Inibitori dell’enzima prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia: una nuova terapia per l’anemia nei pazienti con insufficienza renale cronica

Abstract

L’anemia è una delle principali complicanze della malattia renale cronica (MRC). La sua prevalenza aumenta con l’avanzare dell’età e con la progressione della malattia renale. La principale causa di anemia legata alla MRC è rappresentata dalla riduzione della produzione di eritropoietina. L’aumento del rischio cardiovascolare e della mortalità è strettamente associato alla presenza di anemia, incrementando con la severità del quadro anemico, come descritto in numerosi studi. Le principali terapie per il controllo dell’anemia sono state rappresentate fino ad ora dalla supplementazione di ferro, dall’utilizzo di eritropoietina sintetica e dalle emotrasfusioni. Nonostante la disponibilità di terapie adeguate, la prevalenza dell’anemia nella MRC continua ad essere significativa. I farmaci inibitori dell’enzima prolil-idrossilasi del fattore inducibile dall’ipossia (HIF-PHi), sono in grado di mimare una condizione di ipossia e aumentare la produzione di eritropoietina endogena. Gli HIF-PHi rappresentano quindi una importante alternativa terapeutica per il controllo dell’anemia legata alla MRC. Numerosi studi hanno confermato la capacità di HIF-PHi di correggere l’anemia e mantenere l’emoglobina su valori adeguati; inoltre hanno evidenziato altri potenziali benefici fattori pleiotropici sul controllo del colesterolo e sull’omeostasi del ferro. Sono necessari ulteriori studi per confermare la sicurezza del farmaco, soprattutto riguardo a rischio cardiovascolare, trombosi vascolare e stimolo neoplastico. In questo articolo vengono presentati il meccanismo d’azione, gli effetti e le caratteristiche farmacologiche degli HIF-PHi.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, HIF, roxadustat

Introduzione

L’anemia è una delle complicanze della malattia renale cronica (MRC). La sua prevalenza nei pazienti affetti da MRC è il doppio rispetto alla popolazione generale, e aumenta con la progressione della MRC, colpendo fino all’85-95% dei pazienti in dialisi [1-4]. Lo sviluppo di anemia espone i pazienti affetti da MRC a un aumentato rischio di complicanze, tra cui eventi cardiovascolari (CV), mortalità CV e per tutte le cause, progressione della malattia renale e ospedalizzazioni [5-8]. Inoltre, indipendentemente dallo stadio di MRC e dalle comorbidità, i sintomi dell’anemia possono portare a una riduzione delle attività fisiche, sociali e lavorative, e avere un impatto negativo sulla qualità della vita dei pazienti [9, 10].

Per lungo tempo, le principali opzioni terapeutiche per la gestione dell’anemia nella MRC consistevano nella supplementazione di ferro, l’utilizzo di agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), e la terapia trasfusionale [11]. Tuttavia, nonostante la sua prevalenza e le sue significative conseguenze, alcuni studi hanno mostrato che l’anemia è un problema sotto-diagnosticato e sotto-trattato nei pazienti con MRC [4, 12, 13], possibilmente a causa dei costi degli ESA, ai problemi legati alla loro somministrazione per via parenterale, e alle controversie sui livelli target di emoglobina da ottenere con il trattamento [11].

Recentemente, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) hanno approvato l’utilizzo degli inibitori dell’enzima inibitore della prolil-idrossilasi del fattore inducibile da ipossia (HIF-PHi) come alternativa agli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) per il trattamento dell’anemia nella MRC [14]. Ad oggi la classe di farmaci HIF-PHi comprende sei molecole: roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat, ed enarodustat. In Italia, l’unica molecola attualmente disponibile è il roxadustat (Evrenzo®), mentre daprodustat e vadadustat sono tra i medicinali in valutazione da parte di EMA nel 2023 [15]. Questa revisione riassume il meccanismo di azione degli HIF-PHi, i risultati dei principali studi clinici sulla loro sicurezza ed efficacia, e il loro ruolo nella gestione dell’anemia nei pazienti affetti da MRC.

 

Meccanismo d’azione

Il fattore inducibile dall’ipossia (HIF) è un fattore di trascrizione presente in tutte le cellule del corpo umano e responsabile della risposta adattativa in caso di diminuzione dell’ossigeno disponibile nell’ambiente cellulare. È un eterodimero composto da una subunità α (HIF-1α o HIF-2α) altamente inducibile dall’ipossia e una subunità β costituiva (HIF-1β) [16]. Tale complesso è regolato da un complesso di enzimi inibitori della idrossilazione prolinica (PH) che, in presenza di ossigeno, idrossilano HIF-α indirizzandolo alla degradazione proteasomica. Viceversa, in condizioni di ipossia, l’attività degli enzimi PH viene soppressa e HIF-α sfugge alla degradazione proteasomica, trasloca nel nucleo cellulare e si lega ad HIF-1β, formando l’eterodimero che attiva la trascrizione dei geni bersaglio [17-19] (Figura 1).

I principali effetti di questa attivazione riguardano l’eritropoiesi e il metabolismo del ferro [20, 21]. Infatti, le cellule renali deputate alla produzione di eritropoietina (EPO) si trovano nell’interstizio peri-tubulare in una zona relativamente ipossica, dove anche lievi diminuzioni del contenuto di ossigeno possono attivare il sistema HIF, con conseguente induzione della trascrizione genica e aumento della sintesi di EPO [22-24]. Oltre ad incrementare i livelli circolanti di EPO, l’attivazione del sistema HIF porta all’aumento dei recettori dell’EPO, con conseguente aumento dell’internalizzazione del ferro da parte dei proeritrociti e promozione della maturazione degli eritrociti [24]. A livello intestinale, l’attivazione del sistema HIF aumenta l’espressione del citocromo B duodenale (DCYTB), enzima responsabile della riduzione del ferro trivalente a bivalente, e del trasportatore di metalli bivalenti (DMTI), responsabile del trasporto del ferro bivalente dal lume intestinale all’interno dell’enterocita [23]. Infine, a livello epatico l’attivazione del sistema HIF inibisce la sintesi di epcidina, ormone che riduce la biodisponibilità del ferro intrappolandolo negli enterociti e nelle cellule del sistema reticoloendoteliale, solitamente elevato nei pazienti affetti da MRC a causa dell’uremia e dell’infiammazione cronica [25].

In questo sistema, gli inibitori di HIF-PH, anche detti stabilizzatori di HIF, agiscono inibendo la degradazione proteosomica di HIFα, anche in assenza di ipossia, e portano all’attivazione del sistema HIF con conseguente stimolazione dell’eritropoiesi e promozione dell’assorbimento e dell’utilizzo del ferro [26-28].

 

Utilizzo degli HIF-PHi nella gestione dell’anemia da MRC

Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia degli HIF-PHi nel correggere e mantenere i livelli di emoglobina nei pazienti affetti da MRC sia in fase pre-dialitica, sia in pazienti dializzati.

Nei malati con MRC non ancora in dialisi, sia roxadustat che daprodustat si sono rivelati superiori al placebo nel raggiungere e mantenere i livelli di emoglobina entro i target (10-12 g/dL o 11-12 g/dL a seconda degli studi) nel lungo termine (fino a 4 anni), riducendo la necessità di emotrasfusioni o di terapia con ESA [29-33]. In particolare, una metanalisi sui risultati degli studi ALPS [32], ANDES [30] e OLYMPUS [31] ha mostrato un aumento dell’emoglobina nei pazienti trattati con roxadustat di 1.9 g/dL, rispetto all’aumento di 0.2 g/dL nel gruppo placebo [34]. Oltre che la loro efficacia rispetto al placebo, diversi studi clinici hanno convalidato la non inferiorità degli HIF-PHi rispetto agli ESA nel migliorare e mantenere i livelli di emoglobina entro i target, sia nei pazienti che erano già in terapia con ESA, sia nei pazienti ESA-naive [35-42]. Inoltre, in alcuni di questi studi si è osservato addirittura un aumento molto rapido dell’emoglobina in corso di terapia con HIF-PHi, tale da richiedere un aggiustamento precoce della posologia [39, 41, 43].

Anche negli studi su pazienti con MRC in dialisi, la terapia con HIF-PHi ha mostrato un’efficacia non inferiore alla terapia con ESA nella correzione e nel mantenimento dei valori di emoglobina, sia nei pazienti che iniziano la dialisi [43-47] che nei pazienti prevalenti [33, 37, 38, 45, 46, 48-52]. Tuttavia, è da segnalare che in alcuni di questi studi i pazienti randomizzati a HIF-PHi hanno avuto maggior bisogno di “terapia di salvataggio” con emotrasfusioni o somministrazione di ESA [37, 44, 45, 50].

 

Altri effetti benefici associati all’utilizzo di HIF-PHi

Dagli studi clinici effettuati, l’utilizzo di HIF-PHi si è dimostrato associato anche ad ulteriori effetti benefici, oltre alla correzione dell’anemia e al mantenimento dei livelli di emoglobina entro i target. Tra questi sono stati descritti effetti sull’omeostasi del ferro, l’infiammazione, il metabolismo lipidico, la progressione di malattia renale e la qualità di vita.

Riguardo all’omeostasi del ferro, la terapia con HIF-PHi ha mostrato un mantenimento dei livelli di sideremia e una riduzione dei livelli di ferritina maggiore rispetto al placebo [30, 31, 33] e simile o talvolta maggiore rispetto a quella osservata nei pazienti trattati con ESA [36-39, 41, 43-51, 53], secondaria all’aumento dell’eritropoiesi e della mobilizzazione del ferro. Inoltre, i pazienti trattati con HIF-PHi hanno mostrato una maggiore riduzione dei livelli di epcidina sia rispetto ai pazienti trattati con placebo [30], che rispetto ai pazienti trattati con ESA [33, 36-39, 41-47, 49-53]. Minori livelli di epcidina consentono un maggior assorbimento di ferro dall’intestino e una maggior mobilitazione del ferro dal sistema reticolo-endoteliale, rendendolo più disponibile per l’eritropoiesi. Infatti, in alcuni studi l’utilizzo di HIF-PHi si è anche associato a una minore necessità di supplementazione marziale per via endovenosa sia rispetto al placebo [30] sia rispetto alla terapia con ESA [36, 38, 42, 44-47, 50-53], anche se questo dato non è emerso in maniera uniforme in tutti gli studi.

Nonostante la presenza di infiammazione possa generalmente peggiorare il quadro di anemia, l’efficacia della terapia con HIF-PHi si è mantenuta costante anche in presenza di livelli elevati di proteina C reattiva (PCR) [30, 35, 37, 42, 44, 46, 47, 49, 50, 53]. Inoltre, tra i pazienti con PCR elevata, quelli trattati con HIF-PHi hanno mostrato una risposta emoglobinica superiore a quelli trattati con ESA [33, 45], o una risposta simile ma con necessità di incremento della posologia nei pazienti trattati ESA [44, 46, 52]. Questi dati suggeriscono un possibile ruolo della terapia con HIF-PHi nei casi di iporesponsività agli ESA nel contesto di quadri infiammatori, ma vanno interpretati con cautela perché i pazienti con stato infiammatorio cronico sono stati esclusi dalla maggioranza degli studi clinici condotti finora.

L’utilizzo di HIF-PHi ha mostrato degli effetti vantaggiosi anche dal punto di vista del metabolismo lipidico. Infatti, in diversi studi si è osservata una significativa riduzione delle lipoproteine a bassa densità (LDL) e un aumento delle lipoproteine ad alta densità (HDL) nei pazienti trattati con HIF-PHi rispetto a placebo o a ESA [30, 33, 36, 39, 43-46, 50, 53]. In particolare, nella metanalisi condotta da Provenzano et al. nei pazienti trattati con roxadustat si è osservata una riduzione dei valori di LDL di -17.3 mg/dL rispetto a +2.6 mg/dL nel gruppo placebo [35]. Questo fenomeno è verosimilmente dovuto all’effetto di HIF sul metabolismo glico-lipidico. Infatti, in presenza di ipossia il sistema HIF riduce il consumo mitocondriale di ossigeno inducendo l’espressione di enzimi glicolitici e inibendo l’espressione dell’acetil coenzima A, riducendo quindi collateralmente la sintesi del colesterolo [53].

Alcuni studi sperimentali hanno evidenziato che il sistema HIF svolge un ruolo regolatore anche nella riparazione del danno renale, modulando la guarigione fibrotica del parenchima renale dopo danno ischemico che porterebbe ad una riparazione incompleta ed allo sviluppo e alla progressione della malattia renale cronica [54]. Queste evidenze hanno fatto ipotizzare che l’utilizzo di HIF-PHi potrebbe regolare la risposta fibrotica e avere un’azione nefroprotettiva. Tuttavia, i risultati degli studi clinici sono disomogenei riguardo al dato di progressione di malattia renale. Infatti, la maggior parte degli studi che hanno valutato l’andamento del filtrato renale non hanno dimostrato un rallentamento della progressione di MRC con HIF-PHi rispetto alla terapia con placebo ed ESA [31, 32, 38, 40]. Solo lo studio SYMPHONY-ND [37] ha mostrato un tasso più lento di declino dell’eGFR nei pazienti trattati con enarodustat rispetto a quelli trattati con darbepoetina nell’arco di 24 settimane, con una variazione media dell’eGFR di -0.28 ml/min/1.73m2 rispetto a -1.57 ml/min/1.73m2. Al contrario, nello studio MIYABI ND-C [55], il gruppo di pazienti trattati con molidustat ha mostrato un’incidenza di declino della funzione renale lievemente maggiore rispetto al gruppo di pazienti trattati con darbepoetina (19.5% vs 11.4%). Per chiarire il possibile effetto nefroprotettivo degli HIF-PHi sono quindi necessari ulteriori studi, possibilmente disegnati con l’obiettivo primario di valutare la progressione del danno renale.

Risultati contrastanti si sono ottenuti anche in merito all’impatto dell’utilizzo degli HIF-PHi sulla qualità di vita correlata alla salute (HRQoL). Tra gli studi di comparazione tra HIF-PHi e placebo, solo lo studio ASCEND-NHQ [34] ha riportato un aumento del punteggio di vitalità SF-36 nei pazienti trattati con daprodustat rispetto al gruppo placebo (7.3 rispetto a 1.9 punti), mentre altri studi non hanno evidenziato cambiamenti nei parametri di HRQoL [30-32]. Allo stesso modo, negli studi di comparazione tra HIF-PHi ed ESA, solo nello studio PYRENEES [50] si è osservato un miglioramento della HRQoL nei pazienti trattati con roxadustat rispetto ad ESA, mentre i due trattamenti risultavano simili in altri studi [36, 53].

 

Sicurezza della terapia con HIF-PHi

Per quanto riguarda il profilo di sicurezza di tali farmaci e l’insorgenza di possibili effetti collaterali, negli studi comparativi con placebo l’incidenza di eventi avversi è risultata simile tra placebo e HIF-PHi e il tasso di sospensione della terapia a causa di eventi avversi è stato superiore nei gruppi placebo [30, 31, 33, 34]. Anche negli studi con comparatore attivo l’incidenza complessiva di eventi avversi è stata simile nei due bracci di trattamento, sebbene nei gruppi di pazienti trattati con HIF-PHi di sia osservata una maggior incidenza di disturbi gastrointestinali [32, 44, 49, 50, 53, 56] e una maggiore probabilità di ritirarsi dallo studio a causa di eventi avversi [33, 36, 37, 40, 41, 45-47, 50, 52, 53]. In particolare, gli studi condotti finora hanno indagato la sicurezza degli HIF-PHi per quanto concerne il rischio di mortalità da tutte le cause, mortalità da cause CV, incidenza di eventi CV, eventi trombotici, neoplasie, retinopatia e ipertensione arteriosa.

Per quanto riguarda il rischio di mortalità, la terapia con HIF-PHi non ha comportato maggior rischio in nessuno degli studi clinici, e questo dato è stato confermato anche da tre metanalisi che hanno analizzato congiuntamente i dati degli studi clinici disponibili [35, 57, 58].

