’eleggibilità. Di questi, cinque studi [1620] hanno preso in considerazione un campione di persone dai 19 anni in su portatori di catetere tunnellizzato sottoposti a trattamento emodialitico; solamente uno studio incluso [21] ha preso in esame un campione di infermieri maggiori di 18 anni di età che avevano previa esperienza con la realtà virtuale e che si erano già interfacciati con la gestione dei cateteri da dialisi e non.

Nello studio condotto da Righetti [17], sono stati arruolati 59 pazienti sottoposti a trattamento emodialitico tutti aventi CVC tunnellizato cuffiato. 30 pazienti hanno ricevuto una medicazione standard dell’exit-site e 29 hanno ricevuto una medicazione con Tegaderm. Nel corso dell’analisi si sono verificati 11 casi si CRBSI nei pazienti medicati con medicazione standard contro i soli 3 casi nei pazienti aventi ricevuto medicazione con Tegaderm (p = 0,02). Si sono inoltre riscontrate 11 infezioni dell’exit-site, 2 nei pazienti con Tegaderm e 9 nei pazienti con medicazione classica (p = 0,03). Il tasso di infezione dell’exit-site è stato meno di 1 episodio per 1000 giorni catetere uguale a 0,61. Il tasso di CRBSI è diminuito da 0,65 nei pazienti con medicazione standard a 0,09 nei pazienti riceventi medicazione con Tegaderm (p = 0,05).

Uno studio randomizzato [18] ha preso in esame 87 pazienti aventi catetere tunnellizato cuffiato riceventi trattamento emodialitico, questi sono stati randomizzati in due gruppi, il gruppo di controllo con 41 pazienti che hanno ricevuto solo eparina come soluzione lock del catetere e 46 nel gruppo sperimentale riceventi una soluzione di cotrimossazzolo + eparina.

L’analisi dei cateteri nel gruppo di controllo è stata di 12.559 giorni mentre in quello sperimentale è stata di 11.932. Episodi di CRBSI si sono verificati in 11 pazienti del gruppo di controllo (26,8%) e solamente in 2 del gruppo sperimentale (4,3%); il tasso di infezione è passato da 4,4 nel gruppo di controllo a 0,58 in quello sperimentale (p = 0,002). È inoltre stato analizzato come in 23 pazienti con un catetere appena inserito in entrambi i gruppi il tasso di CRBSI per 1000 giorni catetere è stato di 0,22 nel gruppo sperimentale e 0,56 nel controllo (p = 0,0213); la soluzione di cotrimossazzolo + eparina ha ridotto anche l’incidenza di rimozione del catetere e ha contribuito ad una sua maggiore sopravvivenza (p = 0,408).

Una comparazione tra due differenti soluzioni nel lock del catetere si può evidenziare anche nello studio condotto da Winnicki [20], in cui sono stati arruolati 106 pazienti con catetere tunnellizzato cuffiato per HD e poi divisi in due gruppi, rispettivamente 54 nel gruppo riceventi una soluzione di citrato al 4% e 52 nel gruppo con soluzione di taurolidina. Si sono verificate un totale di 6 infezioni nel gruppo con taurolidina e 18 in quello con il citrato al 4% con un tasso di infezione corrispondente a 0,67 e 2,7 per 1000 giorni catetere (p = 0,003). È stata osservata infine una migliore sopravvivenza del catetere nel gruppo che ha usato come lock la Taurolidina.

Tassi di CRBSI nettamente minori sono stati valutati anche nello studio di Hymes [16] in cui si analizzavano gli effetti del dispositivo ClearGuard, dei tappini per CVC imbevuti di Clorexidina contro dei semplici tappini standard. Il Campione preso in esame all’inizio dello studio è stato di 1229 pazienti suddivisi in due gruppi (618 nel gruppo di intervento con il ClearGuard e 611 nel gruppo di controllo con tappini standard). I risultati hanno mostrato che nella fase iniziale non vi è stata una differenza significativa tra i due gruppi (0,56 vs 0,60/1000 giorni catetere; p = 0,8) mentre nel follow-up dei 12 mesi successivi sono state evidenziate 153 emocolture positive, 46 nel gruppo sperimentale e 107 in quello di controllo calcolando così il tasso di CRBSI di 0,26/1000 giorni catetere nel gruppo di intervento e 0,59/1000 giorni catetere nel gruppo di controllo. Nel gruppo sperimentale il tasso di CRBSI è stato circa il 56% in meno rispetto a quello di controllo (p = 0,01). Sono stati anche valutati pazienti con un nuovo inserimento di catetere (678) e anche su questi è stato valutato il tasso d’infezione: 0,16/1000 giorni catetere nel gruppo di intervento e 0,50/1000 giorni catetere nel gruppo di controllo, vale a dire il 68% in meno nel gruppo sperimentale (p = 0,02). Durante il follow-up è stato valutato anche il tasso di ricoveri ospedalieri dovuti alla CRBSI che ha dimostrato un notevole miglioramento nel gruppo sperimentale: 0,28/1000 giorni catetere contro 0,4/1000 giorni catetere nel gruppo di controllo; (p = 0,04) con circa il 40% in meno.

L’analisi riportata da Pun [21] nel suo RCT ha visto coinvolti 40 partecipanti infermieri che erano già entrati a contatto con cateteri da dialisi e non. 20 partecipanti sono stati smistati nel gruppo di controllo ed hanno ricevuto spiegazioni e procedure standard secondo linee guida per la gestione dei cateteri da dialisi mentre 20 partecipanti sono stati assegnati nel gruppo sperimentale ricevendo anch’essi procedure standard ma aggiungendovi anche un programma computerizzato volto allo streaming di video esplicativi su come effettuare l’impianto e la gestione dei cateteri dialitici. Ad entrambi i gruppi è stato poi assegnato un test riguardante la conoscenza rispetto all’emodialisi e un test di competenza delle abilità in emodialisi sia prima che dopo il trattamento.

Il test di competenza comprendeva una check-list sviluppata e usata dalle strutture sanitarie partecipanti allo studio in cui le prime 17 domande riguardavano la disinfezione del catetere e il resto riguardava il flusso di sangue del catetere; il punteggio minimo da poter attribuire era di 39 e quello massimo di 195; nel gruppo di controllo il punteggio è passato da 39 nel pre-test a 113,7 nel post-test mentre nel gruppo sperimentale è passato da 39 a 149,3 (p < 0,001). Il test di conoscenza sull’emodialisi è stato sviluppato in base alle linee guida standard vigenti negli ospedali partecipanti allo studio e comprendeva un totale di 25 domande a cui rispondere in maniera aperta. Ogni domanda è stata valutata utilizzando una scala da 1 (molto irrilevante) a 4 (molto rilevante). Nel gruppo di controllo il punteggio è passato da 4,7 a 17,5 nel post-test, mentre nel gruppo sperimentale il punteggio è passato da 4,0 a 24,0 nel post-test (p < 0,001).

Un particolare studio è stato condotto da Kotwall [19] in Australia per verificare se i bundle utilizzati per la gestione dei cateteri fossero effettivamente efficaci nel diminuire l’incidenza di CRBSI. Sono stati inclusi 3.519 pazienti nella fase iniziale e 2.845 in quella di intervento. I cateteri analizzati nella fase iniziale sono stati 5.431 e 5.862 nella fase di intervento. Sono stati valutati tutti i bundle illustrati nelle linee guida nei rispettivi centri dialitici in cui sono stati osservati i cateteri; i bundle sono stati divisi nelle tre fasi dei cateteri: impianto, gestione e rimozione, è stato osservato che almeno 9 centri dialitici usano quotidianamente una medicazione antimicrobica e 3 centri hanno aggiunto una soluzione antimicrobica per il lock del catetere. Sono state osservate un totale di 315 casi di CRBSI, 158 nella fase iniziale e 157 nella fase di intervento evidenziando come l’uso dei diversi bundle non è stato efficace nel ridurre i tassi di CRBSI. L’esito del rapporto del tasso di incidenza di CRBSI dal periodo iniziale a quello di intervento utilizzando il modello di regressione di Poisson era 1,37 (IC 95% 0,85 a 2,21; p = 0,20).

Gli studi esclusi sono stati molteplici, in particolare 57. In primo luogo sono stati esclusi 34 studi che non corrispondevano con l’argomento preso in analisi; andando avanti con la ricerca sono stati eliminati 8 studi riguardanti principalmente pazienti oncologici, altre tre studi sono stati scartati poiché incentravano le loro ricerche su pazienti pediatrici e quindi non inerenti con i criteri di inclusione per la scelta del campione; infine uno studio era incentrato su pazienti ematologici ed un altro trattava di gestione delle complicanze dei CVP (cateteri venosi periferici).

Di ogni singolo studio incluso è stata valutata la presenza di errori sistematici bias con la “tabella di rischio bias” attraverso l’utilizzo del software RevMan 5.4.1. Questa prevedeva l’inserimento di 3 opzioni: basso rischio, rischio non chiaro, alto rischio, in base al tipo di bias riguardante la generazione della randomizzazione, la non conoscenza dell’allocazione al gruppo, la cecità dei partecipanti e del personale, la cecità di chi valutava l’outcome, dati dei risultati incompleti, modo di riportare dei risultati e altri bias. È stato calcolato il rischio di bias [22], analizzando, tra gli altri, i tipi di bias inerenti alla selezione dei pazienti, alla cecità degli operatori e degli assistiti, alla presenza di dati incompleti sugli outcome dichiarati. Nei bias di selezione, per la generazione di sequenze casuali il rischio è basso per il 100% degli studi presi in esame, per l’occultamento all’allocazione il rischio è incerto per circa l’80% degli studi e per il restante 20% si riscontra un alto rischio. Nel blinding dei partecipanti e del personale il rischio di bias è stato minimo per circa il 30%, incerto per il 20% e alto per il 50%, questo deriva dal fatto che nella maggior parte degli studi i partecipanti erano inconsapevoli dell’intervento che avrebbero ricevuto mentre non è stato sempre possibile occultare i gruppi al personale partecipante. Per quanto riguarda il detection bias il rischio è stato basso per solo il 20% degli studi, incerto per il 30% e alto per il 50%. Non tutti i partecipanti hanno completato gli studi, in due articoli in particolare [17, 18] ci sono stati molti drop-out per varie cause, cui ne è derivato un attrition bias incerto per il 60% ed alto per il restante 40%. Nessuno studio ha specificato che vi sia stato un reporting bias, pertanto il rischio risulta incerto al 100%.

Sono stati calcolati sia il Risk of bias summary sia il Risk of bias table, che vengono rappresentati nelle seguenti Figure 4 e 5.

Figura 4. Risk of bias table.
Figura 4. Risk of bias table.
Figura 5. Risk of bias summary.
Figura 5. Risk of bias summary.

 

Discussione

Dagli studi presi in esame si evince che la CRBSI è un fenomeno molto comune nei pazienti dializzati portatori di CVC tunnellizato, negli accessi centrali infatti l’incidenza di infezioni oscilla tra il 5% e il 26% o 2,9-11,9 casi per 1000 giorni di cateterismo [23]. Esistono però strategie per ridurre quasi del tutto la comparsa di questo fenomeno, come per esempio l’utilizzo di una medicazione sterile trasparente, il Tegaderm CHG, che crea una barriera sterile impermeabile tra l’exit-site e gli agenti esterni come fluidi, sangue, virus o batteri riducendo notevolmente il tasso di CRBSI rispetto ad una medicazione standard [24]. Lo stesso utilizzo di diverse soluzioni per la chiusura del catetere può salvaguardare la sua durata e l’infezione; generalmente il “lock” è una procedura necessaria per mantenere pervio il dispositivo ma può anche essere utilizzata per prevenire batteriemie catetere-correlate oppure per introdurre una terapia antibiotica. Il lock consiste nel riempire con una soluzione i due lumi del catetere con lo stesso esatto volume [25], principalmente in dialisi viene utilizzata come soluzione l’eparina da 1.000/10.000 UI/ml e si può utilizzare sia pura che diluita con soluzione salina.

Lo studio di Moghaddas [18] vede il confronto tra il lock con solo eparina contro il lock con cotrimossazolo + eparina evidenziando nettamente come la combinazione di questi ultimi abbia favorito la riduzione dei tassi di infezione, favorito la sopravvivenza del dispositivo e ridotto la rimozione. Esistono più soluzioni per il lock dei cateteri emodialitici [20] portando un lock con una soluzione di citrato al 4% e una soluzione di taurolidina; il lock con la taurolidina è stato più efficace nella riduzione del tasso di CRSBI favorendo anche una maggiore sopravvivenza del dispositivo rispetto al citrato. Nuove strategie e nuovi prodotti si stanno sviluppando nello scenario clinico per impedire sempre di più la contaminazione batterica del flusso sanguigno; un prodotto innovativo è certamente rappresentato dai dispositivi ClearGuard [26], dei cappucci dotati di un’asta che si estende nel raccordo del catetere per emodialisi. L’asta e la filettatura del cappuccio sono rivestite con Clorexidina, un noto agente antimicrobico ad ampio spettro. Una volta inserita l’asta in un lume riempito di liquido, la Clorexidina eluisce dall’asta nella soluzione di blocco del catetere che rimane all’interno del mozzo tra un trattamento e l’altro. In uno studio [16] sono stati messi a confronto questi tappini imbevuti di Clorexidina con dei semplici tappini da chiusura e i risultati hanno riportato un netto miglioramento nei tassi di CRBSI con l’utilizzo del dispositivo ClearGuard HD rispetto all’uso di tappini standard. Un altro campo in cui si deve investire è quello della formazione del personale proprio come dimostra lo studio di Pun [21] in cui sono stati arruolati 40 infermieri che hanno ricevuto insegnamenti sulle procedure standard sulla gestione dei cateteri per HD e in aggiunta il gruppo sperimentale ha ricevuto anche delle video lezioni che mostrassero tutti i vari passaggi su come gestire al meglio il dispositivo. Ad entrambi i gruppi sono stati somministrati questionari pre- e post-test ed è stato appurato che il tasso di competenza e di comprensione è stato alto in entrambi in gruppi, ma nettamente più alto nel gruppo che ha ricevuto sia le spiegazioni sui protocolli che le video lezioni delle procedure. Non sempre invece i vari bundle utilizzati per la gestione dei dispositivi sono efficaci quanto dovrebbero, come è emerso da uno studio recentissimo condotto in Australia [19]. Questo studio ha visto coinvolti pazienti da 37 centri dialisi australiani; ad ognuno di questi pazienti sono stati assegnati dei bundle nella fase di inserzione, mantenimento e rimozione del catetere, per esempio: nella fase di inserzione sono stati impiantati i cateteri quasi prevalentemente nella giugulare interna destra considerata la via migliore, usando prevalentemente la modalità eco-guidata; nella fase di mantenimento è stata utilizzata una medicazione antimicrobica o un lock con soluzione antimicrobica o ancora l’uso di Clorexidina al 2% per l’antisepsi della cute dell’exit-site; nella fase di rimozione non sono stati mantenuti cateteri femorali in sede per più di 5 giorni oppure i dispositivi sono stati rimossi non appena risultavano clinicamente non più necessari.

L’osservazione di tutte queste tecniche ha fatto comunque modo che si sviluppassero casi di infezioni catetere-correlate, dunque alcune volte l’utilizzo delle procedure standard non riesce ad impedire il tasso di infezioni.

 

Conclusioni

Molte risorse sono state dedicate alla lotta contro le CRBSI nei pazienti portatori di catetere per emodialisi. Tuttavia, la CBRSI rimane un problema significativo che colpisce i pazienti cronici e gli operatori sanitari a causa delle conseguenze della malattia e dell’impatto sulla mortalità. La corretta cura del catetere e le procedure di controllo sono i primi passi nella prevenzione delle infezioni. L’audit e l’istruzione del personale dell’unità di dialisi sono fondamentali.

