Schemi terapeutici di terapia immunosoppressiva cronica e loro significato

Abstract

Lo scenario del trapianto renale è profondamente cambiato nelle ultime due decadi sia nella tipologia dei donatori che dei riceventi. A questo fenomeno non si è accompagnato un significativo rinnovamento dell’arsenale terapeutico nella terapia di mantenimento, che possa essere maggiormente versatile e adeguata alle nuove esigenze di una terapia personalizzata. Rispetto ai farmaci tradizionali, l’unica concreta innovazione è rappresentata dagli inibitori della costimolazione linfocitaria il cui capostipite, e per ora unico rappresentante in pratica corrente, è il Belatacept con caratteristiche di assente nefrotossicità e impatto metabolico su dislipidemia e metabolismo glicidico, e maggior prevenzione rispetto agli inibitori delle calcineurine (CNI) nello sviluppo di anticorpi donatore-specifici. I dati dagli studi clinici randomizzati indicano chiaramente un significativo guadagno di GFR nel lungo termine rispetto ai CNI. Il rischio di rigetti acuti post-conversione a Belatacept è scongiurato da protocolli più recenti di embricazione con CNI. L’associazione con mTOR-inibitori appare promettente permettendo di sfruttare alcune caratteristiche peculiari di questa classe. In conclusione, nuovi regimi immunosoppressivi di mantenimento possono beneficiare della sinergia di farmaci consolidati con il belatacept che possiede caratteristiche uniche.

Parole chiave: immunosoppressioine, farmaci, rigetto, trapianto di rene

Lo scenario del trapianto di rene è notevolmente mutato negli ultimi 20 anni sotto molteplici aspetti [1]. L’espansione del pool dei donatori ha consentito di trasformare l’opzione trapiantologica da un approccio di nicchia a una terapia coinvolgente un numero significativo di pazienti tanto che in alcuni paesi, come per esempio la Spagna, la quota di pazienti trapiantati di rene supera quella dei pazienti in dialisi. L’auspicio è che anche in altre parti d’Europa il trapianto di rene diventi l’opzione prevalente per il trattamento del ESRD. Però l’estensione del numero dei donatori non è stata solo dovuta a una maggiore proclività alla donazione sia da deceduto che da vivente, ma anche e forse soprattutto nel considerare idonei alla donazione di rene donatori che in passato non lo venivano [1]. È il caso dei donatori a criteri estesi e dei donatori a cuore fermo: entrambe le categorie stanno dando un sostanziale contributo alla diffusione del trapianto, ma presentano caratteristiche che devono essere considerate nella gestione del ricevente anche da punto di vista dell’immunosoppressione: una maggiore quota di DGF, una maggiore sensibilità alla tossicità acuta e cronica da inibitori delle calcineneurine e per i donatori a criteri estesi una ridotta durata del graft per riduzione della riserva funzionale e minore integrità del micro circolo renale [1].

Parallelamente, la popolazione dei riceventi si è espansa anche a pazienti con maggiori comorbidità e di età più avanzata. Col passare del tempo e il crescere storico del numero dei trapianti, anche i ritrapianti sono in aumento con le loro problematiche di sensibilizzazione.

Inoltre, le conoscenze scientifiche hanno portato a focalizzare l’attenzione clinica anche sul lungo termine del “patient journey” ed è ormai chiaro che la maggior causa di perdita dei reni si ha in questa fase e non precocemente. Sono emerse realtà patologiche come il rigetto cronico anticorpo-mediato che rappresentano la prima causa di perdita del graft nel lungo termine e le cui caratteristiche sono in fase di studio con continue evoluzioni. Questo ha portato a riconsiderare i protocolli terapeutici storici che erano orientati ad una importante minimizzazione della terapia dopo il primo anno. D’altro canto, la maggior fragilità dei riceventi soprattutto dal punto di vista infettivo ma anche neoplastico sta ponendo delle serie remore a incrementare il carico immunosuppressivo nel lungo termine. Inoltre, l’emergenza di patogeni multiresistenti ha determinato un aumento del rischio di mortalità infettiva in queste popolazioni [2]. Anche virus che apparivano ben controllati dalla terapia antivirale classica come il CMV [3], hanno mostrato nello scenario attuale delle maggiori potenzialità di nocumento e pertanto auspicabilmente possono necessitare di migliore risposta terapeutica con farmaci più attuali.

È ben chiaro però che nei tempi moderni nella scelta dello schema immunosuppressive per un determinato paziente vi sia una necessità di personalizzazione estremamente complessa e difficile. Le caratteristiche anamnestiche e le situazioni reali del trapianto possono determinare presupposti conflittuali nella scelta dello schema immunosuppressivo e nelle sue modificazioni nel tempo (Figura 1).