Evidenze riguardo a un maggior rischio di eventi cerebrovascolari e tromboembolici nei pazienti con policitemia dovuta a mutazioni genetiche del sistema HIF [27], nonché a una maggiore accelerazione della calcificazione vascolare in corso di attivazione del sistema HIF [11], hanno fatto emergere dei leciti dubbi sulla sicurezza CV della terapia con HIF-PHi. Tuttavia, la maggior parte degli studi di fase 3 dimostrano una non inferiorità della terapia con HIF-PHi rispetto sia al placebo che alla terapia con ESA per quanto concerne l’insorgenza di eventi CV [31, 35, 36, 38, 44-46, 48, 50, 60]. Successivamente, una metanalisi di otto studi clinici comprendenti 3839 pazienti con MRC in dialisi e 4406 con MRC non ancora in dialisi, ha mostrato un’incidenza di eventi avversi CV maggiori (MACE) significativamente minore nei pazienti trattati con daprodustat rispetto a ESA (RR 0.89, IC al 95% 0.89-0.98) nei pazienti dializzati, ma non nella coorte di pazienti con MRC in terapia conservativa [59]. Questo dato però non si è confermato in altre metanalisi che non hanno osservato differenze significative, come quella che ha confrontato daprodustat con ESA in tre studi giapponesi condotti su pazienti con dializzati e non [60], e il lavoro condotto da Xiong et al. che ha confrontato vadadustat con placebo (4 studi) o darbepoetina alfa (6 studi) in pazienti dializzati e non [58]. Al contrario, negli studi PRO2TECT [40] e MIYABI ND-C [42] i pazienti non dializzati trattati con HIF-PHi hanno mostrato un rischio più elevato di MACE rispetto ai pazienti trattati con darbepoetina alfa. Tuttavia, nel primo studio questa differenza risultava principalmente determinata dal sottogruppo di pazienti con un target di emoglobina più elevato (10-12 g/dL rispetto a 10-11 g/dL), così come potrebbe essere spiegata nel secondo studio in cui il target di emoglobina preposto era di 11-13 g/dL. I risultati sono quindi eterogeni, e ulteriori studi sono necessari per valutare in modo mirato il rischio di eventi CV sulla base del tipo di terapia, della comorbidità e dei livelli di emoglobina ed ematocrito.

Particolare attenzione va posta sul rischio di eventi trombotici. Infatti, alcuni studi e metanalisi hanno mostrato che la terapia con HIF-PHi può associarsi a un aumento di rischio di trombosi dell’accesso arterovenoso [35, 38, 44-46], trombosi venosa profonda [35, 45, 61] e tromboembolia polmonare [35]. Tuttavia, questi dati non si sono confermati in altri studi e metanalisi che hanno riscontrato tassi di eventi tromboembolici simili o addirittura inferiori in corso di terapia HIF-PHi rispetto ad ESA [33, 49, 51].

Alcuni studi hanno anche analizzato eventuali associazioni dell’utilizzo di HIF-PHi con il rischio di eventi neoplastici. Infatti, l’attivazione del sistema HIF può portare all’espressione di fattori con potenziale effetto pro-oncogenico, come il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF) [27]. Finora, solo due studi hanno mostrato dati che supportano tale associazione. Nello studio ASCEND-ND [38] il rischio di esiti correlati a neoplasia (comprensivi di morte per tumore o progressione o recidiva del tumore) era più alto nei pazienti trattati con daprodustat rispetto a quelli trattati con ESA (RR 1.47; IC 95% 1.03-2.10). Nello studio MIYABI HD-M [37] si è registrata una maggiore incidenza di neoplasie nel braccio molidustat rispetto a darbepoetina (9.8 rispetto a 5.3%). Tuttavia, né la metanalisi condotta da Provenzano et al. sui pazienti con MRC non in dialisi randomizzati a roxadustat o placebo, né quella condotta da Nangaku et al. su pazienti con MRC dializzati e non, randomizzati a daprodustat o ESA, hanno confermato l’aumentato rischio per neoplasie maligne o eventi correlati [35].

È stato anche ipotizzato che l’effetto di neovascolarizzazione indotto dall’attivazione di HIF-PHi, e verosimilmente mediato da VEGF, peggiori alcune patologie oculari, come la retinopatia diabetica [11, 27]. Anche a questo riguardo, i risultati degli studi a disposizione sono contrastanti. Da un lato gli studi SYMPHONY-ND [37], SYMPHONY-HD [49], MIYABI HD-M [37] e ASCEND-ID [48] hanno evidenziato un aumento degli eventi avversi oculari nei pazienti trattati con HIF-PHi. Viceversa, altri studi e metanalisi non hanno rilevato differenze nel rischio di eventi oculari né aggravamento di malattie retiniche pre-esistenti [37, 39, 41].

Così come per l’utilizzo di ESA, anche la terapia con HIF-PHi sembra associarsi a una maggiore incidenza di ipertensione arteriosa rispetto al placebo, come evidenziato dalla metanalisi di Provenzano et al. (RR 1.37; IC 95% 1.13-1.65) [35]. Infatti, nella maggior parte degli studi comparativi di HIF-PHi ed ESA non si sono osservate significative differenze nello sviluppo di ipertensione, né nei pazienti con MRC in terapia conservativa né in dialisi [37, 38, 40, 43, 44, 46, 49, 50, 52]. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono un effetto benefico dell’utilizzo di HIF-PHi rispetto all’ESA dimostrato da una minore richiesta di titolazione della terapia antipertensiva, il che sarebbe coerente con un possibile effetto di riduzione della pressione arteriosa da parte degli HIF-PHi come sembrava emergere dai precedenti studi di fase 2 [33, 39, 41, 51-53].

 

Conclusioni e prospettive future

Gli HIF-PHi offrono un nuovo approccio farmacologico efficace per la correzione dell’anemia in corso di MRC. Tuttavia, il sistema HIF è ubiquitario e svolge diverse funzioni, ancora non del tutto conosciute. Quindi oltre alla correzione dell’anemia, la stabilizzazione del sistema HIF media anche una serie di percorsi metabolici e di espressione genica con alcuni effetti favorevoli, ma anche sfavorevoli. Tra gli altri effetti benefici si annoverano la migliore biodisponibilità delle riserve di ferro e la riduzione dei livelli di colesterolo (sebbene non sia ancora noto se questo possa avere un impatto sul rischio CV). Inoltre, gli HIF-PHi potrebbero avere un ruolo nefroprotettivo nei confronti del danno renale ipossico, ma ulteriori studi sono necessari per testare questa ipotesi. Tra i possibili svantaggi dell’utilizzo di questi farmaci vanno invece annoverati il rischio di una maggior incidenza di eventi CV, tromboembolici, retinici e tumorali. Sebbene siano stati pubblicati diversi ampi studi di fase 3, questi valutano gli eventi avversi in un numero relativamente limitato di pazienti e in un periodo di trattamento relativamente breve (52-104 settimane), e ulteriori evidenze emergeranno con il loro progressivo utilizzo nel lungo termine. Inoltre, alcuni gruppi specifici di pazienti, tra cui i pazienti trapiantati, quelli con gravi malattie CV, e quelli con malattie infiammatorie, sono stati esclusi dagli studi clinici di fase 3 ad oggi disponibili e l’efficacia e sicurezza dell’utilizzo di HIF-PHi in queste popolazioni devono ancora essere verificati.

Regolazione dell’attività di HIF-1 in condizioni di normossia e ipossia.
Figura 1. Regolazione dell’attività di HIF-1 in condizioni di normossia e ipossia. Abbrev: PHDs: prolil-idrossilasi; pVHL: proteina Von Hippel Lindau; OH: proline idrossilate; HRE: elementi di risposta all’ipossia; Ub: ubiquitina; CBP: proteina legante gli elementi di risposta dell’adenosina monofosfato ciclico.

 

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Quasi quarant’anni di terapia eritropoietinica: successi e limiti

Abstract

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica; se severa e non trattata comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumentato rischio di ricorrere a emotrasfusioni.
Partendo dagli studi di fisiopatologia iniziati alla fine dell’Ottocento e poi proseguiti nel XX secolo, si è arrivati prima all’identificazione dell’eritropoietina, poi alla sua purificazione, identificazione del gene coinvolto e infine alla sintesi dell’eritropoietina ricombinante umana e dei suoi analoghi “long-acting”.
Oggi la terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), spesso in associazione alla terapia marziale, rappresenta lo standard di cura dei pazienti con malattia renale cronica e anemia. Recentemente agli ESA si sono aggiuntigli inibitori della HIF-PHD. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.
Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA e HIF-PHD deve essere personalizzata sia in termine di target di emoglobina, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

Parole chiave: anemia, malattia renale cronica, eritropoietina, agenti stimolanti l’eritropoiesi malattia cardiovascolare, inibitori della HIF-PHD

Introduzione

L’anemia è una complicanza frequente della malattia renale cronica (MRC). Essa è una condizione multifattoriale, determinata principalmente da una carenza relativa di eritropoietina dai reni malati rispetto al grado di anemia. Oltre a ciò, è spesso presente una carenza marziale, relativa o assoluta, e uno stato infiammatorio cronico che contribuisce a un ridotto assorbimento intestinale di ferro e al sequestro dei depositi marziali e a una ridotta sensibilità del midollo osseo allo stimolo eritropoietico, sia esso endogeno o esogeno. Infine, diversi dati in letteratura hanno evidenziato la presenza di una ridotta sopravvivenza eritrocitaria, il contributo negativo di un aumento dello stress ossidativo, dell’iperparatiroidismo secondario, se di grado severo e dell’accumulo di tossine uremiche aggravato dai pazienti in dialisi da una dose dialitica insufficiente. Inoltre, nei pazienti in emodialisi, contribuiscono alla carenza marziale le perdite di sangue che rimane sequestrato nelle linee e filtri di dialisi dopo la reinfusione al termine della seduta dialitica. Infine, sono da considerare i frequenti prelievi ematici, le aumentate perdite gastro-intestinali, molto frequenti e spesso occulte nei pazienti con MRC, specialmente in emodialisi, la frequente malnutrizione, spesso severa, la carenza di folati e vitamina B12 e le frequenti neoplasie.

La comparsa di anemia è influenzata dalla severità della MRC; si stima che circa l’80% dei pazienti in dialisi nei sia affetto, con la conseguente necessità di ricevere una terapia con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA) e/o ferro.

Si parla di anemia quando i valori di emoglobina (Hb) scendono al di sotto del limite di normalità definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In particolare, nei pazienti con MRC si parla di anemia nei soggetti con concentrazione di Hb <13.0 g/dL negli uomini e <12.0 g/dL nelle donne [1].

In ambito nefrologico è ancora oggetto di dibattito quando e se l’anemia non di grado severo debba essere trattata. I dati di numerosi studi osservazionali hanno evidenziato con chiarezza che i pazienti con valori di Hb normali in assenza di terapia hanno la prognosi migliore. D’atra parte, una lieve anemia nella MRC viene considerata quasi parafisiologica e in parte protettiva dal rischio di trombosi o eventi cardiovascolari. Al contrario, la presenza di anemia severa si associa ad un aumento della mortalità cardiovascolare o da tutte le cause, del rischio di ospedalizzazione e della necessità di dovere ricorrere a emotrasfusioni. Sappiamo inoltre che l’anemia, quando severa, può peggiorare in modo significativo la qualità della vita e contribuire alla comparsa di cardiopatia.

Oggi gli ESA e la terapia marziale rappresentano il “gold standard” della terapia dell’anemia nella MRC. Ad esse si sono aggiunti solo da poco tempo gli inibitori della HIF-PHD [2]. Quest’ultimi si differenziano dagli ESA perché stimolano la produzione dell’eritropoietina endogena, sono somministrati per via orale e non parenterale, non necessitano della conservazione in frigorifero, potrebbero essere più efficaci nei pazienti infiammati e, infine, potrebbero aumentare l’assorbimento del ferro e la sua disponibilità dai siti di deposito.

 

La scoperta dell’eritropoietina

La storia dell’eritropoietina ha origine agli inizi del secolo scorso (1905), quando Carnot e Deflandre ipotizzarono l’esistenza di un fattor umorale, capace di regolare la sintesi dei globuli rossi. Trent’anni dopo (1936), Hjort dimostrò e confermò l’esistenza di questo fattore.

Negli anni ’50, Erslev dimostrò che la trasfusione di grandi quantità di plasma da ratti anemici in ratti normali determinava un aumento significativo dei reticolociti e, a seguire, dell’ematocrito [3]. L’EPO umana è stata infine purificata per la prima volta nel 1977 dalle urine di un paziente affetto da anemia aplastica [4]; il suo gene è stato poi clonato nel 1984 con la tecnica del DNA ricombinante [5, 6]. Veniva presto notato che l’eritropoietina ottenuta dal lievito o da Escherichia coli aveva una debole attività o era inefficace, mentre quella prodotta dal criceto cinese aveva un’attività nettamente superiore, a causa di differenti pattern di glicosilazione. Fu proprio quest’ultima modalità che venne scelta per lo sviluppo clinico dell’eritropoietina ricombinante umana (HuEPO) per la cura dell’anemia.

L’introduzione della rHuEPO nella pratica clinica alla fine degli anni ’80 ha rappresentato un’importante svolta nel trattamento dell’anemia dei pazienti con MRC. L’epoetina alfa, la prima a essere stata introdotta, è una glicoproteina di 34000 dalton, composta, come l’ormone nativo, da 165 aminoacidi. La parte proteica rappresenta il 60% del peso della molecola, mentre la componente polisaccaridica ne rappresenta il 40%. Sono inoltre presenti siti di glicosilazione che determinano una struttura globulare compatta contenente quattro alfa eliche.

 

Dagli albori della terapia con eritropoietina alla ricerca del target di emoglobina ottimale

Negli anni ’60 i pazienti con MRC si presentavano con sintomi di estrema stanchezza, dovuti alla severa anemia, associata ad una progressiva ritenzione di tossine uremiche. In quegli anni, il trattamento dell’anemia risultava complicato e molto insoddisfacente, ed erano spesso necessarie ripetute trasfusioni per consentire una correzione dell’anemia che, tuttavia, era solo in grado di consentire una sopravvivenza, ma era associata ad una pessima qualità di vita. Inoltre, le necessarie periodiche trasfusioni comportavano un elevato rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e causavano enorme accumulo di ferro nel reticolo-endotelio, fegato compreso. Il ferro accumulato doveva a sua volta essere rimosso, per evitare i danni d’organo da eccessivo accumulo. Tuttavia, i chelanti del ferro, a base di desferriossamina, erano gravati da serie complicanze come la mucoviscidosi.

La pubblicazione del lavoro di Eschbach quasi 40 anni fa [7], relativo al trattamento dell’anemia con gli ESA, ha rivoluzionato la qualità̀ della vita dei pazienti con MRC. Si può quindi immaginare l’enorme entusiasmo con cui fu accolta da medici, infermieri e poi soprattutto dai pazienti, la possibilità di poter utilizzare l’eritropoietina ricombinante per il trattamento dell’anemia renale, in una prima fase per i soli pazienti in dialisi, ma successivamente anche per i pazienti in terapia conservativa. Pazienti che a malapena sopravvivevano con livelli di Hb anche inferiori a 5 g/dl, con una stanchezza indicibile e con innumerevoli sintomi, allora attribuiti all’intossicazione uremica, tornavano a vivere, vedendo sparire, o almeno drasticamente ridursi molti dei loro sintomi. Un’iniezione di eritropoietina nelle linee dei filtri di dialisi, 3 volte alla settimana, bastava a procurare ai pazienti un recupero di relativo benessere, comunque incomparabile rispetto alla situazione clinica precedente.

Un’intuizione ad utilizzare la somministrazione sottocute del farmaco anziché endovenosa, facilitò l’estensione dell’uso del farmaco anche ai pazienti in terapia conservativa, in dialisi peritoneale e successivamente anche ai trapiantati di rene, qualora la loro funzione renale si fosse deteriorata. La somministrazione sottocute evidenziò anche un altro vantaggio, per via di una più bassa concentrazione ematica dell’eritropoietina (alti dosaggi, come noto, sono potenzialmente associati a danneggiamento dell’endotelio dei vasi sanguigni) ed una più prolungata persistenza in circolo, consentendo la riduzione della frequenza di somministrazione a due ed anche una sola volta alla settimana, oltretutto con un risparmio del 30% della dose [8]. Tutto questo ha portato ad un radicale cambio di paradigma rispetto a quanto si era fatto sino ad allora. Era, infatti, necessaria una contemporanea somministrazione di ferro, non solo per la nota frequente carenza di ferro nei pazienti con MRC che non ricevevano più trasfusioni, perché non più necessarie, ma anche per la necessità di avere ferro sufficiente per produrre un’ulteriore quantità di globuli rossi per mantenere gli adeguati livelli di Hb, consentiti dal trattamento con eritropoietina.

Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti, che si arrivò ad una correzione troppo rapida ed eccessiva dei valori di Hb, con conseguenti complicanze, come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. Oggi si usa più cautela rispetto a quegli anni e i rialzi pressori sono spesso impercettibili, in quanto la correzione dell’anemia inizia gradualmente ed a livelli di Hb solitamente non inferiori a 10 g/dL, per raggiungere e mantenere un target di 10-12 g/dL, come suggerito dal “position statement” pubblicato sull’argomento dalla European Renal Best Practice (ERBP) [9].

Non c’è dubbio quindi che gli ESA siano farmaci efficaci, in grado di correggere l’anemia e mantenere adeguati livelli di Hb nella maggioranza dei pazienti con CKD, migliorando il loro senso di fatica e, più in generale, la loro qualità̀ di vita, riducendo drasticamente la necessità trasfusionale, vantaggio non da poco, anche in previsione di un eventuale successivo trapianto. Inoltre, gli studi osservazionali hanno evidenziato una chiara associazione positiva tra livelli di Hb e sopravvivenza, suggerendo l’esecuzione di trial randomizzati, con l’intento di dimostrare i vantaggi di una completa normalizzazione dei livelli di Hb. Ma i risultati hanno deluso le notevoli aspettative. Un trial randomizzato con pazienti in dialisi [10] e ben tre trial randomizzati con pazienti in fase conservativa [11-13], tra cui molti diabetici (20% nel CREATE [11], 50% nel CHOIR [12] e 100% nel TREAT [13]), hanno complessivamente dimostrato che l’uso degli ESA, con l’intento di raggiungere livelli di Hb più̀ elevati rispetto alla pratica clinica di allora, poteva avere un effetto neutro o addirittura aumentare il rischio di morte o eventi cardiovascolari.

Molto interessante è stata l’osservazione che l’aumento del rischio di complicanze si verificava soprattutto nei pazienti che non erano in grado di raggiungere i target di Hb prefissati dai trial, indipendentemente dal fatto che fosse il target più̀ alto o più̀ basso, nonostante (o forse anche per questo) l’uso di dosaggi elevati di ESA per cercare di raggiungere i target. È stato quindi ipotizzato che l’ipo-responsività agli ESA e, di conseguenza l’uso di dosi elevate di ESA, fossero fattori prognostici negativi più̀ significativi rispetto al raggiungimento di valori di Hb più elevati [14, 15]. Preoccupante era anche il rischio d’insorgenza di neoplasia o la progressione di un’eventuale neoplasia già̀ in essere [13]. D’altra parte, cercare di raggiungere valori di Hb più̀ elevati non aveva prodotto un chiaro e clinicamente significativo miglioramento della qualità̀ della vita (anche se una rianalisi dei dati dello studio TREAT ha mostrato un significativo miglioramento [16]). Di conseguenza le linee-guida internazionali (KDIGO [1], ERBP [9], NICE [17], KDOQI [18] e CARI [19]) sono state tutte concordi nel suggerire un approccio cauto, bilanciando i pro e i contro del trattamento in modo personalizzato e correggendo solo parzialmente l’anemia con gli ESA. In Europa si suggerisce un valore target di Hb compreso tra 10 g/dL e 12 g/dL [9], mentre le linee-guida KDIGO [1] e KDOQI [18] hanno un atteggiamento più conservativo, suggerendo valori di Hb <10 g/dL per iniziare il trattamento con ESA e la sospensione della terapia nei pazienti in fase conservativa o in dialisi la cui Hb superi 11,5 g/dL. Vi è, comunque, comune accordo che non si debba intenzionalmente cercare di raggiungere intenzionalmente valori di Hb >13 g/dL.

Nel valutare le scelte non uniformi dei target di Hb, vale la pena ricordare che la pubblicazione di questi trial è stata contemporanea al cambiamento della politica di rimborso del trattamento dialitico negli Stati Uniti, applicando il “bundle” (tutto incluso). Il rimborso dell’ESA è ora incluso nella tariffa forfettaria per il rimborso del costo del trattamento del paziente con CKD in dialisi, provocando una possibile influenza economica sulle indicazioni al trattamento, dosi da usare e target da raggiungere. L’introduzione del “bundle” ha fatto sì che trattare il paziente con ESA si traducesse in una perdita economica per la struttura, a causa del costo del farmaco, senza rimborso aggiuntivo.

 

Indicazioni attuali alla terapia con ESA sull’inizio della terapia

Il trattamento con ESA deve essere avviato dopo avere appurato la presenza di adeguate riserve marziali, vitaminiche ed esclusa la presenza di sanguinamenti attivi o altre cause di anemia potenzialmente curabili.

Il timing ottimale su quando iniziare la terapia con ESA è un argomento ancora controverso, come confermato dal fatto che le diverse linee guida-position papers danno indicazioni tra loro diverse.

Le linee guida KDIGO del 2012 sconsigliano di iniziare il trattamento con ESA in pazienti con MRC di stadio V per valori superiori a 10 g/dL, senza indicare una soglia oltre la quale si debba iniziare necessariamente la terapia con ESA. Per i pazienti in dialisi viene consigliato d’iniziare la terapia con ESA per valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

L’anno successivo è stato pubblicato il position paper dell’ERBP, che si discosta dalle Linee Guida KDIGO in alcuni punti. In particolare, viene consigliato in generale d’iniziare la terapia con ESA nei pazienti con valori di Hb <10 g/dL. Veniva inoltre consigliato di tenere in considerazione il tasso di caduta della concentrazione di Hb, la precedente risposta alla terapia con ferro, il rischio di dover ricorrere a una trasfusione, i rischi correlati alla terapia con ESA e alla presenza di sintomi attribuibili all’anemia. Come nelle KDIGO, nel caso dei pazienti in emodialisi le ERBP consigliano di iniziare la terapia con ESA in caso di valori di Hb compresi tra 9 e 10 g/dL.

Sempre nel 2013 le linee guida KDOQI e della società canadese di nefrologia hanno fornito i medesimi valori come cut-off per cominciare la terapia con ESA.

Il gruppo di lavoro del National Institute for Health and care excellence (NICE) suggeriscono di iniziare il trattamento con ESA a valori di Hb <11 g/dL indifferentemente dalla classe di MRC o se fosse in terapia conservativa o in dialisi.

Nel 2025 sarà probabilmente disponibile la versione aggiornata delle linee guida KDIGO sulla terapia dell’anemia. Non si prevedono modifiche sostanziali su quando iniziare la terapia con ESA o sul target di Hb a cui mantenere i pazienti durante la terapia, ma ci saranno indicazioni relative agli HIF-PHD inibitori.

 

L’eritropoietina ricombinante umana, i suoi biosimilari e le molecole long-acting

L’epoetina alfa e l’epoetina beta sono praticamente uguali all’eritropoetina endogena, di cui conservano la medesima struttura aminoacidica, mentre differiscono minimamente nella componente glucidica. Per la loro relativamente breve emivita (8 ore se somministrate endovena, 24 ore se somministrate per via sottocutanea), vengono definite “short-acting”. Dai primi studi di registrazione, inizialmente il loro uso era raccomandato con somministrazioni trisettimanali, soprattutto se in fase di correzione. Si è poi visto che, in realtà, possono essere somministrati anche in modo più dilazionato, fino a una volta al mese, soprattutto nei pazienti con basse necessità di dosaggio. Tuttavia, la frequenza dilazionata viene ottenuta spesso a prezzo di un aumento della dose somministrata e di escursioni al di sopra ma anche al di sotto della zona ottimale di stimolo alla produzione di Hb (aumentato rischio cardiovascolare legato alle elevate concentrazioni ematiche e, all’opposto, apoptosi dei globuli rossi quando si scende al disotto di determinati livelli di concentrazione ematica).

Dopo l’immissione in commercio delle prime due epoetine, la ricerca scientifica ha cercato di modificare la struttura dell’eritropoietina, per migliorarne la farmacocinetica e la farmacodinamica, e poterne quindi dilazionare la frequenza di somministrazione. La prima molecola “long-acting” ottenuta, in ordine cronologico, è la darbepoetina alfa. Essa si differenzia dall’eritropoietina ricombinante umana nella struttura aminoacidica per due sostituzioni; ciò permette alla molecola di avere due ulteriori catene di carboidrati attaccate con legame azotato, che ne modificano la struttura tridimensionale e ne aumentano il peso molecolare. La molecola ottenuta ha una ridotta affinità recettoriale rispetto all’eritropoietina, ma un’emivita più lunga (24 ore per via endovenosa, 48 ore per via sottocutanea, ma sono riportate in letteratura anche durate maggiori) [20]. Può essere quindi somministrata con frequenza monosettimanale, fino ad arrivare a quella mensile, senza le problematiche evidenziate per le eritropoietine “short-acting”.

La seconda molecola “long-acting” è il metossipolietilene glicol epoetina beta, ottenuta mediante pegilazione con legame covalente [21]. La molecola ha un peso molecolare ancora più elevato della darbepoetina alfa, un maggior ingombro sterico, una minore affinità recettoriale e un’emivita ancora più lunga (tra le 100 e le 130 ore, sia per via sottocutanea che endovenosa). Viene somministrata con frequenza mensile. Come per la darbepoetina alfa, e differenziandosi dalle molecole “short-acting”, se somministrata per via endovenosa, non comporta la necessità di aumentare la dose rispetto alla somministrazione endovenosa. Inoltre, le molecole “long-acting” si differenziano da quelle “short-acting” per una maggiore stabilità a temperatura ambiente e quindi possono essere conservate anche per giorni fuori dal frigorifero prima di essere somministrate, se la temperatura ambiente è ottimale. Come per l’insulina, ciò può avvenire una sola volta. Come per gli “short-acting”, le molecole “long-acting” necessitano quindi di una stretta catena del freddo, partendo dai siti produttivi, passando al trasporto e poi all’immagazzinamento della catena distributiva, fino ai luoghi dove il farmaco viene conservato prima della somministrazione.

Circa 10 anni fa, è entrata in commercio negli Stati Uniti, per brevissimo tempo, un’altra molecola “long-acting”, la peginesatide. Essa si differenzia dagli altri ESA perché non è ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante, dato che è una molecola di sintesi. Si tratta di un piccolo peptide, in grado di essere riconosciuto dal recettore dell’eritropoietina e determinarne l’attivazione, a cui è stata aggiunta una catena di carboidrati mediante pegilazione, per aumentarne l’emivita e renderlo utilizzabile in ambito clinico [22]. Il farmaco era estremamente interessante, perché aveva le caratteristiche delle molecole “long-acting”, ma con un processo produttivo molto più semplice ed economico, senza necessità di essere conservato in frigorifero e con un prezzo finale di vendita negli Stati Uniti persino inferiore o simile a quello dei biosimilari. Purtroppo, il farmaco è stato ritirato dal commercio solo dopo qualche mese a seguito di alcune severe reazioni allergiche, anche mortali [23]. Inoltre, nei pazienti con MRC in fase conservativa I pazienti randomizzati a peginesatide avevano avuto un rischio aumentato di raggiungere endpoint cardiovascolari (in particolare morte, angina instabile e aritmie) rispetto a quelli assegnati al trattamento con darbepoetina alfa [24]. In epoca recente, lo sviluppo clinico del farmaco è stato ripreso da una compagnia cinese [25].

In generale, la terapia con ESA è costosa. Al termine della durata del brevetto prima dell’epoetina alfa, poi dell’epoetina beta e della darbepoetina alfa, sono stati sviluppati diversi biosimilari di queste molecole, con il fine ultimo di potere abbassare i costi della terapia. Questo ha comportato a sua volta una riduzione del prezzo di vendita anche delle molecole “originator”, con un risparmio economico significativo. Allo scadere del brevetto, infatti, la struttura della molecola viene resa nota e quindi copiabile. Al contrario, il processo produttivo resta esclusivo dello sviluppatore del farmaco. Ne consegue che i produttori di biosimilari hanno dovuto sviluppare a loro volta i processi produttivi delle molecole, che in quanto biosimilari e non farmaci generici, hanno caratteristiche simili, ma non identiche alla molecola “originator”. In Europa e negli Stati Uniti la “European Medicine Agency (EMA) e la “Food and Drug Administration” (FDA) hanno sviluppato una precisa e stretta regolamentazione per lo sviluppo ed immissione in commercio dei farmaci biosimilari (definizione riservata dall’EMA ai farmaci approvati, mentre quelli non approvati sono definite copie), garantendo un profilo di sicurezza ed efficacia accettabili e stabilendo un range massimo di variabilità rispetto alla molecola “originator” [26]. Tuttavia, proprio perché il processo produttivo non è identico a quello del suo “originator”, piccole differenze possono portare alla produzione di lotti con efficacia diversa (sia maggiore che minore) o con una maggiore immunogenicità, con conseguente rischio di sviluppare una rara complicanza della terapia con ESA, l’aplasia midollare della serie rossa. Tale complicanza, non esclusiva dei biosimilari, ma descritta anche per gli “originator”, è stata principalmente riportata quando il farmaco viene somministrato per via sottocutanea [27]. Al contrario, il rischio di sviluppare aplasia midollare della serie rossa dopo somministrazione endovenosa è praticamente nullo. In generale quindi, è preferibile evitare di sostituire la molecola di ESA in corso di terapia con somministrazione sottocutanea, se non in presenza di motivazioni cliniche rilevanti. Al contrario il passaggio da una molecola ad un’altra risulta essere una pratica meno rischiosa, e ormai diffusa in ambito clinico, nei pazienti che ricevono il farmaco per via endovenosa (ad esempio quando iniziano il trattamento emodialitico sostitutivo) [28].

Pur se con differente affinità recettoriale ed emivita, tutti gli ESA hanno il medesimo meccanismo d’azione, riconoscendo tutti il recettore dell’eritropoietina e determinandone l’attivazione. Tuttavia, proprio le differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche delle molecole potrebbero comportare sottili differenze nella modalità di attivazione del recettore, che potrebbero portare all’attivazione di diverse cascate enzimatiche [29]. Inoltre, i diversi picchi ematici di eritropoietina potrebbero comportare l’attivazione del recettore dell’eritropoietina su tessuti diversi, con differenti effetti pleiotropici (sia positivi che negativi). I nefrologi si sono concentrati per quasi due decenni sull’individuazione del target migliore di Hb a cui mirare con la terapia con ESA e hanno considerato solo in modo marginale la possibilità che le diverse molecole di ESA potessero avere un profilo di sicurezza tra loro differente. Peraltro, alcuni studi e metanalisi non avevano evidenziato segnali di rischio in tal senso [30]. Tuttavia, uno studio osservazionale giapponese di registro, su circa 200.000 pazienti, ha riportato un aumento del rischio di morte per ogni causa e per cause cardiovascolari nei pazienti trattati con molecole “long-acting” rispetto a quelle “short-acting” [31]. Questo era particolarmente vero nei soggetti trattati con elevate dosi di ESA. Lo studio però presentava una serie di bias che ne complicano l’interpretazione. In particolare, per motivi di rimborsabilità, i pazienti con elevati necessità di dose di ESA short acting (9.000 U.I./settimana) erano obbligatoriamente (autorità regolatorie giapponesi) passati a long acting. Inoltre, una quota importante di pazienti era stata esclusa dall’analisi per assenza di informazioni sulla terapia in corso con eritropoietina [31].

Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti dallo studio DOPPS (Dialysis Outcomes and Practice Patterns Study), ma per il solo Giappone, ovviamente, essendo il database lo stesso. Al contrario, il rischio di morte era sovrapponibile, o addirittura inferiore, tra le molecole “short-acting” e “long-acting” nei pazienti americani ed europei.