Inoltre, i dispositivi più recenti come il ClearGuard HD possono essere presi in considerazione per prevenire queste infezioni in primo luogo. 

studio Righetti et al, 2016
metodi RCT
partecipanti 59 pazienti (>18 anni) sotto trattamento emodialitico con CVC. 30 hanno ricevuto medicazione standard; 29 hanno ricevuto medicazione con Tegaderm.
interventi Medicazione con Tegaderm vs medicazione standard.
outcome Tassi di CRBSI
Risultati Nel corso dell’analisi si sono verificati 11 casi si CRBSI nei pazienti medicati con medicazione standard contro i soli 3 casi nei pazienti aventi ricevuto medicazione con Tegaderm (p = 0,02). Il tasso di CRBSI è diminuito da 0,65 nei pazienti con medicazione standard a 0,09 nei pazienti riceventi medicazione con Tegaderm (p = 0,05).

 

studio Winnicki et al, 2018
metodi RCT
partecipanti

106 pazienti scelti per l’eleggibilità; 54 sono stati assegnati al gruppo del citrato come lock del catetere mentre 52 sono stati assegnati al gruppo del

lock con taurolidine.

interventi taurolidine- citrato in combinazione con eparina vs citrato 4% come      lock del catetere.
outcome Tasso di CRI; tasso di complicazioni e morbilità dei pazienti dialisati con catetere.
Risultati Si sono verificate un totale di 6 infezioni nel gruppo con taurolidina e 18 in quello con il citrato al 4% con un tasso di infezione corrispondente a 0,67 e 2,7 per 1000 giorni catetere (p = 0,003).

 

studio Pun et al, 2016
metodi RCT
partecipanti 40 infermieri sono stati reclutati per la gestione dei cateteri per HD. 20 sono stati assegnati al gruppo di controllo in cui hanno ricevuto insegnamenti e le procedure standard per la gestione dei cateteri da emodialisi e 20 al gruppo sperimentale che hanno ricevuto le procedure standard più il programma di training computerizzato
interventi Gestione dei cateteri con procedure standard vs gestione dei cateteri con procedure standard + il programma di training   computerizzato
outcome Efficacia nella gestione dell’exit-site; tasso di CRBSI.
Risultati Il test di competenza comprendeva una check-list sviluppata e usata dalle strutture sanitarie partecipanti allo studio in cui le prime 17 domande riguardavano la disinfezione del catetere e il resto riguardava il flusso di sangue del catetere; il punteggio minimo da poter attribuire era di 39 e quello massimo di 195; nel gruppo di controllo il punteggio è passato da 39 nel pre-test a 113,7 nel post-test mentre nel gruppo sperimentale è passato da 39 a 149,3 (p < 0,001). Il test di conoscenza sull’emodialisi è stato sviluppato in base alle linee guida standard vigenti negli ospedali partecipanti allo studio e comprendeva un totale di 25 domande a cui rispondere in maniera aperta. Ogni domanda è stata valutata utilizzando una scala da 1 (molto irrilevante) a 4 (molto rilevante). Nel gruppo di controllo il punteggio è passato da 4,7 a 17,5 nel post-test, mentre nel gruppo sperimentale il punteggio è passato da 4,0 a 24,0 nel post-test (p < 0,001).

 

studio Moghaddas et al, 2015
metodi RCT multicentrico
partecipanti Pazienti sono stati assegnati in modo casuale: 46 hanno ricevuto eparina (2500 U/ml) (gruppo di controllo) o una miscela di 10 mg/ml di cotrimossazolo (a base di trimetoprim) e 41 hanno ricevuto 2500 U/ml di eparina (gruppo antibiotico) come lock dei cateteri.
interventi lock con eparina vs lock con 10 mg/ml cotrimossazolo e 2500 u/ml eparina.
outcome CRBSI
Risultati Episodi di CRBSI si sono verificati in 11 pazienti del gruppo di controllo (26,8%) e solamente in 2 del gruppo sperimentale; il tasso di infezione è passato da 4,4 nel gruppo di controllo a 0,58 in quello sperimentale (p = 0,002).

 

studio

Kotwall et al, 2022

metodi RCT a cluster multicentrico
partecipanti Partecipanti sopra i 18 anni che richiedevano trattamento HD; 3519  nella fase iniziale e 2845 nella fase di intervento.
interventi

Uso di bundle nelle tre fasi del cateterismo: inserimento, manutenzione e rimozione.

Inserimento del catetere: sono state eseguite tutte le procedure di asepsi come il lavaggio delle mani, indossare i DPI, installare i cateteri nella giugulare interna destra considerata il sito in inserzione migliore, evitare i cateteri nella vena succlavia a causa dell’incidenza della stenosi della vena centrale, evitare i cateteri femorali quando possibile.

Manutenzione del catetere: igiene delle mani, guanti sterili, camice e una tecnica asettica (igiene delle mani, guanti) devono essere applicati in tutte le occasioni di accesso al catetere, utilizzo di una soluzione antisettica che abbia almeno il 2% di clorexidina con il 70% di alcool, la medicazione deve essere cambiata almeno ogni sette giorni e ogni volta che la medicazione appare visibilmente sporca o allentata.

Rimozione del catetere: i cateteri devono essere rimossi non appena viene accertato clinicamente che non sono più necessari ed entro un massimo di due settimane dal loro ultimo utilizzo, i cateteri non tunnellizzati dovrebbero essere sostituiti con cateteri tunnellizzati il prima possibile, i cateteri femorali non tunnellizzati non devono essere posizionati per più di cinque giorni e i cateteri degli arti superiori non tunnellizzati non devono essere posizionati per più di sette giorni, i cateteri devono essere rimossi quando ci sono segni di infezioni correlate al catetere, tranne in casi attenuanti.

outcome

Tasso di CRBSI per 1000 giorni di utilizzo del catetere, tra la fase di iniziale e quella di intervento.

Tre erano gli esiti secondari:

1-    CRBSI sospetta o possibile, definita come qualsiasi rimozione del catetere per HD a causa di una sospetta infezione con emocolture negative o positive.

2-    il tasso di infezione totale del flusso sanguigno, definito come qualsiasi episodio di CRBSI confermato, sospetto o possibile.

3- tutti gli eventi infettivi, comprese le infezioni al sito di uscita.

Risultati Sono stati osservati un totale di 315 casi di CRBSI, 158 nella fase iniziale e 157 nella fase di intervento evidenziando come l’uso dei diversi bundle non è stato efficace nel ridurre i tassi di CRBSI. L’esito del rapporto del tasso di incidenza di CRBSI dal periodo iniziale a quello di intervento utilizzando il modello di regressione di Poisson era 1,37 (IC 95% 0,85 a 2,21; p = 0,20).

 

studio Hymes et al, 2017
metodi Trial randomizzato prospettico a cluster multicentrico
partecipanti In totale 2470 pazienti reclutati da 40 centri fresenius; 1245 nel gruppo di intervento usando il dispositivo Clear Guard HD e 1225 nel gruppo di controllo con tappini standard
interventi Uso dei tappini antimicrobici ClearGuard vs tappini standard
outcome Tasso di BSI
Risultati

Nella fase iniziale non vi è stata una differenza significativa tra i due gruppi (0,56 vs 0,60/1000 giorni catetere; p = 0,8) mentre nel follow-up dei 12 mesi successivi sono state evidenziate 153 emocolture positive, 46 nel gruppo sperimentale e 107 in quello di controllo calcolando così il tasso di CRBSI di 0,26/1000 giorni catetere nel gruppo di intervento e 0,59/1000 giorni catetere nel gruppo di controllo. Nel gruppo sperimentale il tasso di CRBSI è stato circa il 56% in meno rispetto a quello di controllo (p = 0,01).

Allegato 1. Tabelle sintesi degli studi inclusi.

 

Bibliografia

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  16. Hymes, J. L., Mooney, A., Van Zandt, C., Lynch, L., Ziebol, R., & Killion, D. (2017). Dialysis Catheter-Related Bloodstream Infections: A Cluster-Randomized Trial of the ClearGuard HD Antimicrobial Barrier Cap. American journal of kidney diseases: the official journal of the National Kidney Foundation, 69(2), 220–227. https://doi.org/10.1053/j.ajkd.2016.09.014
  17. Righetti, M., Palmieri, , Bracchi, O., Prencipe, M., Bruschetta, E., Colombo, F., Brenna, I., Stefani, F., Amar, K., Scalia, A., & Conte, F. (2016). Tegaderm™ CHG dressing significantly improves catheter-related infection rate in hemodialysis patients. The journal of vascular access, 17(5), 417–422. https://doi.org/10.5301/jva.5000596
  18. Moghaddas, A., Abbasi, M. R., Gharekhani, A., Dashti-Khavidaki, S., Razeghi, E., Jafari, A., & Khalili, H. (2015). Prevention of hemodialysis catheter-related blood stream infections using a cotrimoxazole-lock technique. Future microbiology, 10(2), 169–178. https://doi.org/10.2217/fmb.14.116
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La tossicità da mezzo di contrasto iodato e la sua prevenzione

Abstract

Il mezzo di contrasto iodato viene ampiamente usato nella pratica clinica, dalla diagnostica per immagini alle procedure radiointerventistiche ed endovascolari. Il paziente nefropatico risulta essere maggiormente suscettibile (rispetto alla popolazione con normofunzione renale) al danno d’organo indotto o associato al contrasto. Tuttavia tale condizione predisponente all’insufficienza renale non può rappresentare un limite o un ostacolo alla diagnosi o ai trattamenti endovascolari. Nonostante la letteratura prodotta nell’ultimo quinquennio, appaiono ancora controverse le modalità di gestione e di approccio ai pazienti nefropatici, dall’uso del contrasto all’utilizzo dei trattamenti sostitutivi la funzione renale, che spesso erroneamente vengono considerati come parte delle strategie di prevenzione.

Sebbene in letteratura l’argomento sia ampiamente dibattuto, nella pratica clinica si assiste spesso all’incertezza degli specialisti che lascia intendere una perfettibile gestione della somministrazione del mezzo di contrasto e delle richieste di consulenza nefrologica. Concomita, inoltre, una diffusa difficoltà nel distinguere il danno renale acuto post-contrastografico (Post-contrast Acute Kidney Injury, PC-AKI) dal danno renale acuto indotto dal mezzo di contrasto (Contrast-induced Acute Kidney Injury, CI-AKI).

La review che presentiamo vuole fornire un aggiornamento sull’argomento, fornendo le strategie per la riduzione del rischio di danno renale acuto dopo la somministrazione di mezzo di contrasto, strategie che prevedono l’identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio, la scelta di mezzi di contrasto e dei dosaggi appropriati, la sospensione di farmaci nefrotossici, il follow-up dei soggetti ad alto rischio e l’identificazione precoce dell’AKI.

Parole chiave: mezzo di contrasto, danno renale acuto, prevenzione, idratazione

Introduzione

Il danno renale acuto (Acute Kidney Injury, AKI) è caratterizzato dal brusco declino, spesso reversibile, della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) [1].

Nel novero degli agenti patogeni in grado di configurare l’AKI, l’impiego di mezzi di contrasto iodati è ben codificato.

La definizione di Post-contrast Acute Kidney Injury (PC-AKI) è il termine generico che dovrebbe essere usato quando si verifica un improvviso deterioramento della funzionalità renale entro 48 ore dalla somministrazione intravascolare di mezzo di contrasto iodato [2]. È da applicare a quelle situazioni in cui non è stata eseguita una valutazione clinica dettagliata per altre potenziali eziologie di AKI o in cui altre cause di AKI non possono essere ragionevolmente escluse. Tale definizione fa riferimento, dunque, all’incremento della creatinina o alle diminuzioni della velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR) dopo l’esposizione al contrasto e che può o meno essere causato direttamente dal mezzo di contrasto [2].

Si preferisce, invece, l’uso della definizione “Contrast-induced acute kidney injury” (CI-AKI) per indicare le situazioni nelle quali il danno renale si verifichi entro le 48 ore dalla somministrazione del mezzo di contrasto iodato e sia causalmente collegato alla somministrazione di mezzo di contrasto. La presenza di un nesso causale tra esposizione al mezzo di contrasto e AKI può essere giudicata solo dopo un’approfondita valutazione clinica che permetta l’esclusione di altre potenziali cause di AKI. Se dopo tale valutazione non vengono identificate altre cause all’infuori dell’esposizione al contrasto, è appropriato in questi casi utilizzare il termine CI-AKI [2].

 

Scopo dello studio

Nonostante la letteratura prodotta nell’ultimo quinquennio, dal confronto con gli altri specialisti appaiono ancora controverse le modalità di gestione e di approccio ai pazienti nefropatici, dall’arruolamento all’uso di contrasto, all’utilizzo dei trattamenti sostitutivi la funzione renale, che spesso erroneamente vengono considerati come parte delle strategie di prevenzione.

Il nostro studio ha lo scopo di presentare una revisione aggiornata della letteratura sulla nefropatia legata al mezzo di contrasto, seguendo le linee Guida Internazionali PRISMA [3], dalla definizione alla fisiopatologia, epidemiologia e strategie di prevenzione, valutando l’entità del problema allo stato dell’arte attraverso il confronto con le linee guida Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) [1], European Society of Urogenital Radiology (ESUR) [4], American College of Radiology (ACR) [5]; diversi articoli sono stati prodotti nell’ultimo periodo su questo argomento e l’evoluzione delle conoscenze fisiopatogenetiche così come  le modifiche apportate dalle ultime linee guida in riferimento alle strategie preventive per la CI-AKI hanno suggerito l’opportunità di produrre un manoscritto rivolto in particolare ai nefrologi clinici che giornalmente si confrontano con questa sentita problematica.

 

Materiali e metodi

Per la stesura di questa review è stata eseguita una ricerca bibliografica sui database di Pubmed, Scopus e Web of Science, utilizzando le parole chiave ((venous AND/OR arterial contrast media [Title/Abstract]) AND (nephropathy [Title/Abstract])).

Due revisori indipendenti (S.C. e G.D.) si sono occupati, in prima battuta, di selezionare i titoli attinenti all’argomento utilizzando i seguenti criteri di inclusione:

  1. pubblicazioni peer-reviewed con dati originali;
  2. lingua inglese o italiana;
  3. accesso ai dati principali del lavoro mediante testo completo o mediante abstract.

I criteri di esclusione sono stati:

  1. lingua diversa da inglese ed italiano;
  2. lavori degli stessi Autori ripetuti.

I due revisori indipendenti hanno dunque selezionato gli studi per l’inserimento nella revisione. I titoli sono stati valutati per rilevanza e i risultati delle due ricerche bibliografiche sono stati confrontati risolvendo, mediante dibattito tra i due revisori indipendenti, le eventuali controversie sui titoli da includere nella stesura finale della review. I lavori originali che presentavano i criteri di inclusione stabiliti sono stati selezionati per una revisione più dettagliata.

Il dibattito tra gli autori è stato espletato mediante metodo Delphi, utile per validazione del consenso della validità interna al fine di evitare possibili bias [6].

Nel corso del documento si farà riferimento a “mezzo di contrasto” intendendo il mezzo di contrasto iodato: il mezzo di contrasto paramagnetico e quello ultrasonografico esulano dagli scopi di questo lavoro.

 

Risultati

La ricerca, condotta attraverso i sopracitati motori di ricerca, ha permesso di identificare inizialmente 168 titoli. Sono stati identificati, inoltre, 59 titoli aggiuntivi a partire dalle referenze bibliografiche degli stessi articoli summenzionati.

Dopo lettura ed eliminazione degli articoli duplicati, degli articoli non focalizzati sul topic, non in lingua inglese o italiana, con dati non originali, sono stati riportati in discussione 163 articoli (Figura 1).

Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.
Figura 1. Risultati presentati secondo diagramma PRISMA.

La riduzione del rischio di danno renale legato all’infusione di mezzo di contrasto rappresenta l’obiettivo degli specialisti nella quotidiana pratica clinica. Diversi autori concordano sulla necessità di individuare i fattori di rischio in grado di impattare sulla funzione renale e di stabilire un protocollo infusionale coerente con le esigenze volemiche del paziente che, senza compromettere la sua emodinamica, ponga in essere una valida strategia di prevenzione.