Ad esempio l’occorrenza di tossicità da CNI insieme a rigetto anticorpo-mediato in un paziente anziano trapiantato con rene di donatore anziano pone una seria sfida sia per decidere la terapia anti-rigetto sia per la terapia di mantenimento successiva. Anche la semplice presenza di ipotensione cronica costitutiva del paziente, che di per sé può rappresentare un fattore di protezione vascolare, in caso di trapianto da donatore a criteri estesi rappresenta invece  un forte fattore di riduzione della sopravvivenza del graft [4]. In modo simile, ormai è evidente quanto il diabete pre-trapianto o insorto nel post trapianto possa essere una complicanza lesiva nel lungo termine e la terapia immunosuppressivo ha un ruolo chiave in questa dinamica [5, 6].

Gli schemi di trattamento di mantenimento correnti si rifanno principalmente a due studi clinici: lo studio Symphony [7] e lo studio Transform [8]. Con il primo si individuava con lo schema tacrolimus, micofenolato e steroide il regime a minor rischio di rigetto acuto; con il secondo si osservava l’equivalenza negli outcome principali dell’uso dell’everolimus invece del micofenolato all’interno dello stesso schema, anche se a diversi dosaggi dei CNI.

La pratica clinica corrente vede questi due schemi come prevalenti anche attualmente ma in molte situazioni si osservano anche i loro limiti, soprattutto per quanto riguarda la nefrotossicità da CNI.

Lo studio clinico che ha dimostrato il reale impatto della tossicità da CNI nel lungo termine è il BENEFIT che compara l’utilizzo del Belatacept con la Ciclosporina [9].

Il Belatacept, un bloccante selettivo della costimolazione costituito dalla proteina di fusione solubile CTLA4/IgG, previene il segnale CD28-mediato delle cellule T legandosi in modo efficiente con i suoi ligandi CD80 e CD86 espressi dalle cellule che presentano l’antigene (APC). Lo studio BENEFIT a lungo termine ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza del trapianto nei pazienti sottoposti a trapianto di rene rispetto alla ciclosporina. È stato inoltre osservato un miglioramento della funzionalità del graft anche rispetto al mantenimento con Tacrolimus.

Tuttavia, è stata osservata un’aumentata incidenza di rigetto acuto (AR) nei pazienti trattati con Belatacept, principalmente nel regime senza CNI, e ha sollevato preoccupazioni riguardo al suo utilizzo in pazienti con rischio immunologico moderato o alto. Recentemente, Adams et al hanno contenuto l’incidenza dell’AR nei pazienti che avevano iniziato il trattamento con Belatacept dall’inizio del trapianto combinando transitoriamente TAC con Belatacept [10].

Noi abbiamo ottenuto lo stesso risultato utilizzando il Belatacept in modalità di salvataggio dove un aumento del rischio di rigetto acuto con Belatacept può limitarne l’uso in particolare in pazienti ad alta complessità medica dove il rischio preesistente di rigetto si accoppia con tossicità CNI [11].

La nostra prima esperienza è stata sottoposta ad analisi retrospettiva in 19 KT passati a un’immunosoppressione basata su Belatacept con Tacrolimus a basso dosaggio (2-3 ng/mL) dopo evidenza di disfunzione dell’allotrapianto, inclusi pazienti con “primary non-function” (PNF), rigetto cronico anticorpo-mediato (cAMR), storia di precedenti KT e/o altri trapianti concomitanti (fegato, pancreas) [11]. I risultati hanno dimostrato una funzionalità renale è migliorata significativamente. Inoltre è stato osservato lo svezzamento definitivo dalla dialisi in 5/5 KT con PNF, mentre 7/8 pazienti hanno perso il trapianto entro il primo anno in un gruppo di controllo. Infine, non si sono verificati episodi di rigetto acuto, nonostante il rischio significativo suggerito dall’alta frequenza di TEM CD28+ CD4+ nella maggior parte dei pazienti.

Recenti osservazioni hanno anche segnalato l’indifferenza del Belatacept verso il metabolismo lipidico e glicidico, dato di utilità nella gestione dei metabolico-cardiovascolare in particolare dei pazienti con comorbidità.

Inotre, lo studio BENEFIT ha dimostrato che lo sviluppo di anticorpi anti-donatore (DSA) è marcatamente ridotto con il Belatacept, fenomeno estremamente interessante nella prevenzione del rigetto anticorpo-mediato tardivo [10].

Recentemente, studi osservazionali ed interventistici con switch a belatacept ed everolimus hanno dimostrato una efficiente protezione al rigetto post-conversione, rendendo possibile l’utilizzo degli mTOR-inibitori con le loro favorevoli peculiarità anche in combinazione con l’inibitore della costimolazione linfocitaria [12, 13].

Infine, la somministrazione endovenosa mensile può sicuramente contribuire a ridurre il rischio di non-compliance che colpisce diverse categorie di pazienti [14].

In conclusione, le sfide della trapiantologia moderna necessitano di un superamento degli schemi terapeutici storici almeno allorquando vi siano delle condizioni di base “caso per caso” che limitino la funzionalità del graft nell’ottica di una ricerca verso la medicina di precisione. Gli inibitori della costimolazione linfocitaria rappresentano una classe farmacologica che ha già una consolidata esperienza clinica e la cui caratteristica peculiare è l’assenza totale di nefrotossicità.

Fig. 1 Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.
Figura 1. Fattori correnti di complessità del trapianto di rene nel lungo termine.

 

Bibliografia

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