Anche uno studio randomizzato, effettuato per fine registrativi di farmacovigilanza su una popolazione mista di pazienti in dialisi e non, non ha dimostrato differenze nel rischio di sviluppare eventi cardiovascolari o morte tra il trattamento con metossipolietilene glicol epoetina beta o altri ESA [32]. Dati opposti sono stati ottenuti da un altro studio osservazionale italiano, effettuato in pazienti con MRC in fase conservativa, con evidenza di un possibile aumento del rischio di morte e rischio di dialisi nei trattati con molecole “short-acting” ad alto dosaggio [33].

Recentemente, un’analisi di circa 60.000 pazienti emodializzati con Medicare negli Stati Uniti ha mostrato, come lo studio italiano sopracitato, un aumento del rischio di morte in chi riceveva le molecole “short-acting” rispetto alle “long-acting”, senza nessuna differenza sul rischio di endpoint cardiovascolari maggiori (MACE) [34].

Complessivamente, come anche dimostrato da una recente metanalisi, l’utilizzo delle singole molecole di ESA non sembra avere relazione con il rischio di morte ed eventi cardiovascolari se vengono rispettate le frequenze di somministrazione autorizzate [35]; i dati disponibili a supporto di possibili differenze sembrano essere influenzati principalmente da bias prescrittivi.

 

Le ombre della terapia con gli agenti stimolanti l’eritropoiesi

La terapia con ESA è, ormai da decenni, largamente diffusa nel mondo per la cura dell’anemia nei pazienti con MRC. Il farmaco si è dimostrato nel tempo relativamente sicuro e ben tollerato, anche grazie all’acquisizione da parte dei clinici di una maggiore esperienza nell’utilizzo di queste molecole.

Il recettore per l’eritropoietina umana, quando attivato dall’ormone, viene internalizzato, subisce un processo di degradazione dell’eritropoietina ad esso legato e viene nuovamente reso disponibile in superficie per un nuovo legame, evitando la saturazione dei recettori in superficie. Questa particolare cinetica è condizionata dalla concentrazione dell’ormone, rendendo possibile un’attivazione massiccia in caso di anemia severa [36]. Al contrario, però, manca un sistema di protezione in caso di utilizzo dell’eritropoietina esogena, soprattutto quando utilizzata ad alte dosi.

È noto che il recettore dell’eritropoietina è presente in diversi tessuti, tra cui il sistema nervoso centrale, l’endotelio, i cardiomiociti e le cellule lisce muscolari. Negli anni sono stati ipotizzati numerosi effetti pleiotropici, una parte di questi protettivi sia a livello cardiaco [37, 38] che neurologico [39-41].

D’altro canto, diversi dati sperimentali sono a supporto di una possibile azione dell’eritropoietina, soprattutto se somministrata ad alte dosi, nell’accentuare il rischio di trombosi ed eventi cardiovascolari, in modo indipendente dal solo aumento della viscosità ematica dato dalla correzione dell’anemia. Ad esempio, nelle cellule endoteliali, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione di attivazione endoteliale, aumento dell’angiogenesi e produzione di endotelina 1 [42, 43]. Il meccanismo potrebbe essere accentuato dalla presenza di ischemia [44]. Il recettore dell’eritropoietina è espresso anche sui megacariociti, dove potrebbe accelerarne sia la maturazione e l’attività pro-trombotica [45]. È ancora oggi controverso come e in quale misura queste evidenze sperimentali possano contribuire ad un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA. Sebbene i primi studi effettuati con gli ESA non fossero finalizzati a dimostrare un effetto cardiovascolare, non hanno messo in luce un aumentato rischio di morte rispetto a placebo per valori di Hb intorno ai 10 g/dL [46]. Al contrario, la correzione dell’anemia severa comporta vantaggi in termini di miglioramento della qualità della vita, riduzione della necessità di emotrasfusioni e riduzione della massa ventricolare sinistra [47].

L’utilizzo degli ESA negli anni ’90 e 2000 in trial randomizzati, come trattato nella precedente sezione sul target ottimale di Hb a cui mirare con la terapia, ha invece messo in luce con chiarezza un aumentato rischio cardiovascolare e trombotico nei pazienti trattati con ESA a target di Hb prossimi alla normalizzazione. Risultano essere a particolare rischio di complicanze i pazienti affetti da diabete, con precedenti eventi cardiovascolari, o affetti da arteriopatia agli arti inferiori. È inoltre emerso che la presenza d’infiammazione e d’iporesponsività alla terapia con ESA possano rappresentare ulteriori ed importanti fattori di rischio per le complicanze trombotiche e cardiovascolari in corso di terapia [48-50].

Un’altra ombra della terapia con ESA riguarda un possibile effetto pro-oncogenico. Tale preoccupazione nasce in primis dal fatto che l’eritropoietina è un fattore di crescita. Oltre a ciò, negli anni la ricerca di base ha dimostrato l’espressione del recettore dell’eritropoietina nelle cellule tumorali; restano però ancora dubbi sull’entità della loro attivazione, soprattutto in corso di terapia con ESA, e il loro ruolo prognostico [51]. Inoltre, l’eritropoietina potrebbe avere un’azione sul “vascular endothelial growth factor” [52], contribuendo all’angiogenesi, con effetto di aumento della rapidità di crescita del tumore e della sua diffusione a distanza.

L’interpretazione dei dati sperimentali è resa ulteriormente complicata dal fatto che l’espressione del recettore dell’eritropoietina è influenzata dal tipo di tumore.

Infine, la terapia con ESA ha verosimilmente un effetto protrombotico, che potenzierebbe quello già di per sé aumentato dei pazienti oncologici [53].

Negli anni 2000 diversi trial randomizzati e metanalisi hanno evidenziato una possibile riduzione della sopravvivenza [54] o un aumento della crescita tumorale per alcuni tumori solidi in pazienti anemici trattati con ESA con un target di Hb prossimo alla normalità. Altre metanalisi non hanno confermato il dato [55, 56]. Sulla scorta di queste esperienze, oggi nei pazienti oncologici la terapia con ESA è riservata solo ai pazienti sottoposti a chemioterapia, mirando a target di Hb più bassi [57, 58].

I dati in letteratura su un possibile effetto prooncologici degli ESA nei pazienti con MRC sono limitati e poco conclusivi [13, 59]. La loro interpretazione è ulteriormente complicata dal fatto che la MRC di per sé è associata ad un aumento della prevalenza di neoplasie, in parte a causa di una riduzione delle difese immunitarie nei pazienti uremici [60]. A titolo precauzionale, è consigliato di soppesare il rischio beneficio nel singolo paziente oncologico con MRC di un’eventuale terapia con ESA, soprassedendo, ove possibile, nei pazienti dove si prevede una possibile cura della malattia oncologica [61].

 

Alternative terapeutiche e prospettive future

Da un paio di anni sono diventati disponibili nuove molecole per la cura dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica, gli inibitori delle HIF-PHD (hypoxia inducible factor prolyl hydroxylases). Queste molecole si differenziano dagli ESA perché agiscono andando a stimolare l’eritropoietina endogena, dimostrandosi efficaci anche nelle fasi più avanzate della MRC, fino ai pazienti anefrici. Date le ombre sui possibili rischi cardiovascolari degli ESA, gli enti regolatori (EMA e FDA) hanno imposto per la loro registrazione l’esecuzione di diversi trial randomizzati di fase 3, finalizzati non solo a dimostrare l’efficacia delle molecole (superiorità rispetto al placebo o non inferiorità rispetto agli altri ESA), ma anche a garantirne la sicurezza, soprattutto dal punto di vista cardiovascolare. A tale scopo sono stati arruolati nel mondo decine di migliaia di pazienti.

Delle sei molecole oggi disponibili nel mondo, tre sono state sviluppate solo in India o Estremo Oriente (molidustat, desidustat, enarodustat) e non sono quindi disponibili per uso clinico negli Stati Uniti o Europa. Le altre tre molecole (roxadustat, vadadustat, daprodustat) hanno avuto destini diversi in termini di approvazione e successiva commercializzazione in Europa e Stati Uniti, principalmente sulla base dei diversi risultati dei singoli trial clinici e di alcuni segnali di possibile aumento degli eventi cardiovascolari o delle trombosi emersi da analisi secondarie. Ad oggi, il roxadustat è in commercio in Europa sia per i pazienti in dialisi che per quelli in fase conservativa. Il vadadustat è approvato e in fase di commercializzazione in Europa e Stati Uniti solo per i pazienti in dialisi prevalenti. Analogamente, il daprodustat è stato approvato solo per i pazienti in dialisi da entrambi gli enti regolatori, ma non è stato commercializzato in Europa per una scelta aziendale.

Nonostante le aspettative verso questa nuova classe di farmaci fossero molte, soprattutto in termini di un miglior profilo di sicurezza cardiovascolare rispetto agli ESA, i risultati dei trials non hanno confermato l’ipotesi iniziale, ponendoli solo come una possibile alternativa terapeutica agli ESA, con un profilo di sicurezza a questi sovrapponibili nella maggior parte dei casi [62-64].

Dal punto di vista pratico, gli inibitori delle HIF-PHD si differenziano dagli ESA perché vengono somministrati per via orale e perché sono conservati a temperatura ambiente. Inoltre, grazie alla loro azione di stimolazione del sistema HIF, potrebbero aumentare l’assorbimento e la disponibilità del ferro ed essere più efficaci nei pazienti infiammati iporesponsivi agli ESA [65, 66].

Dal punto di vista delle prospettive future, dopo anni di intensa ricerca e sviluppo clinico per gli HIF-PHD inibitori, il panorama scientifico nel campo della terapia dell’anemia nei pazienti con MRC ha subito un notevole rallentamento, sia in termini di finanziamenti che di numero di nuove molecole innovative in sviluppo [67]. Ad oggi la strategia più promettente, e con maggiori possibilità di entrare nel breve-medio termine in commercio, sembra essere quella che va ad agire su alcune interleuchine, riducendo l’infiammazione e quindi migliorando gli outcome cardiovascolari. L’effetto antinfiammatorio comporta anche il miglioramento dell’anemia e/o la risposta agli ESA [68].

 

Conclusioni

La terapia con ESA, e in epoca recente con gli HIF-PHD inibitori, rappresentano una rivoluzione scientifica che ha permesso il trattamento dell’anemia sintomatica in milioni di persone nel mondo. Purtroppo, entrambe le categorie di farmaci, seppur efficaci e ben tollerati nella maggior parte dei casi, possono essere associati ad un possibile aumento del rischio cardiovascolare e trombotico, soprattutto in particolari categorie di pazienti.

Per tale motivo, la scelta della terapia con ESA o HIF-PHD inibitore deve essere personalizzata il più possibile, sia in termine di target di Hb, che di tipo di molecola che in termini di dosaggi da usare.

 

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Impatto del fosforo sierico sull’emoglobina: revisione della letteratura

Abstract

Il fosforo è un macroelemento presente nel nostro organismo principalmente sotto forma di cristalli di idrossiapatite. Un’alta concentrazione di fosforo sierico è riscontrata in pazienti affetti con insufficienza renale cronica. L’escrezione di fosforo tende a ridursi sin dai primi stadi di malattia renale cronica, ma l’aumento di PTH e FGF23 fanno sì che il suo livello sierico rimanga entro il range di normalità. Nell’ultima decade il ruolo dell’FGF23 nell’eritropoiesi è stato oggetto di studio, mostrando il suo impatto nella patogenesi dell’anemia nei pazienti affetti da CKD in terapia conservativa. Sia l’iperfosfatemia sia l’anemia sono complicanze della CKD, ma molti studi hanno posto l’ipotesi di un’associazione indipendente tra queste due complicanze.  Infatti, il fosforo potrebbe essere considerato come un punto in comune di più vie eziopatogenetiche, indipendenti dalla malattia renale cronica: l’overproduzione di FGF23, l’invecchiamento vascolare e la compromissione dell’eritropoiesi.

Parole chiave: fosforo, emoglobina, anemia, malattia renale cronica, FGF23

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Introduction

Phosphorus is a macroelement found in the body; 85% of it is deposited in the bone as crystals of hydroxyapatite, 14% in the intracellular compartment as a component of nucleic acids, plasma membranes and involved in all cellular energetic processes, and only 1% is extracellular [1].

Of the latter, 70% is organic phosphorous and 30% is inorganic phosphorous. Inorganic phosphorous can be protein-bound, complexed with sodium, calcium, and magnesium, or circulating as mono- or di-hydrogen forms. About 800 mg of phosphorous is  introduced with the food, and the kidneys filter across the glomerulus about 90% of the daily phosphate load. The residual 10% is excreted by the gastrointestinal system.

Chronic Kidney disease (CKD) impairs phosphorus excretion due to the reduction of the skillful nephron mass. As a consequence of this, parathyroid hormone (PTH) and fibroblast growth factor 23 (FGF-23) are over-secreted from the early stages of CKD, to prevent an increase in serum phosphorous concentration [2].

Both PTH and FGF23 increase phosphorus urinary excretion but, conversely to FGF23, PTH is related to serum calcium due to the relative activation of calcium-sensing receptor (CaSR). Indeed, PTH limits calcium gastrointestinal absorption because it reduces 1,25-dihydroxy vitamin D levels. This negative feedback tray maintains serum calcium and phosphorus within normal ranges in individuals with normal kidney function. The progression of renal disease causes the failure of this equilibrium and hypocalcemia, hyperphosphatemia, and tertiary hyperparathyroidism may occur. 

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Nuove strategie terapeutiche nel trattamento dell’anemia nell’MRC: gli inibitori della prolil-idrossilasi del fattore ipossia-indotto

Abstract

Il link che intercorre tra malattia renale cronica e anemia è ormai noto da più di 180 anni impattando negativamente sulla qualità di vita, sul rischio cardiovascolare, sulla mortalità e sulla morbidità dei pazienti con malattia renale cronica (MRC). Tradizionalmente la gestione dell’anemia in corso di MRC si è basata sull’uso di terapia marziale di rimpiazzo, vitaminica e sull’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi (erythropoiesis-stimulating agents ESAs). Negli ultimi anni, accanto a queste consolidate terapie, si sono affacciate nuove molecole note come inibitori della prolil-idrossilasi del fattore indotto dall’ipossia (HIF-PHIs). Il meccanismo d’azione si esplica mediante un’incrementata attività trascrizionale del gene HIF con aumento della produzione di eritropoietina. I farmaci attualmente prodotti sono rappresentati dal roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat, ed enarodustat; tra questi solo il roxadustat è attualmente approvato e utilizzabile in Italia. La possibilità di assunzione per via orale, l’attività pleiotropica sul metabolismo marziale e lipidico e la non inferiorità rispetto alle eritropoietine rendono questi farmaci una valida alternativa nell’armamentario del nefrologo per il trattamento dell’anemia associata a malattia renale cronica.

Parole chiave: MRC, anemia, eritropoietina, HIF, roxadustat

Introduzione

Il link che intercorre tra malattia renale cronica (MRC) e anemia è ormai noto da più di 180 anni [1]. La Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) definisce l’anemia come la presenza di valori di emoglobina sierica (Hb) < 13,0 g/dl per gli uomini e < 12,0 g/dl per le donne non in stato di gravidanza.

Ad oggi è ormai consolidato come al progredire della malattia renale incrementi anche la prevalenza di anemia, condizione che impatta negativamente sulla qualità di vita, sul rischio cardiovascolare, sulla mortalità e sulla morbidità di pazienti già con rischio aumentato per tutte queste condizioni [24].

L’anemia associata a malattia renale cronica è determinata da differenti meccanismi patogenetici. Oltre alla diminuita capacità del rene di produrre l’eritropoietina (EPO), si è visto come l’attività delle tossine uremiche sia capace di inibire i meccanismi deputati all’eritropoiesi e diminuire la sopravvivenza degli eritrociti. Accanto a questi meccanismi si aggiungono le alterazioni del metabolismo marziale, dove l’eccesso di epcidina risulta il principale attore impattando negativamente sull’assorbimento dietetico del ferro e sulla mobilizzazione dei suoi depositi corporei [5].