 

Limiti epidemiologici

L’epidemiologia relativa al danno renale da mezzo di contrasto iodato appare confusa e i dati forniti in letteratura sono spesso tra di loro discordanti, con una variabilità circa l’incidenza del danno renale che spazia dall’1,3% al 33,3% [7]. Tali differenze trovano giustificazione nell’inclusione o esclusione dagli studi di soggetti che presentano vari fattori di rischio concomitanti, e dal tipo e volume del mezzo di contrasto iodato somministrato. Non trascurabile fenomeno di confondimento che complica la dimensione del problema è l’utilizzo improprio, spesso in maniera indifferente, delle definizioni di PC-AKI e di CI-AKI, a causa della storica fusione dei due termini. Ampi studi retrospettivi condotti su coorti di pazienti ad alto rischio, sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, hanno riportato un’incidenza di PC-AKI elevata, con incidenza maggiore per la via intra-arteriosa (procedure endovascolari, riperfusioni, coronarografie) e minore per la via venosa [8], mentre parallelamente l’incidenza di CI-AKI è risultata essere, nel complesso, trascurabile per valori di eGFR > 30/ml/1.73m2 [5].

 

Fattori di rischio

Numerosi sono i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza di AKI nei pazienti sottoposti ad infusione di mezzo di contrasto. Alcuni di essi sono legati alla storia clinica del soggetto da sottoporre all’infusione endovenosa di mezzo di contrasto e riguardano la funzione renale preesistente, le comorbidità associate e la concomitante terapia assunta. Altri, invece, riguardano le caratteristiche ed il volume del mezzo di contrasto (Tabella 1).  Ipertensione arteriosa, insufficienza renale, diabete mellito, storia di precedenti infarti del miocardio, età, frazione di eiezione ventricolare sinistra <40% sono noti fattori di rischio di AKI dopo esposizione a mezzo di contrasto iodato [9].

Fattori di rischio legati al paziente Fattori di rischio legati ad agenti chimici Fattore di rischio legato ad agenti nefrotossici
eGFR <30ml/min/1,73m2 Mezzo di contrasto ad elevata osmolarità Uso concomitante di sostanze nefrotossiche (NSAIDs, aminoglicosidi, ACEI, ARB, biguanidi)
Età>65 anni Quantità di mezzo di contrasto utilizzato
Ipertensione Infusioni ripetute di mezzo di contrasto
Anemia
Scompenso cardiaco
Stato settico  
Diabete    
Tabella 1. Fattori di rischio per danno renale da mezzo di contrasto.

Fattori di rischio legati alla storia clinica del paziente

Il rischio di PC-AKI aumenta con ogni aumento graduale dello stadio di chronic kidney disease (CKD), per cui il rischio di PC-AKI risulta di circa il 5% in pazienti con eGFR maggiore o uguale a 60; 10% a eGFR con 45-59; 15% con eGFR di 30-44; 30% con eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 [5]. Il rischio di PC-AKI è molto più alto del rischio di CI-AKI in quanto include tutte le condizioni nelle quali si verifica una riduzione della perfusione renale, spesso conseguenza di insufficienza cardiaca, ipovolemia, instabilità emodinamica o di farmaci che influiscono sull’emodinamica renale [10] coincidenti con la somministrazione di mezzi di contrasto [5]. Nel già citato lavoro di Wilhelm-Leen et al. [11], la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un rischio più elevato di PC-AKI se coesistono i seguenti quadri patologici: sepsi (35,8% contro 32,9%), polmonite (16,3% contro 12,7%), infezione del tratto urinario/pielonefrite (17,4% contro 15,7%), peritonite (31,4% contro 28,9%), sanguinamento gastrointestinale (16,8% contro 13,8%), esacerbazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva (16,3% contro 15,1%) e pancreatite acuta (16,4% contro 8,2%). In generale, le differenze di rischio tra i gruppi erano piccole: circa il 2-3% assoluto, 15-20% relativo. L’eccezione notevole è stata la pancreatite acuta: per questi pazienti la somministrazione di mezzo di contrasto è stata associata a un raddoppio del rischio di PC-AKI. Per molti altri stati patologici, i pazienti che hanno ricevuto il mezzo di contrasto hanno manifestato un tasso inaspettatamente più basso di PC-AKI: esacerbazione dell’insufficienza cardiaca (16,6% contro 19,0%), endocardite (16,4% contro 19,9%), sindrome coronarica acuta (SCA) (6,4% contro 17,4%), tromboembolismo venoso (6,9% contro 9,2%) e ictus/incidente cerebrovascolare (6,7% contro 7,5%). Lo studio retrospettivo monocentrico condotto da Hinsen et al. [12] eseguito su un totale di 82.729 pazienti sottoposti a TC con o senza mezzo di contrasto in 5 anni (dal 2009 al 2014), aveva come outcome primario l’incidenza di CI-AKI e come outcome secondario dialisi e trapianto renale a 6 mesi. In tale studio, l’incidenza di AKI è risultata paragonabile in tutti i gruppi. La somministrazione di mezzo di contrasto iodato non è stata associata ad una maggiore incidenza di AKI (odds ratio per i criteri di nefropatia indotta da mezzo di contrasto = 0,96, intervallo di confidenza al 95% da 0,85 a 1,08; e odds ratio per i criteri Acute Kidney Injury Network/Kidney Disease Improving Global Outcomes = 1,00, 95% intervallo di confidenza da 0,87 a 1,16) tra i vari sottogruppi, indipendentemente dalla funzione renale al basale. Inoltre, la somministrazione di contrasto non è stata associata ad una maggiore incidenza di malattie renali croniche, dialisi o trapianto renale a 6 mesi.

Il rischio di CI-AKI è sostanzialmente inferiore al rischio di PC-AKI, ma rimane incerto nei pazienti con End Stage Kidney Disease (ESKD) che rappresenta la più grave condizione clinica di rischio predisponente la CI-AKI; sebbene diversi studi osservazionali controllati non abbiano mostrato evidenza di CI-AKI indipendentemente dallo stadio di CKD preesistente [13], altri hanno trovato evidenza di CI-AKI solo in pazienti con funzionalità renale gravemente ridotta (eGFR <30 ml/min/1.73m2) [14]. L’incidenza di CI-AKI nella popolazione con funzionalità renale normale è molto bassa (cioè 0-5%), tuttavia è segnalata come 12-27% nei pazienti con CKD preesistente e fino al 50% nei pazienti allo stadio IV-V secondo KODQI [11].

Nella metanalisi di Mc Donald JS et al. [13], il rischio di CI-AKI, in assenza di fattori di rischio associati, è stato stimato essere trascurabile per eGFR maggiore o uguale a 45 ml/min/1,73 m2; 0-2% per eGFR di 30-44 ml/min/1,73 m2 e 0-17% per eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2. Questa metanalisi, comunque, presenta importanti limiti in quanto: non stratifica il rischio nei pazienti sulla base della preesistente CKD (gli autori stessi mettono in evidenza questo limite, verosimilmente legato ad un non omogeneo campionamento dei pazienti sulla base della CKD); sono osservazionali; molte delle analisi sui sottogruppi includono studi poco numerosi risultando, pertanto, probabilmente sottodimensionate.

Accanto all’insufficienza renale preesistente, altre condizioni patologiche quali il diabete, l’età avanzata (≥80 anni), l’ipertensione, l’insufficienza cardiaca congestizia, la sepsi e l’anemia possono aumentare l’incidenza di PC-AKI, le complicanze a breve e lungo termine e la mortalità dei pazienti [15].

Fattori di rischio legati al mezzo di contrasto iodato

Le proprietà fisico-chimiche del mezzo di contrasto, come la sua osmolalità e viscosità, svolgono un ruolo determinante alla patogenesi del danno renale correlato al mezzo di contrasto. L’osmolarità indica la concentrazione di particelle in una soluzione ed è espressa in osmoli di particelle di soluto per litro di soluzione (Osm/L). Con osmolalità, invece, si intende il numero particelle per unità di peso (mOsm/kg). Il mezzo di contrasto si divide in tre tipi in base alla sua osmolalità, ovvero ad alta osmolarità (HOCM), iso-osmolare (IOCM) e a bassa osmolarità (LOCM).

Nel corso degli anni il mezzo di contrasto ha subito una progressiva evoluzione. Per maggiore approfondimento si rimanda al lavoro di Wallingford [16].

I mezzi iso-osmolari sono l’ultima forma di contrasto utilizzata in quanto hanno la stessa osmolalità del siero umano e, sebbene vengano definiti da diversi autori come meno nefrotossici rispetto a quelli iper/ipo-osmolari [17], conclusioni simili non trovano il consenso unanime della letteratura.

Non ci sono differenze clinicamente rilevanti confermate dalla letteratura circa il rischio di PC-AKI tra i mezzi di contrasto a bassa osmolalità (LOCM) e i mezzi di contrasto a iso-osmolarità (IOCM) per applicazioni endovenose [18]. L’evidenza indiretta suggerisce che il LOCM iohexolo possa avere un rischio maggiore rispetto ad altri LOCM, sebbene la potenziale differenza di rischio non sia stata confermata [18].

Di avviso diverso sono, ad esempio, gli studi di Rudnick et al., che non hanno riscontrato differenze nell’insorgenza di PC-AKI dopo la somministrazione di IOCM rispetto al LOCM [19]. Davenport et al. [20], in un lavoro volto a determinare se il mezzo di contrasto iodato a bassa osmolalità somministrato per via endovenosa fosse associato a PC-AKI post-tomografia computerizzata (TC), hanno confrontato 19 covariate tra 17.652 individui, giungendo alla conclusione che il mezzo di contrasto iodato ipotonico ha un impatto significativo sull’insorgenza di AKI sia dopo TC che dopo angiografia (P=0,04) nei pazienti con preesistente insufficienza renale e creatinina sierica > 1,5 mg/dl.

Sulla base delle evidenze fornite dallo stesso Davenport, in una revisione sistemica del 2020, è probabile che qualsiasi differenza nel rischio di PC-AKI tra LOCM e IOCM non sia clinicamente significativa [5].

Differenze clinicamente significative sono state dimostrate, invece, negli studi randomizzati che hanno confrontato il comportamento di LOCM e IOCM nelle somministrazioni intra-arteriose ed endovenose [18]: nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di secondo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore destro e nelle arterie polmonari o direttamente nelle arterie carotidee, succlavia, brachiale e mesenterica, nonché nell’aorta sottorenale e nelle arterie iliache e femorali, raggiunge le arterie renali dopo la diluizione; questa somministrazione presenta lo stesso rischio della somministrazione endovenosa (più basso) [21]. Nella somministrazione intra-arteriosa con esposizione renale di primo passaggio, il mezzo di contrasto iniettato nel cuore sinistro, nell’aorta addominale toracica e surrenale e selettivamente nelle arterie renali, raggiunge le arterie renali durante il primo passaggio; i pazienti sottoposti a queste procedure presentano frequentemente comorbidità, per quanto sia difficile distinguere gli effetti dovuti alla somministrazione del mezzo di contrasto da quelli dovuti ad altre cause concomitanti, come, ad esempio, nelle procedure interventistiche endovascolari, il rischio di malattia ateroembolica renale [22, 23].

Per quel che concerne le eventuali differenze nella metodologia di somministrazione del mezzo di contrasto sul rischio di sviluppare una CI-AKI, in uno studio di McDonald et al. [24] viene riportata nei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco (somministrazione intra-arteriosa) un’incidenza sostanzialmente più elevata di AKI, dialisi e mortalità post-procedurale rispetto a quella di pazienti sottoposti a studio angiografico o a TC con mezzo di contrasto (somministrazione endovenosa). Inoltre, l’incidenza di AKI dopo la procedura è stata stimata essere del 10-50% [25], mentre l’incidenza generale di AKI dopo la TC con mezzo di contrasto è stata riportata tra il 5-20% [26]. È stato ipotizzato che questo possa essere dovuto all’utilizzo di una maggior quantità di mezzo di contrasto nelle procedure intrarteriose, a un maggior rischio di dislocazione di ateroemboli e, non ultimo, a maggiori comorbidità dei pazienti sottoposti a procedure intra-arteriose [27].

Nessuno studio ha confrontato direttamente il rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM: si ritiene che non vi siano differenze clinicamente rilevanti nel rischio di CI-AKI tra LOCM e IOCM [28].

Fattori di rischio legati ad agenti nefrotossici

Altro potenziale fattore di rischio di danno renale dopo somministrazione intra-arteriosa di mezzo di contrasto iodato è rappresentato dai farmaci nefrotossici. Tra questi farmaci annoveriamo:

  • gli antinfiammatori non steroidei (NSAIDs), che alterando l’emodinamica dei vasi renali causano fibrosi interstiziale renale;
  • gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone, come gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-i) e i bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB), gli inibitori del recettore dell’angiotensina-neprilisina (ARNI), gli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MRA), i quali, provocando una riduzione del eGFR, rallentano la clearance del mezzo di contrasto. Inoltre, l’angiotensina II è in grado di indurre la produzione del transforming growth factor β1 (TGF-β1) che presenta attività potenzialmente protettiva sulla necrosi delle cellule tubulari prossimali renali, perde tale potere induttivo sul TGF-β1 (e quindi la conseguente nefroprotezione), una volta inibita dal sistema renina-angiotensina-aldosterone;
  • gli aminoglicosidi presentano diversi gruppi amminici sulla molecola che conferiscono loro una carica cationica a pH fisiologico. Di conseguenza, le molecole di aminoglicoside si legano prontamente ai fosfolipidi anionici all’interno della membrana plasmatica del tubulo prossimale in modo elettrostatico saturabile. L’affinità relativa di un aminoglicoside per la membrana plasmatica del tubulo prossimale è correlata alla nefrotossicità osservata nella pratica clinica [29].
  • la metformina; in questo caso l’eliminazione del farmaco avviene principalmente a livello renale tramite trasportatori localizzati nel tubulo prossimale. Per tale motivo la concentrazione plasmatica della metformina aumenta nel corso dell’insufficienza renale cronica. A livello urinario non sono stati rinvenuti metaboliti della metformina ma esclusivamente farmaco immodificato. La complicanza più temuta è l’acidosi lattica che consegue all’assunzione di tale farmaco nel contesto della malattia renale cronica [30].
    Le linee guida ACR del 2018 suggeriscono che, nei pazienti ritenuti ad alto rischio di CI-AKI in trattamento con metformina che devono essere sottoposti all’infusione di mezzo di contrasto iodato, il farmaco debba essere temporaneamente sospeso al momento dello studio o subito prima, e deve essere sospeso per almeno 48 ore [31]; tale indicazione è stata confermata – negli stessi termini – anche dalle linee guida ESUR, che peraltro precisano la possibilità di proseguire il trattamento con metformina dopo aver escluso alterazioni della funzione renale a 48 ore [4].

 

Fisiopatologia del danno renale

Il meccanismo fisiopatologico alla base del danno renale non è stato completamente chiarito. Diversi fattori agiscono attraverso molteplici pathways, sostenendo la genesi del danno renale (Figura 2).

Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.
Figura 2. Fisiopatologia del danno renale da mezzo di contrasto. NOS: ossido nitrico sintasi; Na+/K+: pompa sodio potassio.

Sicuramente il mezzo di contrasto ha effetti tossici diretti sulle cellule epiteliali tubulari renali e può indurre apoptosi e necrosi a causa delle sue proprietà fisico-chimiche. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali (Figura 3) e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare.

Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K
Figura 3. Danno esercitato dal mezzo di contrasto sulla pompa Na+/K+. Il danno renale è caratterizzato dalla perdita di polarità cellulare dovuta alla ridistribuzione delle pompe Na+/K+, che sul fronte basolaterale delle cellule epiteliali tubulari diminuiscono mentre aumentano sul lato della superficie luminale, comportando l’incremento del trasporto di ioni sodio ai tubuli contorti distali e così lo spasmo dei vasi sanguigni renali attraverso il feedback tubuloglomerulare. Come conseguenza si verificherebbe l’incremento della pressione intravasale, la diminuzione del GFR e l’ostruzione del lume tubulare. MEZZO DI CONTRASTO: mezzo di contrasto; HCO3-: ione bicarbonato; A.C: anidrasi carbonica; CO2 anidride carbonica, ATP: adenosin-trifosfato; H+: ione idrogeno; Na+: ione sodio; K+: ione potassio; H2CO3: acido carbonico.