Tradizionalmente la gestione dell’anemia in corso di MRC si è basata sull’uso di terapia marziale di rimpiazzo e sull’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi (erythropoiesis-stimulating agents, ESAs) [68]. È proprio da questi ultimi agenti che, a partire dagli anni ’80, i pazienti hanno avuto il maggior beneficio tramite una riduzione dei sintomi relativi all’astenia e la liberazione dalla dipendenza di emotrasfusioni e delle correlate complicanze, tra cui sovraccarico marziale, infezioni e sensibilizzazioni che potenzialmente inficiavano le possibilità di trapianto. Secondo le principali linee guida, in pazienti con MRC, la presenza di valori di emoglobina compresi tra 9-10 g/dl necessita di correzione mediante la somministrazione di eritropoietine, fino al raggiungimento i valori compresi tra 11-12 g/dl, con una personalizzazione della terapia a seconda dei casi [2].

Se da un lato i benefici derivanti da tali terapie sono molteplici, bisogna considerare la presenza di effetti avversi. I pazienti sottoposti a terapia con ESAs presentano un aumentato rischio di ipertensione, convulsioni e coagulazione dell’accesso vascolare per emodialisi [9, 10]. Inoltre, gli ESAs non si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli aventi avversi correlati all’anemia (mortalità, eventi cardiovascolari non fatali, ipertrofia ventricolare sinistra e progressione della malattia renale) in studi prospettici controllati e randomizzati [1113].
Recenti studi in pazienti affetti da CKD in emodialisi e pre-dialisi dimostrano un aumento del rischio di morte, di eventi avversi cardiovascolari ed ictus [14, 15]. Infine, questi agenti sono stati associati a progressione di malattie maligne e a morte in pazienti affetti da neoplasia [16].

La terapia marziale si colloca accanto alla terapia con ESAs nel trattamento dell’anemia secondaria a CKD. Il ferro è fondamentale non solo per implementare i depositi, ma anche per rendere più efficace l’azione degli ESAs [17, 18].

La progressiva riduzione di efficacia degli ESAs parallelamente alle preoccupazioni relative ai potenziali eventi avversi di questi farmaci, hanno progressivamente portato allo sviluppo di nuovi farmaci che presentassero una migliore sicurezza generale e cardiovascolare, superando l’iporeattività degli ESAs associata all’infiammazione.

Tra i nuovi approcci terapeutici compaiono gli inibitori del dominio prolil idrossilasi del fattore inducibile da ipossia (HIF-PHIs).

 

Meccanismo molecolare e farmacodinamica

I fattori indotti dall’ipossia (Hypoxia-inducible factors ‒ HIFs) sono dei fattori di trascrizione regolati dalla quantità di ossigeno presente nell’ambiente cellulare. Il fattore HIF fu originariamente identificato nel 1991 da Semenza e collaboratori [19].

HIF è costituito da una subunità α sensibile all’ossigeno e da una subunità β, formando una struttura etero dimerica [20].

In condizioni di normo ossigenazione cellulare, la subunità α di HIF viene idrossilata da una prolil-idrossilasi (PHD) con conseguente ubiquitinazione da parte della E3 ubiquitina ligasi (processo facilitato dal legame con la proteina di Von Hippel-lindau (VHL)) e successiva degradazione proteasomica. In condizioni di ipossiemia, invece, l’attività di PHD è ridotta e ciò consente la sopravvivenza e la traslocazione nucleare di HIF α dopo la sua dimerizzazione con la subunità β [21] determinando l’attivazione trascrizionale genetica.

Sono stati identificati tre distinti sottotipi di HIF-α: HIF-1α, HIF-2α e HIF-3α. HIF-1α è espresso in quasi tutte le cellule e la sua attività nucleare determina la trascrizione di numerosi geni coinvolti nel metabolismo energetico, glucidico e marziale, nell’angiogenesi e nell’infiammazione [22]. HIF-2α è principalmente espresso da cellule simil-fibroblastiche presenti nell’interstizio renale e dalle cellule endoteliali, anche se studi successivi hanno dimostrato la sua espressione negli epatociti, cardiomiociti, pneumociti e cellule gliali [23, 24]. Esso è principalmente coinvolto nella regolazione della produzione di eritropoietina (EPO) e nel trasporto marziale [25]. La funzione del sottotipo HIF-3α non è nota, ma si pensa possa essere coinvolta nella regolazione dell’espressione genica degli altri due sottotipi [23].

Mentre il rene rappresenta la principale fonte fisiologica di produzione di EPO nell’età adulta, il fegato risulta essere il sito principale di sintesi durante lo sviluppo embrionale. In ogni caso, nell’adulto, il fegato mantiene la sua capacità di sintesi in risposta ad una moderata o severa ipossia o in caso di attivazione farmacologica del fattore HIF [26]. Infatti, similmente al rene, il fegato risponde in presenza di ipossia severa incrementando il numero di epatociti EPO secernenti localizzati attorno alle vene centrali [27]. Va inoltre considerato come l’espressione di mRNA per EPO è stata riscontrata anche nelle cellule cerebrali, polmonari, cardiache, nel midollo emopoietico, nella milza e nel tratto riproduttivo [28].

Da quanto suddetto, la capacità dei farmaci che vengono qua descritti di determinare una correzione dei valori di emoglobina nel paziente con malattia renale cronica è legata all’inibizione delle prolil-idrossilasi (PHD) che, non potendo determinare l’ubiquitinazione e conseguentemente la degradazione del fattore HIF, fa sì che quest’ultimo possa traslocare nel nucleo ed avviare i processi trascrizionali descritti (Figura 1).

Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.
Figura 1. In questa figura è rappresentata la regolazione del fattore HIF in condizioni di normossia e ipossia, modulata dall’azione dei farmaci inibitori la prolil idrossilasi (PH) coinvolta nella degradazione proteasomica del fattore nucleare di trascrizione HIF.

In tal modo si genera un’incrementata produzione di EPO che a livello midollare determinerà lo stimolo all’eritropoiesi. Dagli studi effettuati, l’attività di tali farmaci, però, non si limita solo all’incremento dell’EPO. L’azione sul fegato garantisce anche una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, con incremento dell’assorbimento e biodisponibilità del ferro [2932], effetto sinergico con l’incremento dell’EPO nel correggere l’anemia in pazienti con MRC che, com’è noto, presentano uno stato infiammatorio cronico con carenza marziale cronica e frequente resistenza alla terapia con EPO [33].

Allo stato attuale sono disponibili diverse molecole inibitrici della prolil-idrossilasi del fattore ipossia indotto per il trattamento dell’anemia nel paziente con MRC dipendente o non dipendente da emodialisi. Tra queste si annoverano: roxadustat, daprodustat, vadadustat, molidustat, desidustat ed enarodustat. Il roxadustat ha ricevuto l’approvazione dalla EMA e dall’AIFA nel 2021, mentre l’FDA ha approvato il daprodustat nei primi giorni del febbraio 2023.

 

Farmacocinetica

Questi farmaci vengono assunti per via orale, il loro assorbimento è indipendente dalla presenza di cibo, ma può essere limitato dalla presenza di chelanti a scambio ionico. Dopo l’assorbimento subiscono un metabolismo di primo passaggio a livello epatico ad opera del citocromo P-450 e della uridina difosfato grucoronil transferasi. Il metabolita attivo circola nel plasma legato per il 99% a proteine plasmatiche per cui la sua biodisponibilità non è influenzata dal trattamento emodialitico.

L’eliminazione avviene con urine e feci in massima parte come metaboliti, in minima parte come farmaco non modificato [34].

 

Effetti collaterali

Al pari degli ESAs, anche gli HIF-PHIs possono presentare potenziali eventi avversi dipendenti da dose e farmacocinetica.

Poiché i fattori responsabili della produzione di eritropoietina sono altamente sensibili all’ipossia rispetto ad altri bersagli HIF (quali ad esempio il VEGF) [35], gli HIF-PHIs sono in grado di ottenere effetti pro-eritropoietici a dosi che non elicitano un più ampio spettro di risposte di HIF nei pazienti con CKD, compresa la stimolazione di pathway VEGF-dipendenti [36].

Gli eventi avversi gravi (SAE), riportati negli studi di fase 3, non sono stati considerati correlati al farmaco e rientravano nell’intervallo delle frequenze attese di SAE nei pazienti con CKD.

Tuttavia, le informazioni sulla prescrizione della Japanese Pharmaceutical and Medical Devices Agency includono un avviso di sicurezza relativo al rischio potenziale di tromboembolia, infarto cerebrale e miocardico, embolia polmonare e trombosi venosa profonda e degli accessi vascolari con HIF-PHIs [37]. Una maggiore incidenza di eventi tromboembolici (11,3% vs. 3,9%) è stata riportato con roxadustat rispetto a darbepoetina alfa nell’analisi di sicurezza degli studi aggregati di fase 3 nei pazienti in emodialisi [37].

I dati preliminari di 3 studi con roxadustat in pazienti dializzati non hanno riportato alcun aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e per roxadustat rispetto a epoetina alfa, mentre il rischio insufficienza cardiaca o angina instabile, che richiede ospedalizzazione, è stato significativamente ridotto per roxadustat vs epoietin alfa [38]. Questo potrebbe essere dovuto ai potenziali effetti pleiotropici da parte di HIF-PHIs quali roxadustat e daprodustat che si sono dimostrati in grado di ridurre i livelli sierici di colesterolo totale, LDL e trigliceridi [3941]. L’effetto ipolipemizzante potrebbe essere spiegato dall’aumento dell’assorbimento HIF-dipendente delle lipoproteine e dalla riduzione della sintesi del colesterolo attraverso una maggiore degradazione della 3-idrossi-3-metil-glutaril-CoA reduttasi [42, 43].

L’iperkaliemia è un evento avverso segnalato frequentemente con roxadustat negli studi cinesi di fase 3 sia nei pazienti con CKD non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in quelli in trattamento emodialitico (DD-CKD) [4447] e in studi di fase 2 in pazienti trattati con altri HIF-PHIs [48, 49]. Un ulteriore evento avverso segnalato in pazienti in terapia con roxadustat non in dialisi è l’acidosi metabolica, sebbene i meccanismi alla base non siano chiari, riportata nel 12% dei casi [45]. Vi sono poi da prendere in considerazione potenziali eventi avversi correlati agli effetti pro-angiogenici degli HIF-PHIs. In particolare, in pazienti con retinopatia vascolare [48], non vi è stato alcun aumento nell’incidenza di emorragia retinica, edema maculare o cambiamenti nella pressione intraoculare o nell’acuità visiva negli studi clinici con roxadustat o daprodustat [49, 50].

Poiché l’attivazione dell’HIF è evidente in molti tumori (soprattutto quando, in crescita, sperimentano l’ipossia e cooptano la via dell’HIF per l’adattamento metabolico e l’angiogenesi) sono state avanzate preoccupazioni relative alle capacità di questi prodotti di promuovere la crescita tumorale o facilitare le metastasi [51].  Tuttavia, ad oggi, gli studi sugli animali non hanno mostrato alcuna evidenza che l’esposizione prolungata agli HIF-PHI sia pro-oncogenica [52, 53]. A tal proposito sono necessarie osservazioni a lungo termine nell’uomo ed attualmente non ne è raccomandato l’uso in pazienti con storia di neoplasia a causa dell’esclusione negli studi effettuati di pazienti con neoplasie maligne attive o in anamnesi più recente di 2-5 anni.

Altre preoccupazioni includono il potenziale rischio di ipertensione arteriosa polmonare (poiché l’attivazione di HIF aumenta il tono vascolare nelle arterie polmonari [54, 55], eventi tromboembolici che sono stati osservati in pazienti con policitemia di Chuvash [5658], promozione della crescita delle cisti renali [56], eventi avversi sul metabolismo del glucosio e del fegato [59] e gli eventi avversi sulle calcificazioni vascolari e sui livelli dell’FGF23 [60, 61].

 

Trial e risultati

Roxadustat

Molteplici sono gli studi che hanno valutato l’efficacia ed il profilo di roxadustat sia in pazienti con malattia renale cronica non dipendenti da dialisi (NDD-CKD) che in pazienti dialisi-dipendenti o incipienti (DD- CKD, ID-CKD), ESA naive o già in trattamento con ESAs.

Nel 2019 Chen N. e collaboratori hanno pubblicato I risultati di due trial clinici condotti in Cina. In uno si valutava l’efficacia in 154 pazienti con MRC non in trattamento dialitico, randomizzati 2:1 a ricevere il farmaco o placebo. Nel gruppo trattamento si osservava un incremento di emoglobina di 1,9 g/dl a differenza del gruppo placebo in cui si osservava una riduzione di 0,4 g/dl. Inoltre, nel gruppo trattato si riducevano significativamente anche i livelli di epcidina e colesterolo [62]. Nel secondo trial invece gli autori hanno avviato terapia con roxadustat in pazienti in trattamento dialitico che da sei mesi effettuavano terapia con epoietina alfa e li hanno confrontati con un gruppo di pazienti che proseguivano terapia con EPO. In questo studio si evidenziava la non inferiorità del roxadustat rispetto all’epoietina alfa nel mantenere valori di emoglobina a target. Paragonato ad epoetina alfa, roxadustat determinava un incremento del valore di transferrina, una stabilità della sideremia ed un minor calo della saturazione della transferrina. In ultimo la riduzione del colesterolo e dell’epcidina era maggiore nel gruppo trattato con roxadustat [63].

Una pooled analysis su studi che hanno coinvolto pazienti in trattamento emodialitico in terapia con ESA randomizzati a proseguire EPO o assumere roxadustat (ROCKIES, PYRENEES, SIERRAS, HIMALAYAS) ha mostrato come roxadustat non sia inferiore all’eritropoietina nel correggere e mantenere i valori di emoglobina con profilo di sicurezza cardiovascolare simile [64].

Una pooled analysis riguardante gli studi ALPS, ANDES, OLYMPUS, in pazienti con MRC, non in trattamento emodialitico, randomizzati a ricevere roxadustat o placebo, ha evidenziato come il primo sia più efficace del placebo nell’incrementare i valori di emoglobina, con minore frequenza di trasfusioni e con stesso profilo di sicurezza o eventi avversi [65].

Nel 2021 Barratt J. e collaboratori hanno confrontato roxadustat con darbepoietina alfa in uno studio di non inferiorità che ha coinvolto 616 pazienti con MRC non in dialisi (DOLOMITES trial) [66]. I risultati mostravano come roxadustat avesse la stessa capacità della darbepoietina nel mantenere stabile i valori di emoglobina per 104 settimane. Nel 2022 Fishbane e collaboratori in un trial su 2133 pazienti in trattamento dialitico riscontravano una capacità di roxadustat di incrementare i valori di emoglobina con stessa incidenza di eventi avversi quando paragonato ad epoietina alfa (ROCKIES study) [67].

Daprodustat

Anche per questo farmaco vari sono i trial in letteratura che hanno analizzato, in confronto con le molecole di eritropoietina più comunemente usate nella pratica clinica, la capacità di controllare nel tempo i valori di emoglobina e gli eventi avversi correlati.

Sono stati disegnati ed effettuati due trial clinici i cui risultati sono stati pubblicati nel 2021 (ASCEND-D ed ASCEND-ND trial) che si sono rivolti a pazienti in trattamento dialitico e non in trattamento dialitico (MRC G3-G5) rispettivamente.

Nel primo trial venivano randomizzati 2964 pazienti in trattamento dialitico sostitutivo a ricevere daprodustat o ESAs (epoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico, darbepoietina alfa in pazienti in trattamento peritoneo dialitico) per 52 settimane. I valori medi di emoglobina, la somministrazione di ferro endovenoso, gli effetti sulla pressione arteriosa e gli eventi avversi, non differivano nei due gruppi di trattamento [68].

Nel trial ASCEND-ND, che ha arruolato quasi 4000 partecipanti, sono stati randomizzati pazienti con MRC non in trattamento emodialitico e in terapia con eritropoietine, a ricevere daprodustat o darbepoietina alfa. I risultati derivanti dall’indagine garantivano il mantenimento dei valori di emoglobina in entrambi i gruppi con stessi eventi avversi [69].

Nel 2022 è stata pubblicata una metanalisi coinvolgente 8 dei principali trial clinici indaganti daprodustat e 8245 pazienti. I risultati mostrano che, in comparazione con ESAs, daprodustat mantiene la stessa efficacia nell’incrementare i valori di emoglobina, riduce in misura maggiore i livelli di epcidina e gli eventi cardiovascolari maggiori [70].