Altro meccanismo indiretto attraverso cui si determina il danno renale, risiede nella capacità del mezzo di contrasto di aumentare la produzione di radicali liberi dell’ossigeno (riducendo l’attività biologica cellulare) e di promuovere la perossidazione dei lipidi. Riducendo l’attività degli enzimi antiossidanti e della superossido dismutasi, favorisce la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), che causano danni alle cellule epiteliali tubulari renali e alle cellule adiacenti. L’aumento dei ROS induce la produzione di agenti vasocostrittori (come l’endotelina) e determina l’inibizione dell’attività della ossido nitrico sintasi (NOS) e della prostaciclina sintasi, portando, così, alla riduzione di sostanze vasodilatatrici (come ossido nitrico, NO, e prostaciclina, PGI2) nel plasma e, di conseguenza, alla riduzione della perfusione renale e all’ipossia cellulare [33]. Per quanto la vascolarizzazione della corticale midollare renale rappresenti solo il 10% del flusso sanguigno renale, le cellule epiteliali nel segmento spesso ascendente dell’ansa di Henle svolgono un lavoro metabolicamente stressante rendendosi particolarmente suscettibili agli insulti ischemici ed ipossici che occorrono nel corso di tali fluttuazioni del circolo perfusorio. Inoltre, il mezzo di contrasto può aumentare la viscosità del sangue, rallentare il flusso sanguigno microcircolatorio e influenzare la pressione osmotica del sangue, riducendo così la plasticità dei globuli rossi e aumentando il rischio di microtrombosi [34].

 

Prevenzione del danno renale

La PC-AKI complica circa il 7% di tutti gli interventi coronarici percutanei (PCI). Nello 0,3% dei casi richiede l’avvio del trattamento dialitico, si associa all’incremento degli eventi avversi quali morte, infarto del miocardio e sanguinamento, che si traducono nell’allungamento della degenza media e nell’aumento dei costi negli USA (rispettivamente circa 3,6 giorni e $ 10.000) [35].

Idratazione fissa e idratazione controllata

L’idratazione costituisce il metodo di profilassi più diffuso nonché il più efficace nella prevenzione di PC-AKI e CI-AKI [36], in quanto il mantenimento dell’euvolemia impedisce l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico e del sistema renina-angiotensina, contrastando la vasocostrizione renale esercitata dal mezzo di contrasto, diluendo quest’ultimo all’interno del lume tubulare renale, riducendo il tempo di contatto con le cellule tubulari renali [37].  È noto come la sola somministrazione di liquidi per os non sia sufficiente all’ottenimento di un’adeguata prevenzione di tale rischio: pertanto è necessario l’utilizzo di soluzioni per infusione endovenosa [38]. Le linee guida del 2015 sulla sindrome coronarica acuta, le linee guida della Società Europea di Cardiologia del 2018 sulla rivascolarizzazione del miocardio e diversi autori concordano nel dire che l’idratazione per via endovenosa è raccomandata nei pazienti con un eGFR <60 ml/min/1,73 m2 nelle 12 ore antecedenti e nelle 24 ore successive la procedura [39].

Ciononostante, persistono controversie circa la tipologia di soluzione da adottare nella terapia di idratazione e i volumi da infondere. Attualmente, la somministrazione di soluzioni all’1,4% di bicarbonato di sodio [40] e allo 0,9% di soluzione fisiologica rappresenta la prima scelta nella grande maggioranza delle situazioni. Seppure precedenti studi abbiano evidenziato come la somministrazione endovenosa di bicarbonato di sodio sia più efficace della soluzione salina nel ridurre l’incidenza di PC-AKI, nessuna differenza è stata identificata tra le due soluzioni in un recente studio multicentrico su un totale di 5.177 soggetti condotto da Weisbord et al. [41]. L’utilità e la praticità di impiego del bicarbonato trova giustificazione nelle meta-analisi di Meier [42] e in quella più recente di Zhang [43] dalle quali emerge il vantaggio dato dalla correzione dell’acidosi nelle condizioni in cui non è possibile eseguire un’idratazione prolungata, quali le procedure d’emergenza. Inoltre, l’impiego del bicarbonato di sodio rimane più efficace rispetto all’infusione di ringer [44]. Ulteriori controversie riguardano più specificatamente la dose da infondere. Diversi studi sono concordi su protocolli di idratazione fissa: il protocollo di idratazione a base di bicarbonato di sodio consiste in un’infusione di circa 150 mEq/l di soluzione di 3 ml/kg/h da somministrare in un’ora prima dell’esposizione del mezzo di contrasto e in un’infusione di 1 ml/kg/ h nelle 6 ore successive; tale protocollo si differenzia per durata da un tipico protocollo di idratazione salina con un’infusione di 1 ml/kg/h da 6 a 12 ore prima e un ulteriore infusione di 1 ml/kg/h per ulteriori 6-12 ore dopo l’esposizione al mezzo di contrasto [45], ma la necessità di tenere in considerazione anche le caratteristiche del singolo paziente, quali funzione cardiaca, equilibrio idro-elettrolitico, acido base e comorbidità, nonché i rischi di un’overload di fluidi, hanno portato alla necessità di sviluppare un nuovo approccio basato sul concetto di idratazione controllata [46]. È noto infatti come infusioni eccessive possano aumentare il rischio di insufficienza cardiaca, aritmia e morte a breve termine nei pazienti ad alto rischio. Tra le possibili modalità di implementazione di una strategia di idratazione controllata potrebbe figurare l’uso di parametri emodinamici quali la pressione venosa centrale (PVC), la pressione telediastolica del ventricolo sinistro (LVEDP), la collassabilità della vena cava [47], la bioimpedenzometria e il volume urinario [48]. A tal riguardo è estremamente stimolante il lavoro pubblicato da Azzalini et al. “LVEDP-Guided Versus UFR-Guided Hydration for CA-AKI Prevention: Should We Be Guided by Our Heart or Kidneys?” [35], che contrappone alla one-size-fits-all hydratation protocolli di idratazione personalizzati e basati sulla reale volemia del paziente.

Un’interessante mediazione tra l’esigenza di idratazione e il rischio di overload è rappresentato dal sistema RenalGuard (RenalGuard Solutions, Milford, Massachusetts), un dispositivo che consente di ottimizzare la resa dell’espansione volemica facendo corrispondere al volume infuso l’output urinario (urine flow rate [UFR]-guided hydration) [35]. Al priming del sistema fa seguito un bolo di soluzione salina (circa 3 ml/kg in 20-30 min) e furosemide (0,25 mg/kg), così che, mantenendo un’elevata produzione di urina, il mezzo di contrasto possa essere rapidamente eliminato, salvaguardando il tubulo dai suoi effetti deleteri. Al paziente viene somministrata la prima dose di contrasto quando la diuresi supera i 300 ml/h. Trial randomizzati controllati [49] hanno dimostrato una drastica riduzione in termini di PC-AKI e necessità di terapia sostitutiva con l’approccio basato sull’UFR, rispetto ai regimi di idratazione fissa. Briguori et al. hanno, inoltre, verificato che rispetto alla terapia di idratazione fissa, la terapia di idratazione controllata con sistema RenalGuard ha portato ad una ridotta incidenza di edema polmonare (RR: 0,56, IC 95%: 0,39-0,79, P=0,036) [50]. Lo stesso autore [51], in uno studio condotto su 4 centri italiani (REMEDIAL II) ha dimostrato che il trattamento con RenalGuard è superiore alla sola terapia con bicarbonato di sodio e alla N-acetilcisteina nella prevenzione del danno renale acuto indotto dal mezzo di contrasto nei pazienti ad alto rischio. Convergono verso lo stesso orientamento lo Studio Pilot [52], lo Studio Mythos [53] che conclude come lo stimolo diuretico associato a un’idratazione adeguata riduca significativamente il rischio di nefropatia da contrasto se paragonato alla diuresi indotta dalla sola cauta idratazione e lo Studio Modena [54].

Viceversa, nessuna differenza nella capacità di ridurre l’incidenza di PC-AKI rispetto ai protocolli standard veniva evidenziata nel trial randomizzato controllato monocentrico di Nissan et al. Gli autori concludevano che 8 pazienti su 307 (2,6%) non sottoposti ad idratazione controllata sviluppavano PC-AKI, vs 8 pazienti su 296 (2,7%) sottoposti ad idratazione controllata che sviluppavano PC-AKI: pertanto, l’idratazione controllata non sembrava ridurre l’incidenza di PC-AKI (P=0,4710) [55].

– Potenziali vantaggi dell’idratazione controllata

È di interesse la possibilità di impostare quanto il bilancio idrico debba essere positivo (in pazienti disidratati) o negativo (in pazienti con sovraccarico idrico). In assenza di un dispositivo che permetta di valutare oggettivamente i volumi di infusione e l’outcome urinario, la valutazione rimane soggettiva e dipende unicamente dall’intuito dell’operatore. Il ricorso a un’idratazione controllata, come riportato dai su citati studi di Briquori et al., porta alla riduzione dell’incidenza dell’edema polmonare e dell’aggravamento dei quadri di scompenso cardiaco.

La metanalisi condotta da Prasad et al., su 10 studi relativi all’uso di RenalGuard in pazienti ad alto rischio, ha mostrato come l’impiego dell’idratazione controllata oltre che essere associato ad una significativa riduzione del rischio di PC-AKI rispetto al gruppo di controllo, si associava alla riduzione della mortalità, della dialisi e degli eventi cardiaci avversi maggiori (MACCE) rispetto al controllo [56].

– Limiti dell’idratazione controllata

Tra i limiti all’impiego dell’idratazione controllata possiamo annoverare il costo elevato dei dispositivi che li rendono – qualora a disposizione nelle aziende – in numero estremamente esiguo rispetto alle reali necessità dei clinici.

Altre strategie di prevenzione

In seno alle strategie di prevenzione del danno renale conseguente all’infusione di mezzo di contrasto, la letteratura offre un’ampia rosa di possibilità, più o meno efficaci, sulle quali l’opinione degli autori sono spesso contrastanti.

– NAC

Tra tutte le molecole associate alla prevenzione per la nefropatia da contrasto spicca la N-acetilcisteina (NAC). Si tratta di un importante agente riducente contenente un gruppo sulfidrilico, noto per le spiccate proprietà antiossidanti in grado di promuovere la sintesi del glutatione e regolare il metabolismo cellulare. Essa possederebbe, quindi, poteri antiossidanti. Inoltre, NAC sembra promuovere il rilascio di NO e ridurre la produzione di angiotensina inibendo l’attività degli enzimi ACE (vedi Fisiopatologia del danno renale).

Le meta-analisi che esaminano la NAC come molecola protettiva nel corso di infusione di mezzo di contrasto hanno prodotto risultati discordanti che dimostrano come l’eterogeneità dei dati forniti dai vari autori possa essere correlata alle diverse definizioni di PC-AKI  / CI-AKI, alle compresenza di fattori di rischio e ai valori di creatinina di base della popolazione in studio.

Se da una parte è tangibile l’entusiasmo degli autori [57] che tributano alla NAC ampia fiducia nella profilassi del danno renale da mezzo di contrasto, si è assistito ad un graduale disamoramento fino a restare ai margini delle strategie di prevenzione per l’incoerenza dei dati ottenuti [58].

È opinione di Xie et al. che la NAC possa ridurre significativamente l’incidenza di AKI dopo l’angiografia (OR: 0,78, IC 95%: 0,68-0,90, I2 = 37,3%) [57]. Nessun dubbio sulla validità dei suoi poteri nefroprotettivi, da sola o accompagnata ad altre molecole quali vitamina C, sodio bicarbonato, statine, per Kaj et al. [59].

Di altro avviso è lo studio prospettico presentato da Palli et al. Gli autori hanno dimostrato che l’incidenza di nefropatia non differiva tra il gruppo NAC (1200 mg) e il gruppo placebo (P=0,81) [60]. Concorda con Palli il più ampio studio randomizzato pubblicato da Weisbord et al. che non ha dimostrato differenze significative tra i 4993 pazienti ad alto rischio di complicanze renali sottoposti ad angiografia, trattati con NAC orale rispetto al placebo per la prevenzione della morte o per la prevenzione del danno renale acuto da contrasto [41].

Anche il beneficio della NAC per via endovenosa rimane incerto e il confronto tra i vari studi è difficile a causa delle differenze nelle popolazioni di pazienti e del dosaggio o della mancanza di un gruppo di controllo adeguato. Il lavoro di Biernaka et al. elogia le proprietà nefroprotettive del NAC in somministrazione endovenosa nella prevenzione del danno renale nel contesto di infusione di mezzo di contrasto [61]. Secondo uno studio pubblicato da Marenzi et al., il 7% dei pazienti che hanno ricevuto alte dosi di NAC per via endovenosa ha sviluppato reazioni anafilattoidi [62]. Secondo Khatami et al., nei pazienti con malattia renale cronica, la somministrazione di NAC tanto per via endovenosa quanto per via orale non è superiore al placebo per prevenire il danno renale [63]. La somministrazione della NAC in associazione ad altre molecole è ancora oggetto di discussione e spesso non trova spazio nella sperimentazione umana. Per quanto riguarda l’associazione NAC ed acido ascorbico, valutata da Feng et al. [64], questa non suggerisce vantaggi rispetto alla sola somministrazione della NAC. L’associazione, invece, tra acido ascorbico e bicarbonato di sodio ha dimostrato effetti protettivi da CI-AKI nei pazienti sottoposti a cateterismo arterioso per coronarografia [65].

– Inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5

Minore eco nell’ambito della prevenzione della nefropatia da contrasto hanno avuto altre molecole che mai hanno raggiunto la dignità di un uso diffuso nella pratica clinica. Tra queste è possibile citare sildenafil e tadalafil: in uno studio pubblicato da Iodarche et al. [66], il pre-trattamento con sildenafil e tadalafil, testati sui ratti maschi Widar modulando lo stress ossidativo, ha ridotto il rischio di danno renale da contrasto suggerendo che gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (PDE5I) possono essere buoni candidati in base alla loro capacità di modulare l’equilibrio ossidante/antiossidante. Il febuxostat, un inibitore della xantina ossidasi indicato nel trattamento della gotta e dell’iperuricemia cronica, ha trovato espressione favorevole tra le strategie preventive del danno renale da mezzo di contrasto negli studi di Ma et al. [67]. Rimane controversa l’efficacia di alprostadil. Tale molecola svolge un ruolo nel mantenimento e nella ridistribuzione del flusso sanguigno intrarenale e nell’escrezione di elettroliti e acqua. Una metanalisi pubblicata nel 2019 ha messo a confronto trentasei articoli (5495 pazienti in totale) e sembra dimostrare che, per i pazienti trattati con alprostadil 48-72 ore prima della somministrazione di mezzo di contrasto, l’incidenza del danno renale risultava essere sensibilmente inferiore rispetto al controllo (6,56% vs 16,74%) [68]. Le speranze riposte sull’alfa-tocoferolo, come valido protettore della creatinina e del eGFR contro i danni cagionati dal mezzo di contrasto, sono state presto ridimensionate dallo studio prospettico controllato condotto su 201 pazienti con malattia renale cronica (eGFR <60 ml/min) sottoposti ad angiografia coronarica e presentato da Samadi et al. nel 2020, che ha dimostrato come la somministrazione di alfa-tocoferolo non abbia alcun effetto benefico additivo rispetto alla soluzione fisiologica isotonica nella prevenzione della nefropatia da contrasto, nei pazienti con insufficienza renale cronica [69]. Sebbene l’alcalinizzazione delle urine potrebbe avere un razionale come effetto protettivo nei confronti della CI-AKI, l’infusione di soluzioni a base di citrato Na/K non ha dato risultati utili a dimostrarne la validità [70].

La trimetazidina è stata descritta come un agente anti-ischemico cellulare in grado di prevenire gli effetti deleteri dell’ischemia-riperfusione sia a livello cellulare che mitocondriale ed esercitare un effetto antiossidante. Essa inibisce il rilascio eccessivo di radicali liberi dell’ossigeno, limita l’acidosi cellulare, protegge le riserve di adenosina trifosfato (ATP), riduce la perossidazione lipidica di membrana ed inibisce l’infiltrazione dei neutrofili. La somministrazione di tale molecola alla dose di 35 mg due volte al giorno per os, combinata ad una cauta idratazione oppure ad altre molecole come il Coenzima Q10, è entrata recentemente nel novero delle sostanze utili a prevenire o ridurre l’incidenza di CI-AKI nel contesto delle procedure di angiografia coronarica in pazienti con insufficienza renale lieve-moderata [71]. Rispetto alla sola idratazione convenzionale [72], la trimetazidina sembra ridurre significativamente l’incidenza di CI-AKI e il livello di creatininemia nel postoperatorio, suggerendo un potere protettivo superiore alla sola idratazione convenzionale per il trattamento della CI-AKI che sfrutta l’incremento del metabolismo del glucosio nel rene e la riduzione dell’ossidazione degli acidi grassi, con un effetto protettivo sul danno dei radicali liberi renali e sul danno da ischemia-riperfusione [73]. Tuttavia, a causa dell’esiguità campionaria degli studi presenti in letteratura, è ancora necessario condurre trial clinici multicentrici, randomizzati e in doppio cieco per confermare il ruolo svolto dalla trimetazina nella prevenzione della CI-AKI.

– Antagonisti del recettore dell’adenosina

Sul piano della prevenzione della CI-AKI, recentemente hanno trovato spazio i vasodilatatori, come gli antagonisti del recettore dell’adenosina [74], il sarpogrelato [75], la dimetilarginina asimmetrica e l’amlodipina, in quanto possono ridurre l’ischemia midollare renale indotta da mezzo di contrasto mitigando la vasocostrizione renale. Altro vasodilatatore descritto in letteratura nella prevenzione della CI-AKI è il Nicorandil [76].

– Statine

Un discorso a sé stante meritano le statine che, oltre al noto potere ipolipemizzante, possiedono effetti antinfiammatori interferendo con la produzione di ossigeno attivo ed eliminando i radicali liberi. Inoltre, sono in grado di attivare le cellule progenitrici endoteliali per proteggere i vasi sanguigni [77].

La rosuvastatina e l’atorvastatina sembrano ridurre l’incidenza di PC-AKI e possedere un analogo potere protettivo [78] se somministrate ad alte dosi (rosuvastatina 40 mg, atorvastatina 80 mg) [79].

Per quanto non sia possibile trovare un consenso unanime tra gli autori, nel complesso la letteratura supporta gli effetti pleiotropici benefici dell’uso di statine sulla PC-AKI, per quanto, comunque si rendano necessari ulteriori studi clinici randomizzati per confermarne l’utilità clinica [80].

– Altro

Altre molecole hanno raggiunto la dignità della pubblicazione, sebbene non abbiano mai trovato applicazione nella pratica clinica e i risultati prodotti non siano concordi. Tra queste gli agonisti del recettore dell’adiponectina (AdipoRon) [81], la pentossifillina [82], l’antitrombina III [83], l’inibitore della C1-esterasi umana ricombinante [84], il tolvaptan [85], il Terz-butil-idrochinone [86], la quercetina [87], il probucol [88], l’allopurinolo [89], la prostaglandina E1 [90], le erbe medicinali cinesi [91], la silimarina (silibina, silicristina, silidianina), principio attivo del Silimarin, estratto dalla pianta officinale Sylibum Marianum [92], il timochinone [93], la ligustrazina [94], la curcuma [95], il resveratrolo [96], gli omega 3 [97] e per ultimo l’agonista del glucagon-like peptide receptor Exentina-4 [98], una molecola simile alle incretine che si trova nel veleno del Mostro di Gila, uno strano sauro dalla coda tozza del nord America.

Da ultimo, il campo della prevenzione del danno da mezzo di contrasto subisce il fenomeno del Precondizionamento Ischemico Remoto, o Remote Ischemic PreConditioning (RIPC), riconosciuto in diversi trial come alternativa alla terapia standard in termini di miglioramento dei livelli di creatinina sierica dopo somministrazione del mezzo di contrasto in pazienti a rischio. Il fascino discreto del fenomeno RIPC, come strumento di prevenzione della CI-AKI, risiede nella possibilità di istruire a livello molecolare l’organismo, sottoponendolo, mediante brevi cicli d’ischemia/riperfusione, a stress e danno sub-letale, in modo da ottenere protezione qualora sopraggiungessero stimoli potenzialmente letali tramite l’induzione di un fenotipo stress-resistente [99].

– Ruolo della dialisi

Frequentemente accade che il nefrologo venga consultato non solo per la stratificazione del rischio di CIN e per consulto sulle strategie preventive, ma anche per concordare sedute emodialitiche supplementari o non programmate per pazienti sottoposti a procedura con mezzo di contrasto. In realtà, non esiste nessuna evidenza di migliori outcome nei pazienti sottoposti a seduta emodialitica post-contrastografica e questa pratica è scoraggiata da ultime linee guida ESUR [4].

 

Discussione

La letteratura, come è possibile documentare con il corposo numero di articoli portati in discussione in questo paper, è ricca di lavori scientifici dedicati al danno renale da mezzo di contrasto.  In nome della PC-AKI e del CI-AKI sono state investite incalcolabili risorse umane e finanziarie, volte sia allo studio di una eterogenea pletora di sostanze finalizzate alla prevenzione, sia alla gestione delle conseguenze collaterali relative ai pazienti cui viene negata la procedura diagnostica o terapeutica con mezzo di contrasto. La stima del rischio di nefropatia da mezzo di contrasto può essere sopravvalutata in letteratura e sopravvalutato dai medici. Stime più accurate del rischio di AKI che tengano conto delle comorbidità possono migliorare il processo decisionale clinico quando si tenta di bilanciare i potenziali benefici dell’imaging con mezzo di contrasto ed il rischio di AKI. Un’accurata raccolta anamnestica (CKD, AKI pregresse, diabete, scompenso cardiaco, ipovolemia, infarto miocardico, anemia, chirurgia renale, ablazione renale, albuminuria, terapie farmacologiche concomitanti, chemioterapia) rappresenta uno strumento efficace nella stratificazione del rischio [100]. Un aiuto nella stratificazione del rischio è rappresentato dal Mehran Score System (Figura 4), in grado di fornire una predizione in termini percentuali dell’insorgenza di PC-AKI, sulla base delle comorbidità, dell’età del paziente e del volume di mezzo di contrasto da somministrare nel contesto di coronarografie [8], tenendo conto che se per le TC con contrasto si impiegano in media  tra 70 e 110 ml di mezzo di contrasto su un uomo di 70 kg (i volumi sono comunque suggeriti dalle case produttrici), per le coronarografie non esistono veri e propri protocolli standardizzati e l’infusione di mezzo di contrasto, di solito empiricamente stimata intorno a 30 ml, dipende molto dal caso specifico e dalle necessità particolari dell’operatore.

Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.
Figura 4. Algoritmo per l’identificazione del rischio di PC-AKI secondo Mehran.

I pazienti con AKI o eGFR inferiori a 30 ml/min/1,73 m2, compresi i pazienti sottoposti a trattamento emodialitico, rappresentano senza dubbio il vivaio di utenti maggiormente temuti al momento della somministrazione del mezzo di contrasto. Le linee guida ACR [32], ESUR [4] e i documenti intersocietari SIRM-SIN-AIOM [22] sottolineano come i valori di creatininemia, presi singolarmente, non rappresentino un buon indice della funzione renale del paziente; i suoi valori tendono ad aumentare in maniera significativa solo quando il GFR è ridotto di almeno il 50%. Nello screening dei pazienti a rischio è utile, pertanto, misurare la funzione renale mediante formula MDRD o con formula CKD-EPI, come suggerito dalle linee guida ESUR. In accordo con la Consensus Statements from the American College of Radiology and the National Kidney Foundation, si ritiene che l’insufficienza renale cronica sia il principale fattore di rischio nel paziente oncologico, ma solo per un eGFR <30 ml/minuto/1,73 m2 misurata con la formula di Cockroft-Gault. Per tali categorie di pazienti la pratica clinica si costella di fratricide guerre inter-specialistiche alla caotica ricerca di una comune good practice che, per quanto molto ben definite dalle linee guida ACR, ESUR e dai documenti intersocietari definiti da SIRM-SIN-AIOM [4, 22, 31], spesso è confusa, verosimilmente per antichi retaggi e falsi miti incentrati sulla salvaguardia della funzione renale residua ma che possono esitare nell’aggravamento della condizione clinica del paziente, differendo la diagnosi e ritardando le possibilità di intervento terapeutico. È necessario un appropriato utilizzo del contrasto per ottenere un’accuratezza diagnostica accettabile. Omettere il contrasto quando è indicato, al pari di somministrarlo quando non lo è, può portare a errori diagnostici e terapeutici, morbilità e costi inutili. Sui potenziali effetti del contrasto nei confronti del rene, il paziente ovviamente deve essere debitamente informato. Il consenso informato, teso alla crescita e alla consolidazione dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, rappresenta uno strumento utilissimo al medico e trova il suo fondamento nelle norme costituzionali, e più in particolare negli artt. 2-13 e 32. Più in particolare, l’art. 2 sottolinea che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…» e l’art. 32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’art. 32 (Acquisizione del consenso) dispone poi che il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca e formale della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 30. La radiologia contrastografica e/o interventistica, superando i limiti di un rischio sostanzialmente indeterminato, richiedono un consenso espresso in maniera esplicita dopo adeguata informazione. Appare opportuno che il consenso sia richiesto dal medico che ha la responsabilità della cura del paziente, sul quale medico ricade anche il dovere dell’informazione. Il radiologo dovrà comunque accertarsi che ciò sia avvenuto, integrando l’informazione con i dati specifici di sua esclusiva competenza [101]. In virtù di ciò, i pazienti con insufficienza renale cronica presentano una controindicazione relativa e non assoluta [31, 32] alla somministrazione dei mezzi di contrasto iodati. Se la somministrazione di mezzi di contrasto è necessaria per una diagnosi pericolosa per la vita, non dovrebbe essere rimandata sulla base della sola funzionalità renale. Se la somministrazione di mezzi di contrasto iodati per via endovenosa è clinicamente indicata, il suo utilizzo deve essere consigliato, informando il paziente dei potenziali rischi e benefici, nonché di strategie di imaging alternative [31, 32], provvedendo a intraprendere le strategie preventive riconosciute valide dalle linee guida. Il cardine della terapia preventiva è rappresentato dall’idratazione/espansione di volume. L’idratazione consente infatti di promuovere l’aumento del volume circolante agendo in maniera protettiva nei confronti della vasocostrizione renale indotta al mezzo di contrasto e, inoltre, l’aumento del volume urinario fa sì di ridurre la tossicità diretta sulle cellule tubulari renali. Ciò significa: per i pazienti sottoposti alla somministrazione endovenosa o intra-arteriosa con secondo passaggio renale con eGFR < 30 ml/min/1,73m2, l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto; per i pazienti sottoposti alla somministrazione endoarteriosa con primo passaggio renale e eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore [21, 32]. I pazienti con un solo rene normale o parzialmente funzionante (agenesia renale, nefrectomia, trapianto) devono essere gestiti in modo simile ai pazienti con volume renale normale ed il rischio clinico deve essere determinato sulla base della funzione renale complessiva (eGFR) e delle circostanze cliniche. La presenza di un rene solitario funzionante non dovrebbe influenzare il processo decisionale relativo al rischio di PC-AKI o CI-AKI [5].

Inoltre, sebbene i dati correlati colleghino dosi più elevate di mezzi di contrasto a un rischio maggiore di PC-AKI o CI-AKI dopo somministrazione intra-arteriosa, non esistono dati analoghi che implichino una tossicità dose-range per la somministrazione endovenosa all’interno dell’intervallo delle dosi somministrate clinicamente [5]. Di conseguenza, anche se i mezzi di contrasto iodati vengono somministrati per studiare un paziente a rischio, deve essere utilizzata la dose diagnostica convenzionale (cioè, il volume tipicamente utilizzato per una singola dose diagnostica). Dovrebbero essere evitate riduzioni ad hoc della dose dei mezzi di contrasto come sforzo per mitigare il rischio di danno, poiché questa pratica può produrre uno studio non ottimale o non diagnostico. Se è stato dimostrato che dosi più basse di mezzi di contrasto sono sufficientemente diagnostiche con protocolli specifici, le pratiche dovrebbero considerare la possibilità di ridurre le dosi in tutti i pazienti sottoposti a imaging con tali protocolli, non solo nei pazienti con funzionalità renale ridotta [102].

Le linee guida ESUR, ACR e le linee guida SIAARTI (mutuate dal lavoro di Ronco et al.) [103] convergono nello stabilire che a causa della dimostrata mancanza di benefici e del rapporto rischi/costi, se sembra riconosciuto un possibile ruolo protettivo delle tecniche convettive continue, soprattutto se combinate con altre strategie preventive, il trattamento emodialitico intermittente ‒ profilattico o preventivo ‒ volto all’eliminazione del mezzo di contrasto per la prevenzione del CI-AKI nel paziente con insufficienza renale cronica IV o V stadio secondo K/DOQI, sono di bassa qualità e di incerto significato [5, 21, 31, 32, 103] e di fatto controindicate. Nei pazienti sottoposti a terapia emodialitica sostitutiva, la somministrazione di mezzo di contrasto iodato, potrebbe determinare un peggioramento della funzione renale con conseguente perdita della diuresi residua. Sebbene le linee guida ESUR non raccomandino di eseguire un’ulteriore seduta emodialitica per rimuovere il mezzo di contrasto, i pazienti sottoposti a dialisi peritoneale o a emodialisi che possono essere considerati non anurici corrono il rischio di perdere la funzione renale residua a seguito di esposizione nefrotossica con implicazioni negative sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza globale. Pertanto, per tali pazienti vigono le stesse considerazioni espresse per i pazienti con AKI o eGFR inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 non sottoposti a dialisi. Se la perdita della funzionalità renale residua è considerata clinicamente importante, è necessario considerare i rischi, i benefici e le alternative, e la necessità della procedura può richiedere una discussione tra il nefrologo e il radiologo [5].

 

Approccio pratico

Spesso la richiesta di consulenza nefrologica accompagna la richiesta di esame con mezzo di contrasto. Di fatto, lo specialista in nefrologia non possiede le skill per potere discernere tutti i casi per i quali si rende assolutamente necessario un esame contrastografico o per i quali è possibile optare per una metodica alternativa. In tali casi, quando il nefrologo viene consultato, è ragionevole discutere il caso con il medico prescrittore e con lo specialista radiologo, al fine di valutare l’efficacia diagnostica di metodiche parimenti valide con minore impatto sulla funzione renale.

Il coinvolgimento del nefrologo dovrebbe verificarsi nei casi in cui l’esame può essere differito; in condizioni d’urgenza non è possibile ipotizzare una strategia preventiva che necessita di tempo per potere essere praticata.

Qualora si dovesse rendere necessario un esame o una procedura quoad vitam, quoad valetudinem che preveda l’utilizzo mezzo di contrasto, il nostro approccio inizia dalla verifica della somministrabilità del contrasto (assenza di allergia), dal calcolo del filtrato secondo CKD-EPI e dalla valutazione delle comorbidità. In tal senso, sebbene tale score sia stato validato per la predizione dell’AKI post percutaneous coronary intervention (PCI), schematizza in maniera pratica ed immediata le principali concause in grado di peggiorare il rischio di CI-AKI.