Vadadustat

I due trial clinici principali che hanno valutato vadadustat come farmaco in grado di mantenere adeguati valori di emoglobina sono stati PRO2TECT e INNO2VATE, rivolti rispettivamente a pazienti con malattia renale cronica in trattamento conservativo ed emodialitico.

Il PRO2TECT ha comparato vadadustat con darbepoetina alfa in pazienti con MRC non in dialisi in due gruppi diversi: quelli con valori di emoglobina inferiori a 10 g/dl, non in terapia con EPO, e quelli con valori di emoglobina compresi tra 8 g/dl e 11 g /dl, in terapia con EPO.

In questi due gruppi i rispettivi 1751 e 1725 pazienti sono stati randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. Dopo 52 settimane di follow-up i risultati ottenuti mostravano come vadadustat, comparato a darbepoietina alfa, raggiungeva il pre-specificato criterio di non inferiorità per l’efficacia sull’incremento dell’emoglobina, ma non su quello della sicurezza cardiovascolare, mostrando cioè un numero maggiore di eventi cardiovascolari nel gruppo di trattati con vadadustat [71].

Il trial INNO2VATE è stato eseguito su 3923 pazienti con MRC dipendenti da dialisi, randomizzati a ricevere vadadustat o darbepoetina alfa. In entrambi i gruppi sono stati valutati oltre all’efficacia di controllare i valori di emoglobina, anche gli eventi avversi cardiovascolari. Gli autori concludevano che il vadadustat non risultava essere inferiore alla darbepoietina alfa nel correggere e mantenere la concentrazione emoglobinica, con stesso profilo di sicurezza cardiovascolare [72].

Nel 2022 sono stati pubblicati i risultati di una metanalisi che ha incluso 4 trial randomizzati riguardanti la comparazione tra vadadustat e placebo e 6 trial randomizzati di confronto con eritropoietine per un totale di 8438 partecipanti. In questo lavoro si evidenziava come vadadustat rispetto ai gruppi placebo determinava un incremento dell’emoglobina, comparato con placebo e darbepoietina alfa determinava una riduzione dell’epcidina e della ferritina con aumentata capacità ferro legante. L’uso del vadadustat era invece correlato ad un maggior tasso di effetti avversi lievi-moderati come diarrea e nausea, ma non incrementava il rischio di eventi cardiovascolari maggiori e mortalità per tutte le cause [73].

Molidustat

Questo farmaco è stato testato come gli altri appartenenti alla classe in pazienti con MRC avanzata sia in trattamento dialitico che conservativo, sia in pazienti già in trattamento con eritropoietine, che naïve.

Il trial DIALOGUE comprendeva delle sottosezioni in cui molidustat veniva confrontato con placebo (in pazienti naïve per ESAs), oppure dopo sospensione della precedente terapia con epoietina alfa o darbepoietina alfa (DIALOGUE 1, 2, 4 rispettivamente) [74].

Il MIYABI program ha comparato l’efficacia del molidustat rispetto alla darbepoietina alfa in pazienti in trattamento emodialitico e già in terapia con EPO con un follow-up di 52 settimane [75].

In questi trial si dimostrava la non inferiorità di molidustat rispetto alla terapia standard eritropoietinica, la capacità di correggere l’anemia in pazienti naïve, con profili di tossicità non dissimili.

Desidustat

I due trial principali di investigazione sono stati il DRAEM-D [76] in pazienti con MRC in trattamento emodialitico ed il DREAM-ND [77], in pazienti MRC non in dialisi. Nel primo, sia pazienti in trattamento con EPO che naïve con livelli di emoglobina tra 8 ed 11 g/dl venivano randomizzati a ricevere desidustat o epoietina alfa. Nel secondo invece, pazienti con MRC in trattamento conservativo, con valori di emoglobina tra 7 e 10 g/dl, venivano randomizzati a ricevere desidustat o darbepoietina alfa.

In entrambi i trial si osservava una non inferiorità del desidustat rispetto alla terapia con EPO nel mantenere costanti i valori di emoglobina durante il follow-up, con un maggior tasso di responder nei gruppi desidustat. Nel secondo trial, inoltre si osservavano valori significativamente più bassi di epcidina e LDL nei pazienti trattati con desidustat.

Enarodustat

I trial SYMPHONY-ND [30] e SYMPHONY-HD [78] hanno valutato l’efficacia e la tollerabilità di enarodustat in due corti di popolazioni giapponesi rispettivamente in MRC conservativa ed in trattamento emodialitico.

Il SYMPHONY-ND ha randomizzato una popolazione di pazienti naïve per ESAs 1:1 ad assumere enarodustat o darbepoietina alfa con follow-up di 24 settimane. Il SYMPHONY-HD condotto su pazienti in emodialisi periodica ha randomizzato 1:1 a ricevere enarodustat o darbepoietina alfa, con follow-up di 24 settimane. In entrambi gli studi si dimostrava la non inferiorità di enarodustat a correggere e mantenere i livelli di emoglobina quando confrontato a darbepoietina alfa, con un profilo di tossicità non differente, con l’aggiunta capacità di migliorare l’assetto marziale [79, 80].

 

Roxadustat: attuali linee guida in Italia

Attualmente, in Italia, l’unica molecola disponibile è il roxadustat. In commercio sono presenti compresse da 20, 50, 70, 100 e 150 mg. La somministrazione deve essere fatta tre volte a settimana, in giorni non consecutivi, indipendentemente dall’assunzione di cibo. Per i pazienti che non assumono eritropoietine, la dose iniziale è di 70 mg 3 volte a settimana per pazienti con peso inferiore ai 100 kg, 100 mg per pazienti con peso maggiore di 100 kg. La dose può essere incrementata fino a 400 mg 3 volte a settimana (in pazienti in trattamento emodialitico) o 300 mg 3 volte a settimana (in pazienti non in dialisi), con controllo dell’emocromo ogni 2 settimane fino al raggiungimento dei valori target e successivamente ogni 4 settimane.

Nei pazienti in trattamento con eritropoietine è disponibile una tabella (Tabella 1) di conversione che permette di evitare un periodo di wash out per la terapia eritropoietinica, facendo assumere la prima compressa di roxadustat al posto della successiva dose di eritropoietina. Per i pazienti in trattamento emodialitico non è necessario un aggiustamento della dose del farmaco [81].

In attesa di nuove evidenze, come avviene per la ormai consolidata terapia con eritropoietine, per valori di emoglobina al di sotto di 9 g/dl si dovrebbe avviare terapia con HIF-PHIs, con raggiungimento di valori di mantenimento tra 11-12 g/dl.

È da considerare inoltre che, in caso di compromissione epatica è consigliato di dimezzare la dose in caso di compromissione moderata (Child Pugh-B) e di evitare la somministrazione in caso di compromissione severa (Child Pugh-C).

Dose di darbepoietina alfa endovenosa o sottocutanea (microgrammi/settimana) Dose di epoietina endovenosa o sottocutanea (UI/settimana) Dose di metossipoietilenglicole-epoietina beta endovenosa o sottocutanea (microgrammi/mese) Dose di roxadustat (milligrammi tre volte a settimana)
Meno di 25 Meno di 5000 Meno di 80 70
Da 25 a meno di 40 Da 5000 fino ad 8000 Da 80 fino a 120 inclusi 100
Da 40 fino ad 80 inclusi Da più di 8000 fino a 16000 incluse Da più di 120 fino a 200 inclusi 150
Più di 80 Più di 16000 Più di 200 200
In questa tabella sono riportati i dosaggi e lo schema terapeutico nel passaggio da ESA a roxadustat
Tabella 1. Dosi iniziali di roxadustat da assumere tre volte alla settimana nei pazienti che passano da un ESA a roxadustat.

Dagli studi effettuati si è visto come alcuni chelanti del fosforo quali acetato di calcio e sevelamer carbonato riducono la biodisponibilità della molecola, per tanto roxadustat deve essere assunto almeno un’ora dopo l’assunzione di tali chelanti. Per il lantanio carbonato invece non si sono osservate interazioni significative. Inoltre, roxadustat può determinare un incremento delle concentrazioni sieriche delle statine per cui, in caso di co-somministrazione è necessario valutare la possibilità di ridurre il dosaggio della stessa.

 

Conclusioni

Questa nuova classe di farmaci, utili al trattamento dell’anemia correlata a malattia renale cronica, dai numerosi studi eseguiti si è dimostrata non inferiore rispetto alla terapia standard con eritropoietine nel correggere e mantenere i valori di emoglobina in pazienti con malattia renale cronica, e potrebbe garantire, nel prossimo futuro, un’alternativa terapeutica. Un punto di forza di queste nuove molecole è rappresentato dagli effetti pleiotropici sul metabolismo lipidico e marziale. Com’è noto i pazienti con malattia renale cronica, a causa di uno stato infiammatorio cronico possono presentare alterazioni del normale metabolismo marziale con difficoltà al trattamento dell’anemia con l’eritropoietina. I farmaci HIF-PHIs grazie alla modulazione genica, determinando una soppressione dell’epcidina, un’aumentata espressione di ceruloplasmina, transferrina e recettori della transferrina, facilitano l’assorbimento e la biodisponibilità del ferro. Tale meccanismo potrebbe rendere tali molecole una valida opzione terapeutica alle anemie difficili da trattare a causa della flogosi [82, 83].

Altro vantaggio nell’utilizzo di queste nuove molecole risulta legato alla possibilità di una produzione più “fisiologica” dell’EPO endogena se confrontata ad una possibile disponibilità “sovrafisiologica” di eritropoietina ricombinante esogena necessaria per correggere l’anemia. Questo determinerebbe un minore feed-back negativo endocrino sugli organi eritropoietici con minori effetti collaterali, in particolar modo cardio-vascolari, rispetto alla classica terapia con eritropoietina che, in alcuni casi, per fenomeni di resistenza, necessita incrementi del dosaggio, esponendo il paziente a un maggior rischio di eventi avversi con valori di emoglobina a target [84, 85].

Presentando un buon profilo di sicurezza e limitati effetti avversi, con l’utilizzo su larga scala si potrà in futuro confermare queste iniziali evidenze, ma senza dubbio, questi farmaci andranno ad arricchire l’armamentario farmacologico del nefrologo.

 

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La gestione terapeutica e il burden economico dei pazienti trattati con ESA affetti da insufficienza renale cronica non dipendente da dialisi con anemia: risultati da uno studio real-world in Italia

Abstract

Background. L’obiettivo dell’analisi real-world è stato valutare le caratteristiche dei pazienti con insufficienza renale cronica non dipendente da dialisi (IRC-NDD) con anemia e trattati con agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), analizzarne la farmaco-utilizzazione e il carico economico in pratica clinica italiana.
Metodi. È stata eseguita un’analisi retrospettiva basata su database amministrativi e di laboratorio riguardanti circa 1,5 milioni di assistibili. Sono stati identificati pazienti adulti con record identificanti l’IRC-NDD stadio 3a-5 e anemia nel periodo 2014-2016. Sono stati inclusi i pazienti eleggibili agli ESA (presenza di ≥ 2 valori di Hb < 11 g/dL in 6 mesi) attualmente trattati.
Risultati. Dei 101.143 pazienti IRC-NDD identificati, 40.020 presentavano anemia. Complessivamente, 25.360 pazienti anemici erano eleggibili al trattamento con ESA e 3.238 (12,8%) attualmente in trattamento sono stati inclusi. L’età media era di 76,9 anni, il 51,1% era di sesso maschile. Le comorbilità più frequentemente riscontrate riguardavano l’ipertensione (> 90% in ogni stadio), il diabete (37,8-43,2%) e le patologie cardiovascolari (20,5-28,9%). L’aderenza agli ESA è stata osservata nel 47,9% dei pazienti, con una tendenza decrescente dal 65,8% (stadio 3a) al 35% (stadio 5). Una quota consistente di pazienti non presentava visite nefrologiche durante i 2 anni di follow-up. La voce di costo maggiormente impattante era quella relativa ai farmaci (€4.391), seguita dai ricoveri per tutte le cause (€3.591) e dagli esami di laboratorio (€1.460).
Conclusioni. I risultati hanno evidenziato un’aderenza non ottimale agli ESA, con un trend di sotto-utilizzo di queste terapie nella gestione dell’anemia nell’IRC-NDD. Inoltre, l’analisi ha mostrato un elevato carico economico per i pazienti anemici IRC-NDD.

Parole chiave: anemia, database amministrativi, farmaci stimolanti l’eritropoiesi (ESA), malattia renale cronica (MRC), nefrologia, real-life

Introduzione

L’anemia è una delle complicanze comunemente riscontrate nell’insufficienza renale cronica (IRC), una condizione che colpisce prevalentemente la popolazione anziana [1]; la sua prevalenza aumenta con il progredire degli stadi dell’IRC [2, 3], ed è stata osservata fin nel 60% di pazienti affetti da IRC non dipendente da dialisi (IRC-NDD) [4]. L’anemia nell’IRC è principalmente causata da una diminuzione nella produzione di eritropoietina (EPO) e dall’alterazione dei meccanismi di rilevazione dell’ossigeno dovute alla ridotta funzionalità renale [5]. Numerosi studi osservazionali hanno evidenziato un incremento del rischio di comorbilità (soprattutto riguardo le malattie cardiovascolari e il diabete) e di mortalità associato alla presenza di anemia nei pazienti IRC; tale rischio risulta maggiore negli stati anemici più severi [2, 5, 6].

Le supplementazioni di ferro e le terapie con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESA) rappresentano il trattamento cardine dell’anemia nell’IRC [79]. In particolare, le linee guida Internazionali raccomandano di iniziare un trattamento con ESA in caso di valori di emoglobina (hemoglobin, Hb) < 10 g/dL, mentre nella pratica clinica italiana il valore soglia utilizzato è Hb < 11 g/dL, come indicato dalla Società Italiana di Nefrologia [10] e definito nel Piano Terapeutico Italiano per la prescrizione di ESA [11, 12].

Una gestione tempestiva e adeguata dell’anemia comporta un rallentamento nella progressione dell’IRC, riduce la gravità delle condizioni di comorbilità e conseguentemente il rischio di ospedalizzazione [1315]. La normalizzazione dei livelli di Hb è risultata inoltre essere correlata ad un miglioramento della qualità della vita [16]. Tuttavia, i risultati recentemente pubblicati di uno studio prospettico multinazionale, il Chronic Kidney Disease Outcomes and Practice Patterns (CKDopps), hanno mostrato una gestione subottimale dell’anemia correlata ad IRC nei pazienti IRC-NDD afferenti a Centri Nefrologici in Brasile, Francia, Germania e Stati Uniti, soprattutto in termini di monitoraggio e di trattamento [17, 18]. Per quanto riguarda l’Italia, sono poche ad oggi le evidenze disponibili sulla reale gestione terapeutica e relativi esiti dei pazienti anemici con IRC-NDD, e gli studi pubblicati sono principalmente focalizzati su pazienti seguiti da Centri Nefrologici [1921]. In questo ambito, la presente analisi si è posta l’obiettivo di descrivere le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti IRC-NDD nello stadio 3a-5 con anemia e trattati con ESA, di valutare la loro farmaco-utilizzazione e i costi diretti a carico del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) in un contesto real-world di pratica clinica in Italia.

 

Metodi

È stata condotta un’analisi retrospettiva osservazionale di coorte basata sui dati contenuti nei database amministrativi e di laboratorio di un campione di 5 ASL afferenti alle regioni Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Abruzzo e Puglia. Sono stati utilizzati i seguenti database: anagrafe assistibili, contenente le caratteristiche demografiche; database farmaceutici (assistenza farmaceutica territoriale, AFD e farmaci ad erogazione diretta FED), in cui sono riportate le informazioni relative ai farmaci erogati in regime di rimborsabilità da parte del SSN, come il codice Anatomical-Therapeutic-Chemical (ATC), numero di confezioni, data di prescrizione; schede di dimissione ospedaliere contenente le informazioni riguardanti i ricoveri effettuati tra cui le diagnosi codificate mediante codici ICD-9-CM e i raggruppamenti omogenei di diagnosi (DRG, dall’inglese Diagnosis Related Groups); specialistica pubblica ambulatoriale in cui sono riportati i dati riguardanti le visite specialistiche e test strumentali erogati in regime di convenzione con il SSN; database del laboratorio analisi, contenente tutte le informazioni relative agli esami di laboratorio ed in particolare: la data della richiesta, il codice e la descrizione dell’esame, l’esito dell’esame e l’unità di misura in cui è calcolato.