Come secondo step, al paziente va rappresentato che l’infusione di contrasto potrebbe non portare alcun danneggiamento alla funzione renale, così come potrebbe esitare verso il peggioramento della funzione renale da modesto a severo fino al trattamento emodialitico. Pertanto, prima di procedere all’esame, il paziente va reso edotto del rischio potenziale di danno renale moderato o grave e del rischio che tale danno esiti verso il trattamento sostitutivo della funzione renale (emodialisi), così come dei rischi connessi ad una eventuale mancata diagnosi.

Nei casi in cui sia ritenuto possibile  (esame differibile, compliance cardiaca permissiva) il nostro approccio prevede per prima cosa di stimare l’eGFR del paziente e praticare l’idratazione secondo il seguente schema: se eGFR < 45 ml/min/1,73 m2, si procede con l’idratazione endovenosa con sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg nell’ora prima della somministrazione, mantenuta a 1 ml/kg/ora per 4-6 h dopo, o con 1 ml/kg di soluzione fisiologica per 3-4 h prima e per le successive 4-6 ore; se eGFR < 30 ml/min/1,73m2 si pratica l’infusione di sodio bicarbonato 1,4% a 3 ml/kg/ora per 1 h prima della somministrazione o l’infusione di soluzione fisiologica ad 1 ml/kg/h per le 3-4 h prima e le 4-6 h dopo la somministrazione del contrasto.

Ove possibile, va discusso con il radiologo la necessità di utilizzare la minore concentrazione possibile di mezzo di contrasto.

Nelle more di eseguire l’esame con contrasto si consiglia di evitare farmaci nefrotossici (FANS, antibiotici aminoglicosidi), ACE-i, ARB, metformina (Figura 5).

Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.
Figura 5. Algoritmo per l’approccio al paziente nefropatico da sottoporre a procedura/indagine con mezzo di contrasto.

 

 

Conclusioni

Per decenni, l’osservazione di un declino della funzione renale dopo una procedura intra-arteriosa, trascurando l’impatto della malattia ateroembolica renale (AERD), ha rafforzato la convinzione che il contrasto iodato ne fosse il principale colpevole. Questa convinzione si è estesa anche al mezzo di contrasto iodato endovenoso, anch’esso ritenuto indubbiamente nefrotossico. La storica sovrapposizione nelle definizioni di CI-AKI e PC-AKI ha ragionevolmente contribuito a creare confusione e modus operandi non di univoco consenso (se non deleteri) per alcune categorie di pazienti, quali i nefropatici, che spesso rischiano il ritardo nelle diagnosi o di perdere le procedure endovascolari necessarie. Malgrado il notevole sforzo della letteratura, ricca di produzione scientifica in continuo aggiornamento, appare ancora oggi ragionevole la scelta di non alleggerire gli sforzi volti alla salute preventiva dei reni, soprattutto quando ritenuti vulnerabili, sfruttando il comune buon senso e facendo sì che il mezzo di contrasto non venga somministrato qualora non ci si aspetti alcun beneficio e l’imaging non potenziato risultasse già sufficientemente informativo, garantendo altresì, nei casi in cui esso rappresenti una necessità quod vitam, quod valitudinem, una corretta volemia, evitando la contemporanea somministrazione di farmaci nefrotossici quando è prevista una procedura con mezzo di contrasto.

 

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Trattamento della Cast Nephropathy

Abstract

La cast nephropathy è la causa più comune di AKI nei pazienti affetti da mieloma multiplo. Il caposaldo del trattamento della cast nephropathy è la terapia diretta contro il clone plasmacellulare, mirata ad abbattere la produzione e di conseguenza la deposizione di catene leggere a livello renale. Misure di supporto sono rappresentate dall’induzione di un elevato volume di urine alcaline, laddove possibile. La rimozione extracorporea delle catene leggere è una pratica terapeutica dai vantaggi clinici ancora non completamente chiariti. L’utilizzo di filtri e tecniche dialitiche sicure ed economiche può favorire l’implementazione di queste metodiche, in modo da precisare quale ruolo possano avere nella pratica clinica.

Parole chiave: mieloma multiplo, cast nephropathy, dialisi

In corso di mieloma multiplo (MM) la probabilità di sviluppare un danno renale acuto è piuttosto elevata. Si stima infatti che l’incidenza di acute kidney injury (AKI) sia intorno al 35%, anche se in letteratura esistono dati discordanti perché in passato nelle casistiche ematologiche l’AKI veniva stimato attraverso il GFR e solo più di recente attraverso le classificazioni idonee [1]. Quando presente, l’AKI è spesso severa [1] e la sua presenza influisce negativamente sulla prognosi dei pazienti con MM [2].

Da un punto di vista eziologico l’AKI in corso di MM può essere schematicamente ricondotto a due gruppi di cause. Il primo gruppo è rappresentato dalle AKI secondarie a un danno provocato dall’immunoglobulina patologica o da una sua frazione. Tra queste la cosiddetta “myeloma cast nephropathy” (MCN) è la causa di gran lunga più frequente (oltre la metà dei casi). Altri quadri possibili sono l’amiloidosi, la light or heavy chain deposition disease, la sindrome di Fanconi, etc. Il secondo gruppo di cause di AKI in corso di MM è quello da eziologie indipendenti dalla proteina M, come l’ipercalcemia, la disidratazione, la lisi tumorale e soprattutto i danni iatrogeni (per es. da FANS, da inibitori del proteasoma, da bifosfonati, etc.).

La MCN è il quadro più tipico e frequente di AKI in corso di MM perché è l’espressione della massiva produzione di catene leggere (CL) che si depositano nei tubuli renali. È stato dimostrato che la MCN di fatto non si realizza se il paziente non presenta un livello sierico di CL di almeno 500 mg/L e di solito sono necessari valori sierici ben più alti [3]. Questo spiega come mai la MCN sia descritta sostanzialmente solo in caso di MM (o raramente in corso di altre patologie neoplastiche ematologiche come il linfoma linfoplasmocitico e la leucemia linfatica cronica) ma non nelle condizioni precancerose, come la cosiddetta monoclonal gammopathy of renal significance.

La presenza di alti livelli di CL è un requisito indispensabile ma non sufficiente allo sviluppo della MCN. È noto infatti come non tutti i pazienti con MM e alti livelli di CL sviluppino MCN. Inoltre i livelli di CL non correlano con la gravità dell’interessamento renale [3]. Il motivo è da ricercarsi nell’interazione tra le CL e l’uromodulina, elemento chiave per la deposizione dei cilindri di CL all’interno dei tubuli renali. L’interazione delle CL con l’uromodulina avviene attraverso il legame della regione ipervariabile cdr3 delle CL con una specifica sequenza di 9 aminoacidi dell’uromodulina [4]. Ne consegue che ogni singolo clone di CL abbia una sua specifica affinità per l’uromodulina e ciò giustifica la precipitazione per concentrazioni diverse. Inoltre è stato anche dimostrato come altri fattori quali il pH possano influire sulla precipitazione delle CL [5].

Da un punto di vista istologico il quadro della MCN è caratterizzato da cilindri con struttura lamellare e aspetto fratturato, spesso intensamente eosinofili. Questi cilindri determinano una reazione infiammatoria con cellule giganti nell’interstizio che può esitare nella rottura della membrana basale tubulare e quindi in fibrosi e atrofia tubulo-interstiziale [6]. È stato dimostrato che il numero di cilindri per mm2 di corticale renale correla con il danno renale a lungo termine e che tale informazione istologica non può essere desunta dai dati di laboratorio al momento della biopsia [7]. I dati ottenuti dalla biopsia renale ci consentono quindi non solo di chiarire quale sia l’eziologia dell’AKI in corso di MM, che come abbiamo visto non è sempre imputabile alla MCN [8], ma forniscono anche insostituibili informazioni di carattere prognostico.

Il trattamento più importante della MCN è costituito dalla terapia clone based. Tanto più rapidamente ed efficacemente questa terapia riesce ad abbattere la produzione di CL, portandone i valori sierici al di sotto della soglia di precipitazione, tanto più è probabile un recupero della funzione renale. Come misure adiuvanti si può tentare di ridurre il rischio di ulteriore precipitazione delle CL attraverso la diluizione in volumi urinari elevati, maggiori di 3 L, e possibilmente in urine alcaline [9]. Vanno evitati però i diuretici dell’ansa che favoriscono la precipitazione delle CL [5]. Inoltre è necessario correggere l’ipercalcemia laddove presente ed evitare l’utilizzo di farmaci nefrotossici. È evidente che in pratica clinica possa risultare in certi casi complesso ottenere volumi urinari elevati in pazienti con AKI severa senza utilizzare diuretici dell’ansa, così come indurre una diuresi alcalina evitando però di peggiorare l’ipercalcemia attraverso l’alcalosi metabolica.

Un altro aspetto da considerare è che l’emivita delle CL, normalmente piuttosto breve, è molto allungata in caso di AKI severa e quindi, anche in presenza di una chemioterapia tempestiva ed efficace, queste restano in circolo per diversi giorni a livelli sierici elevati potendo potenzialmente continuare a precipitare e aggravare il danno renale. Pertanto nei pazienti con AKI severa che richiedono emodialisi, il trattamento extracorporeo può essere sfruttato anche per rimuovere efficacemente le catene leggere.

Le prime esperienze pioneristiche in questo ambito sono state effettuate con la plasmaferesi [10], tecnica che tuttavia non abbina la depurazione renale e che è limitata nella rimozione delle CL dai bassi volumi di liquido trattati. Le CL infatti hanno un volume di distribuzione maggiore delle Ig intatte, ma dato il loro peso molecolare contenuto possono essere efficientemente rimosse anche da filtri con cut-off minore rispetto ai plasmafiltri. Per questo motivo sono stati impiegati in questo ambito i filtri cosiddetti high cut-off (HCO) [11]. Questi filtri sono in grado di rimuovere efficacemente le CL, sia kappa che lambda (quest’ultima normalmente dimerica e quindi di peso molecolare doppio, 45 KDa circa, rispetto alla monomerica kappa). L’impiego di questi filtri si è dimostrato efficace nei primi lavori sperimentali, consentendo una buona rimozione delle CL e anche un miglioramento sugli end-point clinici [12]. Tuttavia questi filtri sono gravati da una perdita di albumina abbastanza marcata, che ne richiede la supplementazione al termine di trattamenti intensivi come quelli previsti per la rimozione delle CL (di norma quotidiani e prolungati).

Sono stati quindi disegnati due grandi trial randomizzati e controllati, il MYRE [13] e l’EuLite [14], per validare l’impiego dei filtri HCO nel contesto di pazienti con MCN. Questi studi hanno reclutato solo pazienti con MCN istologicamente documentata, che sono stati randomizzati a ricevere dialisi tradizionale o con HCO in aggiunta alla terapia standard of care. Entrambi i trial hanno fallito nel loro end point primario, ovvero dimostrare un miglioramento della prognosi renale dei pazienti dopo 3 mesi. Nonostante questo era evidenziabile un trend favorevole nel braccio di trattamento, così come il raggiungimento di alcuni end points secondari. Si è quindi ipotizzato che i trial non fossero sufficientemente potenti per dimostrare il vantaggio fornito dai filtri HCO rispetto alle metodiche convenzionali. La mancanza di potenza è stata attribuita al fatto che tra i primi lavori con filtri HCO ai due trial menzionati prima, si è verificato un grande avanzamento nel trattamento del MM con l’introduzione in terapia degli inibitori del proteasoma. La disponibilità di terapie più efficaci e rapide nel contrastare il MM potrebbe aver reso meno rilevante il lavoro effettuato sulla clearance delle CL dai trattamenti extra-corporei. Di conseguenza per evidenziare un vantaggio clinico minore sarebbe stato necessario calibrare diversamente i trial rispetto a quanto fatto sulla base dei primi dati disponibili (i vantaggi sulla prognosi renale erano stimati intorno al 30%). Tuttavia dal trial EuLITE è emerso anche un aumentato rischio infettivo nel braccio di trattamento. Questo allarme, insieme alla mancanza di una chiara efficacia dei trattamenti, alla complessità di gestione e ai costi degli stessi ha limitato la diffusione dei filtri HCO per questa indicazione.

Nel frattempo ulteriori lavori hanno dimostrato che anche altre metodiche emodialitiche, sfruttando soprattutto il principio dell’adsorbimento e non solo della filtrazione, possono essere in grado di fornire una certa rimozione delle CL nei pazienti con MCN. Sono stati pubblicati diversi lavori, in particolare circa l’impiego di filtri a base di PMMA [15, 16] e delle resine di stirene [17], tutte metodiche in grado di adsorbire le CL. Nonostante i tassi di rimozione non siano allo stesso livello dei filtri HCO, queste metodiche presentano dei vantaggi relativi alla semplicità di gestione, alla sicurezza e ai costi. Nel nostro centro abbiamo utilizzato la metodica HFR-SUPRA col raggiungimento di buoni risultati sia in termini di riduzione delle CL che prognostici [18]. Un’altra alternativa potrà essere rappresentata dai filtri a medium cut off, introdotti nella pratica clinica più di recente e che non sono gravati da sostanziali perdite di albumina [19].

Se da un lato quindi non abbiamo dati conclusivi sull’opportunità di impiegare trattamenti specifici per la rimozione extra-corporea delle CL nei pazienti con MCN, dall’altro la possibilità di impiegare metodiche semplici e a basso costo, in pazienti comunque destinati al trattamento emodialitico, sembra una scelta logica e supportata da un razionale fisiopatologico chiaro. Inoltre, con il cronicizzarsi delle patologie oncologiche è sempre più frequente imbattersi in pazienti che presentano recidive e che impiegano seconde e terze linee di trattamento, a volte con tempi di azione più lunghi. La possibilità di impiegare in questi casi dei trattamenti efficienti e sicuri rappresenta una possibilità da non trascurare per limitare l’impatto del danno renale e quindi le sue conseguenze.

 

Bibliografia

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Classificazione e gestione clinica delle gammopatie monoclonali a significato renale

Abstract

Le gammopatie monoclonali di significato renale (MGRS) sono un gruppo complesso di patologie caratterizzate dalla produzione di proteine ​​monoclonali aberranti che interagiscono con le strutture renali, causando danni ai tessuti. A differenza delle forme neoplastiche, il danno renale nella MGRS non è correlato alla massa del clone o ai livelli circolanti di proteina monoclonale.

Questo manoscritto esplora l’eterogeneità delle proteine ​​monoclonali coinvolte, che variano dalle immunoglobuline complete alle catene leggere libere (FLC), e il modo in cui determinano uno spettro di lesioni renali con prognosi diverse. Approfondiremo inoltre le sfide diagnostiche, sottolineando il ruolo indispensabile della biopsia renale, comprese tecniche avanzate come la microdissezione laser e la spettrometria di massa (LMD/MS) per la caratterizzazione dei depositi, in particolare in casi ambigui o complessi. Vengono inoltre discusse considerazioni sulla gestione clinica e sul trattamento, inclusa la necessità dell’identificazione dei cloni.

Parole chiave: Discrasie plasmacellulari, Gammopatia monoclonale, Gammopatie monoclonali di significato renale, Biopsia renale

Classificazione delle MGRS

Le gammopatie monoclonali di significato renale (MGRS) sono definite dalla presenza di una proteina monoclonale che direttamente o indirettamente interagisce con le strutture renali, portando a danno tissutale. Il danno renale è esclusivamente espressione delle caratteristiche chimico-fisiche della proteina monoclonale. La massa del clone e la quantità di proteina monoclonale immessa nel circolo non influenzano il danno renale, contrariamente a quanto osservato nelle forme neoplastiche. Per tali motivi, i cloni responsabili delle MGRS hanno caratteristiche pre-neoplastiche o non neoplastiche. Infatti, le MGRS si caratterizzano per una sopravvivenza generale superiore alle forme neoplastiche (escluse alcune forme quali l’amiloidosi ad immunoglobuline), ma ciò che le contraddistingue è una sopravvivenza renale sensibilmente ridotta [1]. 