In ottemperanza alla normativa sulla privacy (D.lgs. 196/03 e successive modificazioni, GDPR 2016/679), ai soggetti incaricati del trattamento dei dati ai fini dell’analisi non è stato fornito alcun dato dal quale fosse possibile risalire in modo diretto o indiretto all’identità del paziente. Tutti i risultati dell’analisi comprendono solo ed esclusivamente dati aggregati mai riconducibili al singolo assistibile. L’identificativo anonimo del paziente contenuto in ogni archivio ha permesso l’integrazione tra i vari database. Il presente studio è stato notificato ai seguenti Comitati Etici Locali di ogni ASL coinvolta, che lo hanno approvato: Comitato Etico Interaziendale (data approvazione: 19/12/2019 Prot. N AslVC.Farm.19.02); Comitato Etico Interprovinciale Area 1 (data approvazione: 03/12/2019 Prot. 96/SegCE/2019); Comitato Etico Lazio 2 (data approvazione: 11/12/2019 Prot. N. 0219118); Comitato Etico Per Le Province Di L’Aquila e Teramo (data approvazione: 30/01/2020 Prof. N. 03); Comitato Etico CEUR FVG (data approvazione: 28/01/2020 Prot. CEUR-2020-Os-029).

Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti adulti che presentavano una diagnosi di IRC-NDD stadio 3a-5 tra gennaio 2014 e dicembre 2016 (periodo di inclusione), identificata mediante almeno un ricovero con diagnosi di dimissione con codici ICD-9-CM 585.3, 585.4, 585.5 o mediante almeno un valore di eGFR < 60ml/min/1.73m2 (calcolato con il metodo Modification of Diet in Renal Disease, MDRD, a partire dal valore di creatinina riscontrato nel database laboratorio). I pazienti sono stati classificati negli stadi 3a-5 in base al valore di eGFR in accordo alle linee guida Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) [22]. Lo stato anemico è stato definito da un valore di Hb al di sotto della soglia specificata dalle linee guida (< 13 g/dL negli uomini e < 12 g/dL nelle donne) [8].

Tra i pazienti anemici, è stata successivamente identificata una sotto-coorte di pazienti con almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL nell’arco di 6 mesi, definiti come pazienti eleggibili al trattamento con ESA. Sono stati individuati infine tra i pazienti che presentavano almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL in 6 mesi i soggetti che avevano ricevuto un trattamento ESA (codice ATC B03XA) durante il periodo di inclusione. La data indice del paziente è stata definita come la data di prima prescrizione per ESA riscontrata nel periodo di inclusione. L’anno precedente alla data indice è stato considerato per valutare il profilo di comorbilità (periodo di caratterizzazione), mentre il periodo di follow-up è durato 2 anni a partire dalla data indice, o a partire dalla data indice fino al primo di tali eventi: morte, dialisi, trapianto o fine disponibilità del dato. I pazienti sono stati esclusi se: i) erano in dialisi al momento dell’inclusione o prima della data di identificazione dell’IRC nel periodo di inclusione; ii) avevano una diagnosi di cancro nei 5 anni prima della data di identificazione dell’IRC nel periodo di inclusione; iii) il periodo di caratterizzazione era inferiore ad 1 anno.

Durante il periodo di caratterizzazione sono state valutate le seguenti comorbilità, identificate in base alla presenza di codici ICD-9-CM o di codici ATC relativi a trattamenti specifici, utilizzati come proxy per la diagnosi: malattie cardiovascolari (codici ICD-9-CM: 410-414, 430-438, 440, 443), ipertensione (codici ATC C02, C03, C07, C08, C09), diabete (codice ICD-9-CM: 250 o presenza di codici ATC A10), nefropatia diabetica (codice ICD-9-CM 250.4), rene policistico (codice ICD-9-CM 753.1), malattie autoimmuni (codici ICD-9-CM: 714, 720, 696, 555, 556 , presenza di codice ATC L04 o codici esenzione 006, 054, 045, 009), broncopneumopatia cronica ostruttiva BPCO (codice ATC R03), trapianto di rene (codice ICD-9-CM: V420, 556).

Durante il periodo di follow-up, la farmaco-utilizzazione è stata valutata in termini di aderenza al trattamento con ESA mediante il Medication Possession Ratio (MPR), definito come il rapporto tra le unità di trattamento dispensate (valutate come defined daily dose, DDD) durante il periodo di osservazione e la durata del periodo stesso. I pazienti con MPR ≥ 80% sono stati considerati aderenti al trattamento. L’iporesponsività è stata stimata mediante l’adozione di due algoritmi: assenza di un aumento nei valori di Hb nel primo mese di trattamento ESA rispetto ai valori iniziali o presenza di due aumenti di dosaggio ESA fino al 50% durante il periodo di osservazione. La dose media giornaliera di ESA è stata calcolata dividendo il totale delle dosi tra la prima e penultima prescrizione per il numero di giorni coperti. L’analisi economica è stata condotta nella prospettiva del SSN, e i costi sono stati riportati in Euro (€). I costi medi/mediani annualizzati diretti sono stati valutati durante il follow-up: in particolare, sono state considerate le voci di costo relative ai farmaci (è stato considerato il prezzo al pubblico database AFT o prezzo di acquisto ospedaliero database FED al momento dell’acquisto del farmaco), ai ricoveri (la tariffa della singola ospedalizzazione deriva direttamente dai DRG assegnati regionalmente) e alle prestazioni ambulatoriali (valorizzate tramite nomenclatore tariffario regionale). In una sotto-coorte di pazienti con il dato disponibile, è stato valutato inoltre il numero medio/mediano annuo di viste specialistiche nefrologiche.

L’analisi dei dati è puramente descrittiva e non sono state eseguite statistiche inferenziali. Le analisi sono state riportate nella popolazione generale in studio e stratificata per stadio di IRC. Tutte le analisi sono state eseguite utilizzando STATA SE, versione 12.0 (StataCorp LLC, College Station, TX, USA).

 

Risultati

Partendo da una popolazione di oltre 1,5 milioni di assistibili, sono stati identificati 101.143 pazienti con IRC-NDD, di cui 40.020 anemici (Figura 1).

Figura 1: Flow chart della popolazione in studio.
Figura 1: Flow chart della popolazione in studio.

Successivamente, sono stati individuati 25.360 pazienti IRC-NDD anemici con almeno 2 valori di Hb < 11g/dL nell’arco di 6 mesi, definiti come potenzialmente eleggibili al trattamento ESA; di questi, 3.238 presentavano almeno una prescrizione per ESA, e sono stati considerati nell’analisi. La quota di pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA cresceva all’aumentare degli stadi, dal 60,1% nei pazienti con stadio 3 al 79,6% in quelli con stadio 5 (Tabella I).

Stadio 3a (23.626) Stadio 3b (N=10.181) Stadio 4 (N=4.682) Stadio 5 (N=1.531) Totale (N=40.020)
Pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA (n, %) 14.203 (60,1) 6.592 (64,7) 3.347 (71,5) 1.218 (79,6) 25.360 (63,4)
Pazienti trattati con ESA (n, %) 956 (6,7) 851 (12,9) 946 (28,3) 485 (39,8) 3.238 (12,8)
Pazienti non trattati con ESA (n, %) 13.247 (93,3) 5.741 (87,1) 2.401 (71,7) 733 (60,2) 22.122 (87,2)
Tabella I: Distribuzione dei pazienti IRC-NDD con anemia ed eleggibili al trattamento ESA per stadio IRC.

La stessa tendenza è stata riscontrata nei pazienti trattati con ESA, da un minimo del 6,7% nello stadio 3a fino al 39,8% nello stadio 5. Una sotto-analisi in cui sono stati considerati i pazienti con almeno 2 valori Hb < 10 g/dL in 6 mesi, ha mostrato un andamento analogo, con una quota di pazienti trattati che oscillava da un minimo di 8,6% (stadio 3a) ad un massimo di 43,5% (Tabella Supplementare I).

Stadio 3a Stadio 3b Stadio 4 Stadio 5 Totale
Pazienti IRC-NDD con anemia 23.626 10.181 4.682 1.531 40.020
Pazienti potenzialmente eleggibili al trattamento ESA (n, %) 9.675 (41,0) 4.612 (45,3) 2.442 (52,2) 974 (63,6) 17.703 (44,2)
Pazienti trattati con ESA (n, %) 832 (8,6) 715 (15,5) 771 (31,6) 424 (43,5) 2.742 (15,5)
Tabella Supplementare I: Distribuzione dei pazienti IRC-NDD con anemia ed eleggibili al trattamento ESA con almeno 2 valori Hb < 10 g/dL nell’arco di 6 mesi per stadio IRC.

Dei 3.238 pazienti inclusi, 956 erano nello stadio 3a (età media 76,6 anni, 55% uomini), 851 nello stadio 3b (età media 79,7 anni, 50,3% uomini), 946 nello stadio 4 (età media 77,4 anni, 47,1% uomini) e 485 nello stadio 5 (età media 71,6 anni, 52,2% uomini) (Tabella II).

Stadio 3a (N=956) Stadio 3b (N=851) Stadio 4 (N=946) Stadio 5 (N=485) Totale (N=3.238)
Età (media, DS) 76,6 (10,9) 79,7 (10,6) 77,4 (12,5) 71,6 (14,3) 76,9 (12,1)
Fascia d’età: / / / / /
– 18-39 anni (n, %) 9 (0,9) 8 (0,9) 14 (1,8) 11 (2,5) 42 (1,4)
– 40-59 anni (n, %) 55 (5,9) 34 (4,5) 65 (7,2) 84 (17,5) 238 (7,6)
– 60-79 anni (n, %) 461 (50,5) 303 (38,5) 374 (41,8) 230 (47,4) 1.368 (44,3)
– ≥ 80 anni (n, %) 430 (42,6) 506 (56,1) 493 (49,3) 160 (32,6) 1.589 (46,6)
Uomini (n, %) 526 (55,0) 428 (50,3) 446 (47,1) 253 (52,2) 1.653 (51,1)
Patologie CV (n, %) 196 (20,5) 246 (28,9) 269 (28,4) 118 (24,3) 829 (25,6)
Ipertensione (n, %) 868 (90,8) 811 (95,3) 912 (96,4) 454 (93,6) 3.045 (94,0)
Diabete (n, %) 361 (37,8) 346 (40,7) 409 (43,2) 188 (38,8) 1.304 (40,3)
Nefropatia diabetica (n, %) 19 (2,0) 35 (4,1) 53 (5,6) 46 (9,5) 153 (4,7)
Rene policistico (n, %) NR 5 (0,6) 8 (0,8) 16 (3,3) 32 (1,0)
Malattie autoimmuni (n, %) 28 (2,9) 20 (2,4) 17 (1,8) 8 (1,6) 73 (2,3)
BPCO, ≥ 1 px (n, %) 510 (53,3) 433 (50,9) 464 (49,0) 224 (46,2) 1.631 (50,4)
BPCO, ≥ 2 px (n, %) 343 (35,9) 308 (36,2) 320 (33,8) 147 (30,3) 1.118 (34,5)
BPCO, ≥ 3 px (n, %) 271 (28,3) 234 (27,5) 254 (26,8) 103 (21,2) 862 (26,6)
Note: NR, non riportato per data privacy (<4 pazienti coinvolti). BPCO, broncopneumopatia cronica ostruttiva; CV, cardiovascolare; px, prescrizione.
Tabella II: Caratteristiche demografiche della coorte IRC-NDD con anemia in terapia ESA e con almeno 2 valori di Hb < 11 g/dL (totale pazienti e distribuzione per stadio IRC).

Non è stata osservata una tendenza lineare all’aumentare dello stadio IRC per le comorbidità più frequenti come le malattie cardiovascolari (range 20,5-28,9%), l’ipertensione (oltre il 90% in tutti gli stadi), e il diabete (range 37,8%-43,2%). Un trend ascendente è stato osservato per le nefropatie diabetiche, dal 2% al 9,5% passando dallo stadio 3a al 5 e per il rene policistico, che ha interessato fino al 3,3% dei pazienti in stadio 5 mentre la proporzione dei pazienti con malattie autoimmuni tendeva a diminuire dal 2,9% nello stadio 3a all’1,6% nello stadio 5.

Durante il periodo di follow-up, l’aderenza al trattamento con ESA è stata osservata nel 47,9% dei pazienti, con una tendenza discendente all’aumentare dello stadio IRC: si è passati infatti da una quota di pazienti aderenti pari al 65,8% nello stadio 3a ad un minimo del 35% nello stadio 5 (Figura 2). Tra i pazienti in trattamento, il 42,2% è risultato iporesponsivo. Il dosaggio medio giornaliero di ESA nella popolazione in studio è risultato pari a 4,7 mcg per darbepoetina alfa, 1,9 TU per epoetina alfa originator e 2,7 TU per epoetina alfa biosimilare, 2,6 per epoetina zeta, 3,2 mcg per metossipolietilenglicole-epoetina beta, 1,8 TU per epoetina beta, 2,7 TU per epoetina theta.

Figura 2: Aderenza al trattamento ESA durante il periodo di follow-up.
Figura 2: Aderenza al trattamento ESA durante il periodo di follow-up.

Gli eventi analizzati durante il follow-up sono mostrati in Tabella III: 1.415 pazienti hanno avuto anemia persistente, si sono verificati nuovi eventi cardiovascolari in 983 pazienti, 21 hanno avuto un trapianto di rene e 1.435 sono deceduti. Inoltre, circa il 48% presentava un livello CRP > 15mg/L. L’analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA ha mostrato inoltre come i pazienti non in trattamento con ESA tendevano ad avere un maggior rischio di morte rispetto ai pazienti trattati (Figura 3). 

Totale Livello di infiammazione Ipertensione Diabete Altro ESA Carenza di ferro
CRP>5mg/L CRP>10mg/L CRP>15mg/L
n 3.238 1.947 (60,1) 1.723 (53,2) 1.554 (48,0) 3.020 (93,3) 1.207 (37,3) 1.330 (41,1) 1.221 (37,7)
Trapianto di reni (n, %) 21 11 (52,4) 10 (47,6) 7 (33,3) 19 (90,5) 0 (0,0) 12 (57,1) 10 (47,6)
Morte (n, %) 1.435 932 (64,9) 846 (59,0) 769 (53,6) 1.336 (93,1) 540 (37,6) 556 (38,7) 500 (34,8)
Insorgenza di eventi CV (n, %) 983 689 (70,1) 622 (63,3) 572 (58,2) 943 (95,9) 461 (46,9) 393 (40,0) 384 (39,1)
Insorgenza di tumori (n, %) 311 194 (62,4) 172 (55,3) 155 (49,8) 279 (89,7) 108 (34,7) 109 (35,0) 113 (36,3)
Anemia persistente (n, %) 1415 871 (61,6) 782 (55,3) 705 (49,8) 1.306 (92,3) 532 (37,6) 617 (43,6) 547 (38,7)
Tabella III: Eventi durante il periodo di follow-up in base alle comorbilità, carenza di ferro e livello di infiammazione nei pazienti IRC-NDD con anemia in terapia ESA.
Figura 3: Analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA.
Figura 3: Analisi di sopravvivenza nei pazienti eleggibili al trattamento con ESA.

Il ricorso a visite nefrologiche specialistiche è stato valutato su una sotto-corte di pazienti con il dato disponibile ed è relativo al periodo di follow-up (2 anni) (Tabella IV): il numero medio di visite specialistiche per paziente variava da un minimo di 1,2 (stadio 3a) ad un massimo di 5,5 (stadio 5), in linea con la quota di pazienti senza visite nefrologiche che diminuiva dal 67,9% nei pazienti in stadio 3a al 53,9% nei pazienti con stadio 5. Di contro, i pazienti con almeno 2 visite nefrologiche aumentavano dal 22% al 40,9%.