La produzione di proteine monoclonali aberranti è varia e può includere immunoglobuline complete (L+H chains), immunoglobuline con eccessiva produzione di catene leggere libere (free light chain (FLC)), esclusivamente FLC, oppure immunoglobuline incomplete (catene pesanti e leggere non integrate in una singola immunoglobulina, ma separate). Questa eterogeneità di proteine monoclonali è responsabile di un caleidoscopio di lesioni renali, la cui prevalenza è più o meno rara e talvolta unica.

Le caratteristiche chimico-fisiche della proteina monoclonale e la sede prevalente di danno renale sono responsabili di una prognosi renale che è differente tra i pattern istologici noti. Ad esempio, pazienti affetti da light chain deposition disease (LCDD) hanno una prognosi renale sensibilmente inferiore se paragonati agli affetti da glomerulonefrite proliferativa con depositi monoclonali di IgG (proliferative glomerulonephritis with monoclonal IgG deposits (PGNMID)), rispettivamente 57% e 17% di insufficienza renale terminale a 28 mesi di follow-up [1, 2].

Definite dall’International Kidney and Myeloma Group (IKMG) nel 2012, le MGRS possono essere classificate secondo criteri di danno diretto o indiretto della proteina monoclonale coinvolta e ulteriormente stratificate per caratteristiche dei depositi alla microscopia elettronica (Figura 1) [3].

Figura 1. Classificazione eziopatologica delle MGRS.
Figura 1. Classificazione eziopatologica delle MGRS.

Il danno diretto è dimostrabile documentando la restrizione monoclonale dei depositi all’immunofluorescenza (IF) /immunoistochimica (IHC) della biopsia renale; esempio più frequente è la positività all’IF esclusivamente per una catena leggera, anti-kappa o anti-lambda. L’assenza di restrizione monoclonale ed il sospetto clinico deve portare all’esecuzione dell’immunofluorescenza su tessuto paraffinato (non “a fresco”) con tecniche immunoenzimatiche, più efficaci nello smascherare gli epitopi delle catene leggere monoclonali.

I depositi possono essere suddivisi in organizzati o amorfi in relazione alla presenza o meno di una organizzazione quaternaria della proteina monoclonale in polimeri disfunzionali (e.g., fibrille, tubuli) o cristalli. Tale classificazione è possibile esclusivamente con l’osservazione dei depositi con il microscopio elettronico a trasmissione. 

Il danno indiretto è di più complessa definizione in quanto la proteina monoclonale non si osserva direttamente in sede tessutale.

Danno diretto: forme a depositi organizzati

  • Amiloidosi ad Immunoglobuline. Si definisce per la formazione di depositi di fibrille non orientate, di diametro compreso tra i 7 e i 13 nm, caratteristicamente positive alla colorazione Rosso Congo (con birifrangenza verde mela alla luce polarizzata) e alla Tioflavina T.  È una forma sistemica di amiloidosi, con maggiore interessamento renale, cardiaco e midollare. In sede renale, tutte le strutture possono essere interessate, con differenti presentazioni cliniche quali sindrome nefrosica (depositi in sede mesangiale e nell’ansa capillare in sede subendoteliale, intramembranosa e subepiteliale), insufficienza renale (interessamento interstiziale o vascolare), o entrambe. I depositi non causano reazione infiammatoria; differentemente da quanto osservato in altre patologie a depositi organizzati, la microscopia ottica non si caratterizza per un quadro di glomerulonefrite membranoproliferativa (MPGN). L’amiloidosi ad immunoglobuline rappresenta il 43% delle diagnosi di MGRS e tra queste è la condizione con la peggiore prognosi, specialmente quanto la presentazione sistemica è già clinicamente significativa (in tal caso, la sopravvivenza mediana è di 8,4 mesi) [4, 5]. I depositi di amiloide sono monotipici per l’immunoglobulina o per la sua porzione coinvolta. Distinguiamo tre sottotipi alla luce dello studio in immunofluorescenza o immunoistochimica: amiloidosi AL (singola catena leggera, kappa o lambda), AH (singola catena pesante) e ALH (immunoglobulina completa). Talvolta, la restrizione monoclonale dei depositi è di difficile interpretazione per il mascheramento degli epitopi; pertanto, le tecniche immunoenzimatiche (e.g., Pronase®) su paraffinato sono più sensibili.
  • Glomerulonefrite crioglobulinemica (tipo I). La forma di tipo I di crioglobulinemia si caratterizza per la presenza in circolo di una proteina monoclonale (IgG o IgM) che precipita nel siero e nel plasma a temperature inferiori ai 37 °C; le altre due forme descritte (tipo II e tipo III) presentano le medesime caratteristiche fisiche, ma contrariamente alla forma di tipo I precipitano con altre immunoglobuline non patologiche. Queste ultime sono note come crioglobulinemie “miste” in quanto i depositi presentano nel tipo II una IgM monoclonale con attività di fattore reumatoide diretta contro Ig policlonali (IgG, IgA), mentre nel tipo III depositi di IgG policlonali e IgM policlonali. Essendo una patologia dei piccoli vasi, essa assume una rilevanza sistemica con interessamento multiorgano (in primis cardiaco, neurologico, gastroenterico, cutaneo, articolare). Nei glomeruli, i depositi possono interessare tutte le sedi (mesangiale, subendoteliale, intramembranosa e subepiteliale) con aspetti talvolta grossolani in sede subendoteliale a formare “pseudotrombi” di immunoglobuline, monoclonali all’immunofluorescenza; i depositi sono flogogeni e cronicamente generano un pattern glomerulare tipo MPGN. Alla microscopia elettronica i depositi mostrano microtubuli di diametro superiore ai 40 nm, con o senza spazio vuoto centrale [6].
  • Glomerulonefrite fibrillare. È una patologia limitata al rene che si caratterizza per la presenza di depositi di fibrille con andamento non ordinato simile all’amiloidosi, ma con diametri superiori (16-25 nm). La negatività per il rosso congo e la positività della DnaJ heat shock protein family (Hsp40) member B9 (DNAJB9) sono le caratteristiche istologiche salienti; quest’ultima, descritta nel 2018, è altamente sensibile e specifica per la glomerulonefrite fibrillare, non essendo descritte altre forme ad esso positive di depositi organizzati o amorfi [7].
  • Glomerulonefrite da immunotattoidi. Questa rara forma di MPGN a depositi organizzati si caratterizza per fasci ordinati di microtubuli di diametro superiore ai 25 nanometri. I depositi sono caratteristicamente negativi per rosso congo, tioflavina T e DNAJB9. La patologia è limitata al rene e non sono dimostrabili crioprecipitati nel siero e nel plasma; pertanto l’assenza di manifestazioni cliniche sistemiche è il principale elemento di distinzione con le crioglobulinemie, essendo l’organizzazione dei depositi simile [6]. La forma monoclonale è infrequente se paragonata alla forma policlonale che si associa ad autoimmunità (e.g., lupus eritematoso sistemico) e infezioni croniche (e.g., epatiti virali). Tuttavia, la forma monoclonale si associa soventemente a forme pre-neoplastiche o neoplastiche linfoplasmocitoidi (e.g., leucemia linfatica cronica, CLL) [8].

Depositi cristallini

Seppur raro, ogni struttura renale coinvolta nel transito di catene leggere monoclonali (in particolare Kappa) può essere interessata dalla formazione di inclusi intracellulari (in particolare lisosomiali) con struttura cristallina. Essendo le strutture renali più esposte il tubulo prossimale, l’interstizio peritubulare (istiociti), e il glomerulo (podociti), queste possono sviluppare depositi intracitoplasmatici di cristalli con restrizione monoclonale rispettivamente note come tubulopatia prossimale da catene leggere, l’istiocitosi a depositi cristallini di catene leggere e la podocitopatia da cristalli. Le ultime due sono forme rare per cui, vista la similitudine del danno istologico alla microscopia ottica ed elettronica, si ipotizza una comune eziopatogenesi legata alla resistenza alla degradazione in sede lisosomiale del cristallo.

  • Tubulopatia prossimale da catene leggere (a depositi cristallini o amorfi). Il quadro renale più frequentemente osservato in questa categoria di lesioni istologiche consiste nella tubulopatia prossimale da catene leggere, variante cristallina. Essa si caratterizza per la presenza di inclusioni cristalline in sede lisosomiale a carico delle cellule tubulari prossimali, positive per kappa all’immunofluorescenza. Raramente, tali inclusioni non raggiungono un’organizzazione cristallina e permangono amorfe [9]. Ad oggi, il danno tubulare è chiarito da due meccanismi: 1) biochimico, secondario all’intrinseca resistenza delle mutazioni acquisite dal clone (sottogruppo VK1 della catena kappa monoclonale) [10]; 2) meccanico, secondario alla lisi delle membrane cellulari causato dai cristalli. L’elevato stress ossidativo intracitoplasmatico generato dalla persistenza dei cristalli in sede citoplasmatica porta ad apoptosi o necrosi della cellula tubulare prossimale [11]. Questo peculiare quadro istologico si caratterizza clinicamente per lo sviluppo di sindrome di Fanconi completa (glicosuria normoglicemica, acidosi tubulare prossimale, ipouricemia, aminoaciduria, ipofosfatemia), insufficienza renale e proteinuria di modesta entità.

Danno diretto: forme a depositi non organizzati

  • Malattie a deposizione di immunoglobuline monoclonali (MIDDs). Si definisce MIDDs un gruppo di patologie caratterizzate dalla precipitazione di una porzione o una immunoglobulina completa in sede di membrana basale glomerulare, tubulare e vascolare in depositi definiti di tipo “Randall” o “a grani di pepe”, che appaiono lineari all’immunofluorescenza e caratteristicamente granulari alla microscopia elettronica. Lo stimolo immunogeno si estrinseca in una espansione mesangiale (proliferazione + matrice) che determina un quadro glomerulopatia nodulare con aspetti di MPGN. In relazione alle caratteristiche dell’immunoglobulina monoclonale, possiamo distinguere tre tipi di MIDD: malattia da deposizione di catene leggere (LCDD), di catene pesanti (HCDD), di catene pesanti e leggere (LHCDD). La LCDD rappresenta circa l’80% di tutte le forme di MIDD, generalmente di tipo kappa (>70% di tutte le forme). È generalmente una forma limitata al rene.
  • Glomerulonefrite proliferativa a deposizione di immunoglobuline monoclonali (PGNMID). Tale condizione si caratterizza per la presenza di depositi granulari in sede esclusivamente glomerulare (preminentemente mesangiale e subendoteliale) con monoclonalità IgG3 kappa. La patologia è tipicamente limitata al rene. I depositi sono amorfi e non hanno caratteristiche peculiari. L’effetto pro-flogogeno dei depositi e la sede sono responsabili di un quadro di MPGN. Tuttavia, nonostante la floridità del quadro infiammatorio glomerulare, in >60% dei casi non si osserva una proteina monoclonale nel siero o nelle urine. Il riscontro di monoclonalità è sfavorevole in quanto associato con un maggiore rischio di evoluzione verso l’insufficienza renale terminale e “recurrence” su trapianto [12].
  • Forme similari ai pattern primitivi o secondari policlonali. Raramente le proteine monoclonali presentano affinità verso lo stesso epitopo degli anticorpi policlonali causa di alcune forme di nefropatia immuno-mediata. Alcuni esempi sono: 1) glomerulonefrite membranosa IgG3 Kappa positiva, descritta nel 2012, sovrapponibile ad una forma primitiva se non per la restrizione dei depositi verso una monoclonalità IgG3 Kappa e la recidiva su trapianto, atipica nelle forme policlonali [13]; 2) malattia da anticorpi anti-membrana basale glomerulare, monoclonale, IgA1 kappa, descritta nel 2005, caratterizzata da recidive nel tempo, diversamente dalle forme policlonali che si caratterizzano per una singola presentazione [14]; 3) nefropatia a depositi monotipici di IgA (IgA kappa), che nella più estesa esperienza pubblicata in letteratura può essere espressione di due pattern a depositi monoclonali di IgA, ovvero la alfa-HCDD o la IgA-PGNMID [15].

Danno indiretto

In questo gruppo rientrano i danni istologici renali in cui la proteina monoclonale non si osserva direttamente in sede tessutale ma, stabilizzando a monte la via alterna del complemento, essa è causa indiretta di: 1) consumo del C3 e cofattori per stabilizzazione della C3 convertasi in fase liquida, con deposizione di frammenti nelle strutture glomerulari (glomerulopatia da deposizione di C3, che include la glomerulonefrite a depositi di C3 (C3GN) e la malattia da depositi densi (DDD)), oppure 2) un danno citotossico secondario alla stabilizzazione della C3 convertasi in fase solida in sede endoteliale che si configura istologicamente e clinicamente con un danno microangiopatico (condizione nota a livello sistemico come sindrome emolitico-uremica complemento-mediata).

In letteratura sono riportati diversi epitopi cui le immunoglobuline monoclonali sono state descritte essere affini: 1) anticorpi anti-C3 convertasi della via alterna (APC3C) e anti-C5 convertasi, chiamati “fattori nefritogeni”; 2) anti fattore H, particolarmente interessanti dal punto di vista patogenetico in quanto in relazione al dominio coinvolto possono essere responsabili di forme patologiche differenti. Infatti, 1) se l’epitopo bersaglio è un dominio in sede carbossi-terminale (SCR 19-20), potremmo osservare una sindrome emolitico-uremico complemento mediata per stabilizzazione della APC3C in fase solida endoteliale mentre, 2) se diretti verso i domini amino-terminali (SCR1-4), si potrebbe osservare una stabilizzazione della APC3C della fase liquida con consumo massivo di C3 e fattori regolatori della via alterna; questi, depositandosi in sede glomerulare, originano delle forme proliferative glomerulari quali la C3GN e la DDD; 3) anti fattore B, che stabilizza la APC3C nella fase liquida, generando pattern tipo C3GN/DDD [16].

 

Management delle MGRS

Quando dovrebbe essere presa in considerazione la diagnosi di MGRS?

Le manifestazioni cliniche in corso di MGRS dipendono essenzialmente dal segmento del nefrone interessato dal processo patogenetico. L’interessamento glomerulare è caratterizzato da proteinuria di entità variabile (dalla proteinuria sub-nefrosica fino alla sindrome nefrosica conclamata) talora in associazione con microematuria (specialmente in presenza di lesioni glomerulari con aspetti proliferativi endocapillari o extracapillari). Il declino della funzione renale può essere osservato, con caratteristiche cliniche variabili dalla malattia renale cronica fino all’insufficienza renale rapidamente evolutiva. In presenza di una principale localizzazione tubulare del danno diretto o indiretto secondario alla proteina M, il quadro clinico è caratterizzato dal riscontro di elementi suggestivi di disfunzione tubulare: basso peso specifico urinario, glicosuria normoglicemica, iperfosfaturia con conseguente ipofosfatemia, proteinuria tubulare, aminoaciduria, iperuricosuria e perdita urinaria di bicarbonato. L’insieme di tali reperti identifica la sindrome di Fanconi: la presenza esclusivamente di alcuni di essi delinea una condizione di sindrome di Fanconi incompleta. Pertanto, una diagnosi di MGRS dovrebbe essere presa in considerazione in ogni paziente con manifestazioni cliniche indicative di malattia renale (comprendendo tutto lo spettro di sindrome cliniche nefrologiche) associate alla presenza di una proteina M. Il sospetto clinico di MGRS aumenta in assenza di altre condizioni cliniche potenzialmente responsabili di un danno renale (diabete mellito, ipertensione e aterosclerosi). Nella casistica della Mayo Clinic i principali fattori clinici associati ad un incremento della probabilità di porre diagnosi di MGRS in pazienti affetti da gammopatia monoclonale e sottoposti a biopsia renale sono risultati essere: presenza di proteinuria > 1,5 nelle 24 ore, presenza di microematuria e riscontro di un rapporto FLC kappa/FLC lambda alterato [4]. Una condizione di MGRS dovrebbe essere presa in considerazione anche nei pazienti con diagnosi istologica di C3 glomerulopathy o TMA, specie in soggetti di età superiore a 50 anni: i dati provenienti dalle casistiche della Mayo Clinic mostrano una prevalenza di gammopatia monoclonale nel 65% dei soggetti con età superiore a 50 anni e diagnosi istologica di C3G [17] e nel 21% dei soggetti di pari età con diagnosi istologica di TMA [18]. Manifestazioni extrarenali sono comuni nell’amiloidosi AL e nella MIDD, con il cuore e il fegato che rappresentano gli organi più frequentemente colpiti. Nella crioglobulinemia di tipo 1, la cute è l’organo più frequentemente colpito.

La diagnosi di MGRS si basa su due fasi di fondamentale importanza: 1) l’identificazione della proteina M circolante; 2) la dimostrazione di una correlazione causale tra la proteina M circolante e l’anomalia renale osservata, il cui strumento diagnostico fondamentale è la biopsia renale. 

Identificazione della componente monoclonale

Tipicamente, una condizione di MGRS è caratterizzata da bassi livelli di proteina M circolante che riflettono le piccole dimensioni del clone B-cellulare o plasmacellulare sottostante. Con un limite di rilevamento di 500-2000 mg/l, l’elettroforesi delle proteine ​​sieriche (SPE) ha una sensibilità insufficiente per rilevare livelli bassi di proteina M circolante, in particolare nel caso in cui questa sia costituita da catene leggere libere (FLC) in considerazione della loro emivita inferiore rispetto alle Ig intatte: in oltre il 50% dei casi di amiloidosi AL l’elettroforesi delle proteine sieriche non è in grado di rilevare la presenza di una componente monoclonale [19]. L’immunofissazione sierica (IFE) presenta una sensibilità circa 10 volte maggiore rispetto a quella della SPE, tuttavia in una proporzione elevata di casi il rilevamento della proteina M richiede l’esecuzione di immunofissazione urinaria e/o la determinazione delle catene leggere libere nel siero.

Il principio su cui si basano i test per la determinazione delle sFLC utilizza anticorpi diretti contro epitopi esposti nelle catene leggere “libere” ma nascosti nelle immunoglobuline intatte. Questo test fornisce una misurazione quantitativa delle FLC sia κ che λ con una sensibilità < 5 mg/l e il calcolo del rapporto κ/λ può dimostrare una sintesi di catene leggere sbilanciata, suggerendo la presenza di una gammopatia monoclonale. Gli studi che valutano le prestazioni diagnostiche di questo test hanno documentato il rilevamento di rapporti κ/λ anormali nel 76-98% dei pazienti con amiloidosi AL e nel 92-100% dei pazienti con LCDD [19, 20]. Da più di 10 anni, la quantificazione delle sFLC viene eseguita mediante un test immunonefelometrico basato su anticorpi policlonali (Freelite®, The Binding Site, Birmingham, UK). Negli ultimi anni, nuovi test basati su anticorpi monoclonali sono entrati nella pratica clinica. Il test Freelite FLC e uno dei nuovi test (N Latex FLC assay®, Siemens Healthcare Diagnostic Products GmbH, Marburg, Germania) sembrano avere prestazioni diagnostiche simili, sebbene i dati attuali indichino che non sono intercambiabili, soprattutto nel monitoraggio della risposta alla terapia. Gli intervalli di riferimento per le FLC sieriche di Freelite sono stati definiti da Katzmann et al. (intervallo normale κ: 3,3-19,4 mg/l; λ: 5,7-26,3 mg/l; rapporto κ/λ: 0,26-1,65) [21]. Poiché le FLC vengono filtrate dal glomerulo e metabolizzate nei tubuli prossimali, è necessaria cautela nell’interpretare questo test nel contesto dell’insufficienza renale. Quando la velocità di filtrazione glomerulare (GFR) diminuisce significativamente, la rimozione delle FLC mediante pinocitosi reticoloendoteliale diventa più importante, con conseguente prolungamento dell’emivita delle FLC e aumento policlonale delle FLC sia κ che λ. Nei pazienti con GFR normale, l’aumentata produzione fisiologica di LC policlonali κ (peso molecolare (MW) 22,5 kDa) è mascherata dalla più rapida eliminazione di queste LC monomeriche rispetto alle LC λ dimeriche e quindi di maggior dimensioni (MW 45-50 kDa). Poiché la capacità differenziale di eliminare le LC κ e λ da parte del rene viene persa con il deterioramento della funzione renale, il rapporto κ/λ può aumentare leggermente e, per questo motivo, l’adattamento dell’intervallo normale a 0,37-3,17 aumenta l’affidabilità del test FLC Freelite nei pazienti con insufficienza renale [22]. Al contrario, quando si utilizza il test N Latex FLC, non è necessario un intervallo di riferimento renale separato poiché il rapporto κ/λ nei pazienti con malattia renale non differisce dai valori normali nei controlli sani.

Biopsia renale

La biopsia renale è fondamentale per la diagnosi di MGRS al fine di determinare se la proteina M è uno spettatore innocente o la causa della sindrome clinica nefrologica. L’esame del campione bioptico non può prescindere da studi di immunofluorescenza (IF), immunoistochimici (IHC) e microscopia elettronica (EM) per identificare la composizione del deposito e il modello di organizzazione ultrastrutturale. A questo proposito, è importante sottolineare il ruolo dell’EM, che dovrebbe far parte del work-up standard, in quanto unico strumento in grado di porre diagnosi di FGN, ITG, CG di tipo 1 e LCPT. In casi selezionati, può rendersi necessario il ricorso a tecniche più sofisticate come microscopia elettronica in immunogold o analisi proteomica tramite microdissezione laser e spettrometria di massa (LMD/MS) per caratterizzare le proteine ​​componenti di depositi densi. LMD/MS non è solo considerato il gold standard per tipizzazione accurata dell’amiloidosi, ma si è rivelata estremamente utile anche per la corretta diagnosi e comprensione di altre MGRS. L’utilizzo di queste tecniche avanzate può richiedere l’invio del campione bioptico a un centro specializzato ed è quindi solitamente riservato a risultati equivoci o casi difficili.

Work-up ematologico

In un contesto di MGRS definita o sospetta, il ruolo dell’ematologo e degli ematopatologi è volto all’identificazione clonale, aspetto fondamentale per la gestione terapeutica dei pazienti con MGRS. L’identificazione clonale è essenziale poiché uno stesso quadro istologico renale può essere espressione di condizioni ematologiche differenti, con diverso trattamento e diversa prognosi.  Da notare che, sebbene un clone patologico possa essere identificato praticamente in ogni paziente con amiloidosi AL o MIDD, tali cloni sono spesso difficili da rilevare in altre forme di MGRS. Ad esempio, la possibilità di identificare il clone patologico scende al di sotto del 17% per i pazienti che non hanno un’immunoglobulina monoclonale rilevabile negli studi di immunofissazione, e solo il 20-30% dei pazienti con PGNMID ha un’immunoglobulina monoclonale rilevabile in circolo [23].

Poiché il trattamento varia a seconda del fatto che il clone abbia una natura plasmocitaria o linfocitaria, scegliere l’agente giusto è difficile se non è possibile identificare un clone. La valutazione ematologica richiede nella maggior parte dei pazienti l’esecuzione di aspirato e biopsia del midollo osseo, sebbene nei pazienti con cloni di leucemia linfatica cronica (CLL) la diagnosi potrebbe essere posta con l’utilizzo della citometria a flusso su sangue periferico. La valutazione morfologica dovrebbe includere la quantificazione della percentuale di plasmacellule (in presenza di plasmacellulari) e la valutazione della presenza di aggregati linfoidi o linfoplasmocitici atipici (in presenza di cloni linfocitari) nonché di depositi di amiloide. Inoltre, studi ausiliari – in particolare la immunofenotipizzazione con citometria a flusso, il rilevamento della malattia minima residua e la valutazione citogenetica e genetica dei cloni – sono utili per l’identificazione di piccoli cloni e per ricavare raccomandazioni terapeutiche.

Il pannello FISH (ibridazione fluorescente in situ) del mieloma ha dimostrato una crescente importanza nel guidare il trattamento dei pazienti con discrasie plasmacellulari. Ad esempio, i pazienti con amiloidosi AL con traslocazione t(11;14) hanno risposte inferiori alla terapia a base di bortezomib, mentre quelli con guadagno del cromosoma 1q21 mostrano risposte meno soddisfacenti al trattamento con melfalan più desametasone (rispetto ai pazienti senza queste varianti genetiche) [24]. Questi risultati evidenziano l’importanza di eseguire il pannello FISH per il mieloma su tutti i campioni bioptici del midollo osseo di pazienti con discrasia plasmacellulare. Se la valutazione del midollo osseo non rivela una malattia ematologica clonale, il passo successivo potrebbe essere quello di eseguire studi di imaging (come TC-total body, PET-CT) per cercare un plasmocitoma localizzato o una linfoadenopatia in linfoma di basso stadio e di basso grado [25]. Per i pazienti con sospetto di mieloma multiplo, è opportuno eseguire una TC total-body con specifiche scansioni per la ricerca di interessamento scheletrico [26]. Qualsiasi lesione sospetta dovrebbe essere sottoposta a biopsia e dovrebbe essere ottenuto materiale sufficiente per consentire studi diagnostici e prognostici. Nella misurazione della malattia residua minima è stata utilizzata la citometria a flusso di nuova generazione: questa tecnica potrebbe essere utile nei pazienti con sospetta MGRS che hanno risultati negativi alla citologia tradizionale o agli studi di citometria a flusso di campioni di midollo osseo.

Principi di terapia

Lo scopo del trattamento nella MGRS è preservare o migliorare la funzione renale con l’utilizzo di un approccio terapeutico mirato al clone di cellule B o plasmacellule responsabile della produzione della proteina M e del danno d’organo. Le evidenze attuali supportano fortemente la strategia della terapia diretta al clone, con il raggiungimento di una risposta ematologica completa quale obiettivo terapeutico finalizzato a ottenere un’adeguata risposta renale e prevenire la progressione del danno d’organo. I dati pubblicati da Sayed et al provenienti da una coorte di 53 pazienti affetti da LCDD mostrano come il raggiungimento una risposta ematologica (risposta completa o very good partial response) fosse associata ad una sopravvivenza renale nettamente superiore rispetto a quanto osservato in presenza di una risposta parziale o in assenza di risposta ematologica [27]. La scelta del protocollo terapeutico è espressione della natura del clone (plasamacellulare vs linfocitario), del metabolismo renale dei farmaci, della potenziale tossicità renale della terapia e della presenza di neuropatia nel paziente.

Discrasia plasmacellulare

In presenza di un clone di plasmacellule che producono IgG, IgA o LC (MGUS non IgM), deve essere presa in considerazione una terapia diretta all’eradicazione del clone di plasmacellule con agenti anti-mieloma. Il farmaco più importante nel trattamento della MGRS associata a un clone di plasmacellule è l’inibitore del proteasoma bortezomib. Bortezomib ha un metabolismo non renale e viene solitamente somministrato in combinazione con desametasone. Sono attualmente disponibili altri inibitori del proteasoma, ma bortezomib dispone dei dati più affidabili nel trattamento della MGRS. Cohen et al nel 2015 hanno pubblicato risultati relativi a 49 pazienti affetti da MIDD e trattati con regimi basati sull’utilizzo di bortezomib, mostrando il raggiungimento di una risposta renale in 26 casi: l’analisi multivariata identificava il raggiungimento di una risposta ematologica quale principale fattore associato all’ottenimento di una risposta renale [28]. Risultati analoghi sono stati riportati con l’utilizzo di bortezomib nel contesto di altre forme di MGRS, quali LCPT [29], PGNMID [12], C3 glomerulopathy [30]. Daratumumab è un anticorpo monoclonale umano IgGk anti-CD38 che ha dimostrato efficacia come agente singolo, o in combinazione con altri agenti, nel trattamento di pazienti con MM recidivante e di nuova diagnosi: negli ultimi anni un numero crescente di evidenze ha supportato l’utilizzo di tale molecola nel trattamento delle forme di MGRS associate alla presenza di un clone plasmacellulare. L’esperienza retrospettiva pubblicata dal gruppo di Kastritis nel 2020 ha analizzato i dati relativi a 25 pazienti trattati con daratumumab (20 casi di LCDD, 2 casi di HCDD, 2 casi di C3G e 1 caso di PGNMID): il 77% dei pazienti otteneva una risposta ematologica (48% dei casi risposta completa/very good partial remission) e il 55% dei pazienti mostrava a 6 mesi dall’inizio della terapia una riduzione della proteinuria > 30% con eGFR stabile [31]. Nel 2021 il gruppo della Mayo Clinic ha pubblicato i risultati di uno studio di fase II condotto su 11 pazienti affetti da PGNMID: il trattamento con daratumumab determinava una risposta renale, parziale o completa, in 10 pazienti dopo 12 mesi di follow-up [32].

Clone di cellule B con proteina M IgM

Poiché la MGUS IgM è rara, vi sono in letteratura poche evidenze che possano guidare la scelta del trattamento nella MGRS correlata alla proteina M di tipo IgM. Quando il clone midollare sottostante è un clone B-linfocitario o linfoplasmocitario IgM positivo che produce proteine ​​M ed esprime CD20, la terapia a base di rituximab (eventualmente in associazione con desametasone e ciclofosfoamide o bendamustina) è la prima scelta di trattamento. Il rituximab può essere somministrato in sicurezza senza modifiche della dose nei pazienti con funzionalità renale ridotta. Circa il 60% della ciclofosfamide viene eliminato attraverso i reni: gli studi descrivono un aumento dell’esposizione alla ciclofosfamide nei pazienti con malattia renale, tuttavia, gli aggiustamenti della dose in questi pazienti rimangono variabili in letteratura. La bendamustina non sembra alterare la farmacocinetica nell’insufficienza renale moderata, ma dati limitati suggeriscono aumenti di tossicità nei pazienti con GFR < 40 ml/min.

Risposta alla terapia

Nella MGRS, la valutazione della risposta ematologica al trattamento è cruciale perché la risposta renale dipende dalla risposta ematologica. Il tasso di risposta renale nell’amiloidosi AL è significativamente più alto nei pazienti con una soppressione > 90% della proteina M nefrotossica [33] e anche in corso di MIDD, il raggiungimento di una risposta ematologica completa ha mostrato benefici simili [34]. Nell’amiloidosi AL, la misurazione della sFLC è uno strumento essenziale per la valutazione di una risposta ematologica. I criteri di risposta utilizzati nell’amiloidosi AL sono riportati in Tabella 1; sembra logico utilizzare questi stessi criteri di risposta negli altri disturbi MGRS. L’uso del test sFLC per la risposta è stato suggerito per tutte le MGRS che coinvolgono solo LC. Nei casi di una proteina M non rilevabile o difficile da misurare, la risposta ematologica può essere valutata con esami ripetuti del midollo osseo utilizzando una citometria a flusso. In assenza di una componente monoclonale circolante e senza identificazione del clone cellulare, la GFR e la proteinuria possono essere gli unici parametri utilizzati per valutare l’attività della malattia.  È importante notare che la risposta renale è solitamente ritardata: nel lavoro pubblicato da Leung et al è stata necessaria una durata minima di 12 mesi di risposta ematologica prima che si osservasse l’insorgenza della risposta renale in pazienti con amiloidosi AL [35].

Risposta Criteri
Completa Normalizzazione dei livelli sierici di FLC e della ratio, immunofissazione sierica e urinaria negativa
Very good partial response Riduzione del dFLC < 40 mg/l
Paziale Riduzione del dFLC > 50%
Nessuna risposta Riduzione del dFLC < 50%
Progressione

In caso di CR, ricomparsa di proteine monoclonali su siero o urine o FLR ratio alterato In caso di PR, incremento della proteina M sierica del 50% (0,5 g/dl) o incremento della proteina

M urinaria del 50% (> 200 mg/die)

Incremento delle FLC > 50% (>100 mg/l)

Tabella 1. Valutazione della risposta ematologica in corso di MGRS (sulla base dei criteri IMWG per amiloidosi AL).

 

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