  Stadio 3a (N=377) Stadio 3b (N=301) Stadio 4 (N=318) Stadio 5 (N=115) Totale (N=1.111)
Numero di visite nefrologiche/paziente (media, DS) 1,2 (2,7) 1,8 (3,2) 3,2 (5,0) 5,5 (8,4) 2,4 (4,6)
Numero di visite nefrologiche/paziente (mediana, Q1-Q3, min-max) 0 (0-1, 0-14) 0 (0-3, 0-13) 1 (0-5, 0-23) 0 (0-10, 0-27) 0 (0-3, 0-24)
Pazienti senza visite nefrologiche (n, %) 256 (67,9) 166 (55,1) 153 (48,1) 62 (53,9) 637 (57,3)
Pazienti con 1 visita nefrologica (n, %) 38 (10,1) 34 (11,3) 28 (8,8) 6 (5,2) 106 (9,5)
Pazienti con almeno 2 visite nefrologiche (n, %) 83 (22,0) 101 (33,6) 137 (43,1) 47 (40,9) 368 (33,1)
Tabella IV: Ricorso alle visite nefrologiche durante il follow-up.

Il costo medio annuo è stato valutato nei pazienti vivi durante il follow-up, ed è riportato in Tabella V. La voce di costo ad impatto più elevato era rappresentata dalla spesa relativa ai farmaci, pari a €4.391, con un range tra stadi IRC compreso tra €3.291 e €5.986, seguito dalla voce dei ricoveri, di circa €3.591 (da €3.735 stadio 3a a €3.260 stadio 5), dai test di laboratorio (€1.460, con un notevole aumento da €777 a €6.392 al progredire dello stadio) e dalle visite specialistiche (€129). 

  NDD-CKD anemia ESA treatment cohort
Stadio 3a (N=590) Stadio 3b (N=547) Stadio 4 (N=515) Stadio 5 (N=192) Totale (N=1.844)
Farmaci, € (media, DS) 5,986 (10.053) 3.654 (6.390) 3.291 (4.020) 4.540 (9.824) 4.391 (7.760)
 ESA, € (media, DS) 2.270 (3.625) 1.625 (2.816) 1.539 (2.301) 1.547 (2.246) 1.799 (2.942)
Ricoveri, € (media, DS) 3.735 (5.154) 3.651 (5.661) 3.488 (6.025) 3.260 (4.269) 3.591 (5.479)
Visite, € (media, DS) 107 (115) 90 (96) 114 (235) 353 (724) 129 (287)
Lab test, € (media, DS) 777 (1.746) 672 (2.644) 1.240 (4.331) 6.392 (12.843) 1.460 (5.315)
Lab test patologia-correlati, € (media, DS) 149 (176) 141 (192) 149 (192) 141 (214) 146 (189)
MEDIANE
Farmaci, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 2.765 (1.280-5.831, 11-61.421) 2.169 (990-4.113, 12-29.269) 2.160 (1.135-4.022, 12-19.041) 2.399 (1.244-4.771, 10-49.221) 2.343 (1.169-4.566, 10-39.108)
 ESA, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 1.031 (323-2.616, 6-17.320) 731 (225-1.970, 5-14.585) 883 (298-2.029, 4-12.857) 728 (286-1.913, 9-11.228) 843 (281-2.150, 4-14.910)
Ricoveri, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 1.867 (0-5.675, 0-26.218) 1.823 (0-4.873, 0-32.632) 1.867 (0-4.570, 0-30.142) 1.830 (0-4.500, 0-21.778) 1.856 (0-4.865, 0-26.218)
Visite, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 70 (23-149, 0-547) 63 (21-124, 0-435) 71 (23-124, 0-972) 86 (28-269, 0-3.310) 69 (23-136, 0-1.477)
Lab test, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 269 (89-776, 0-8.164) 166 (48-462, 0-7,344) 195 (71-534, 0-26.550) 393 (84-3.044, 0-54.340) 225 (71-656, 0-30.451)
Lab test patologia-correlati, € (mediana, Q1-Q3, min-max) 105 (37-191, 0-868) 87 (31-174, 0-979) 102 (45-185, 0-849) 66 (6-172, 0-1.382) 95 (35-182, 0-861)
Tabella V: Costi medi annuali diretti per i pazienti IRC-NDD con anemia in terapia ESA vivi durante il follow-up.

 

Discussione

La presente analisi ha mostrato una fotografia della gestione dell’anemia in IRC-NDD e del carico economico dei pazienti IRC-NDD (stadio 3a-5) con anemia in terapia ESA in termini di caratteristiche demografiche e cliniche, percorsi terapeutici, accesso alle visite specialistiche nefrologiche e costi assistenziali a carico del SSN in contesti di reale pratica clinica sul territorio italiano, coinvolgendo una popolazione di circa 1,5 milioni di assistibili.

Dei 101.143 pazienti IRC-NDD identificati, circa il 40% era anemico; tale dato risulta in linea con uno studio prospettico di coorte condotto in Italia nel 2003, in cui è stata riportata una prevalenza di anemia lieve nel 41,3% dei pazienti adulti IRC-NDD (stadio 3-5), identificata durante la prima visita in 25 cliniche specialistiche [23]. Inoltre, un altro studio osservazionale italiano condotto su 755 pazienti prevalenti IRC-NDD ha valutato una prevalenza dell’anemia grave e lieve rispettivamente nel 18% e nel 44% dei casi, che è rimasta invariata dopo 6 mesi (19,3 e 43,2%), e gli autori sottolineano come questo dato possa essere associato ad una inerzia clinica nella gestione dell’anemia [19].

Dalla nostra analisi emerge come tra i pazienti eleggibili al trattamento, solo il 13% sia effettivamente in terapia con ESA. Nonostante l’analisi per singolo stadio riveli un forte incremento nei pazienti trattati con il progredire dell’IRC, dal 7% nello stadio 3a al 40% nello stadio 5, si osserva una quota residuale di 60% di pazienti in tale stadio senza un trattamento ESA. La percentuale riscontrata di pazienti trattati è risultata solo di poco maggiore nei pazienti con valori di Hb < 10 g/dL. Tali dati potrebbero suggerire la presenza di altre cause reversibili di anemia che potrebbero essere corrette utilizzando terapie alternative agli ESA, come ad esempio carenze marziali, il cui trattamento di prima linea consigliato dalle linee guida KDIGO è rappresentato dall’utilizzo di formulazioni a base di ferro [24]. Inoltre, il dato potrebbe essere sottostimato in quanto la somministrazione degli ESA avvenuta durante eventuali ricoveri potrebbe non essere tracciabile all’interno del database. Una ulteriore spiegazione potrebbe risiedere nel dato relativo alle visite nefrologiche che, seppur l’analisi sia stata condotta in un sottogruppo di pazienti con il dato disponibile, ha evidenziato come oltre la metà di questi non presentasse nemmeno una visita nefrologica (in regime di rimborsabilità). Tuttavia, il trend di sotto-utilizzo delle terapie a base di ESA è stato precedentemente descritto in letteratura sia a livello internazionale che nazionale: Alagoz e colleghi [25] hanno riscontrato un sotto-uso di ESA nei pazienti con anemia severa in Turchia, con 56 pazienti effettivamente trattati su 159 candidabili al trattamento. L’inerzia terapeutica è stata inoltre descritta da Minutolo et al. [19] con circa il 34% di pazienti IRC-NDD seguiti da Centri Nefrologici in Italia che non ricevevano una terapia ESA nonostante avessero una condizione anemica confermata nell’arco dei 6 mesi di osservazione. Tale tendenza è stata recentemente confermata dall’analisi CKDopps, che ha mostrato come un’ampia percentuale di pazienti con anemia da IRC-NDD non abbia ricevuto farmaci per l’anemia entro 1 anno [18]. Dunque la ridotta prescrizione di ESA potrebbe essere dovuta sia ad un inizio tardivo della terapia, come documentato in letteratura, sia al fatto che generalmente i prescrittori inseriscono gli ESA in base ai livelli di Hb e non in base allo stadio: la classificazione K/DOQI della CKD applicata ad una popolazione con molti anziani come quella italiana tende a sovrastimare la perdita di GFR rispetto alle effettive necessità depurative di soggetti con bassa attività metabolica e una alimentazione “mediterranea” piuttosto bilanciata. Se il basso GFR è “age-adjusted” per una perdita fisiologica di 0,75 mL/min/anno a partire dai 30 anni vi è molta meno “insufficienza renale” di quanto il valore stimato faccia ritenere in termini di effettiva depurazione (azotemia, iperpotassiemia, iperfosforemia, sovraccarico di volume) e quindi anche meno anemia di quanto non ci si attenda in base allo stadio K/DOQI. In linea con la tendenza di riduzione delle prescrizioni ESA, anche l’aderenza ai trattamenti diminuiva con il progredire della patologia. In quest’ultimo caso, l’offerta nefrologica ambulatoriale in alcune aeree è poco capillare e con lunghe liste di attesa, e ciò comporta lunghi spostamenti, difficili per persone anziane e/o disabili e di conseguenza rallenta il follow-up del paziente che, se poco seguito, potrebbe tendere ad una minor aderenza.

Riguardo al profilo di comorbilità, la quasi totalità dei pazienti era ipertesa, coerentemente con il dato emerso dallo studio IRIDE, in cui la quota dei pazienti ipertesi variava tra l’84% e 91% negli stadi 3a-5 [20] mentre la proporzione di pazienti diabetici descritta nella nostra analisi (40% circa) era in linea con il 35% riportato in una coorte trattata con ESA con Hb < 11 g/dL descritta in uno studio osservazionale svedese [26].

L’analisi di sopravvivenza trattati vs non trattati elaborata considerando i 2 anni di follow-up ha mostrato come i pazienti in trattamento tendevano ad incorrere in un rischio minore di morte rispetto ai pazienti trattati. Tuttavia, l’analisi è di carattere descrittivo e il risultato non deve essere interpretato come un nesso di causalità tra la presenza/assenza di trattamento ESA e la mortalità. Le motivazioni potrebbero risiedere in caratteristiche cliniche differenti tra i due gruppi, per cui i non trattati potrebbero presentare un profilo di rischio intrinseco maggiore rispetto ai trattati; oppure i pazienti in trattamento potrebbero essere più seguiti da Centri Nefrologici ed essere dunque più controllati. I risultati emersi da uno studio svedese indicano che l’inizio di una terapia ESA con valori Hb < 11 g/dL non è correlato ad un aumento della mortalità o di eventi cardiovascolari nei pazienti IRC-NDD, mentre quando l’Hb scende per la prima volta sotto la soglia < 10-11 g/dL l’inizio della terapia ESA è stata associata a una migliore sopravvivenza [26]. In direzione contraria sono i dati nei diversi studi clinici randomizzati sui pazienti trattati con ESA, in cui la correzione totale dell’anemia (valori Hb > 12 g/dL), rispetto alla correzione parziale (valori Hb < 12 g/dL), è risultata associata a un aumento del rischio di eventi avversi e mortalità [27]: nello studio CREATE, in cui pazienti IRC-NDD sono stati randomizzati per ricevere un trattamento ESA per la correzione totale o parziale dell’anemia, non è stata osservata una riduzione del rischio cardiovascolare nei pazienti con correzione totale, i quali hanno invece mostrato un rischio maggiore, seppur non statisticamente significativo, di morte [28]. Nello studio clinico CHOIR, i pazienti nel gruppo con il target più elevato di Hb presentavano un rischio più elevato di eventi cardiovascolari e morte rispetto a quelli nel gruppo target più basso [29]. L’analisi del consumo di risorse focalizzata sull’accesso alle visite specialistiche ha evidenziato una tendenza incrementale nel numero medio e nella quota di pazienti con visite nefrologiche in regime di rimborsabilità all’aumentare dello stadio IRC. Oltre la metà dei pazienti analizzati non presentava alcun accesso a tali visite; data l’età avanzata dei pazienti in studio, una motivazione potrebbe risiedere in una scarsa mobilità di questi, o nel fatto che una quota di pazienti potrebbe essere assistita in strutture residenziali. In uno studio prospettico italiano condotto su pazienti non seguiti da Centri Nefrologici, i pazienti CKD negli stadi 3b-5 presentavano un rischio di ESRD (End Stage Renal Disease) e morte maggiore rispetto ai pazienti ai primi stadi, suggerendo l’importanza della presa in carico di tali pazienti presso ambulatori di Nefrologia [30]. Infine, l’analisi dei costi ha evidenziato un elevato burden economico per i pazienti, dovuto soprattutto alla spesa relativa ai farmaci, di cui gli ESA incidono per circa un 40%.

Lo studio presenta dei limiti. I database amministrativi contengono le informazioni inerenti al consumo di risorse sanitarie rimborsate dal SSN, per cui i consumi a carico del paziente non sono tracciati. Per tale motivo, non è stato possibile valutare l’utilizzo di supplementazioni di ferro orale, mentre si è riscontra la somministrazione di ferro endovenoso per solo l’1,1% dei pazienti; per la stessa natura dei database amministrativi non è stato possibile tracciare il ricorso a visite specialistiche in ambito privato non rimborsato. Nei database non è riportata l’indicazione per i farmaci prescritti, per cui le terapie ESA potrebbero essere correlate a condizioni diverse dall’anemia da CKD. Al fine di minimizzare tale bias, sono stati esclusi i pazienti con precedente diagnosi di cancro. Inoltre, la presenza di prescrizione ESA potrebbe essere stata sottostimata se avvenuta in fase di ricovero, non sempre tracciabile, o all’interno di strutture di ricovero e cura per le quali il dato non è tracciato all’interno dei flussi amministrativi . Di conseguenza, anche l’aderenza ad ESA potrebbe risultare sottostimata. Inoltre, l’aderenza è calcolata sulla base delle prescrizioni dispensate, mentre non è possibile tracciare il reale utilizzo fatto dal paziente. I pazienti sono stati stimati eleggibili alla terapia ESA sulla base dei livelli di Hb, per cui il dato potrebbe essere sovrastimato in mancanza di informazioni cliniche che potrebbero rappresentare controindicazioni a tale trattamento, o di anemia dovuta ad altre cause.

 

Conclusioni

La presente analisi condotta in contesti real-world di pratica clinica in Italia ha fornito una panoramica sulla gestione terapeutica dei pazienti IRC-NDD (stadio 3a-5) anemici, con particolare riguardo ai pazienti in trattamento con ESA. I dati hanno evidenziato una tendenza al sotto-utilizzo di ESA, oltre ad una aderenza non ottimale alla terapia e hanno mostrato come in una quota significativa di pazienti non sia stato osservato il ricorso alle visite nefrologiche (in regime di rimborsabilità). Tali fattori potrebbero contribuire ad aumentare il carico complessivo della malattia, e suggeriscono la necessità di implementare azioni volte a migliorare il profilo di gestione del paziente anemico e del suo trattamento farmacologico.

 

Riconoscimenti

Elisa Giacomini ha fornito un supporto significativo come medical writer per la stesura di questo manuscript. Francesca Donà è stata ideatrice dello studio e ha lavorato nella squadra di progetto fino ai primi risultati di interim.

 

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Comparison between Creatinine Clearance and eGFRcyst-crea: a real-life experience

Abstract

Introduction: The evaluation of renal function is computed using the estimated glomerular filtration rate methods or the measured glomerular filtration rate. Cystatin C has been well studied as marker of renal function compared to serum creatinine, but only few studies compare Glomerular Filtration Rates estimated including both creatinine and cystatin (eGFRcyst-crea) to creatinine clearance (CrCl). This cross-sectional study compares CrCl and eGFRcyst-crea with eGFRcrea and searches for correlation with comorbidities.
Methods: This cross-sectional study consists of 78 patients hospitalized for acute and/or chronic renal disease. We performed the concordance correlation coefficient analysis between the eGFRcrea and the CrCl and eGFRcyst-crea in the whole sample and in the various subgroups.
Results: Steiger’s comparison of correlations from dependent samples showed a correlation coefficient between C-reactive protein and eGFRcyst-crea stronger than between C-reactive protein and CrCl (Z: 2.51, p=0.012). Similar results were showed with the association with procalcitonin (Z: 5.24, p<0.001), serum potassium (Z: -3.13, p=0.002), and severe CKD (Z: -2.54, p=0.011). The concordance correlation coefficient test showed major differences between diagnostic methods compared to eGFR-crea in diabetic subgroup, severe CKD, and in procalcitonin higher than 0.5ng/ml. Discussion: The demonstration of a strong concordance between the eGFRcrea and the eGFRcyst-crea allows us to diagnose and to stage CKD better than creatinine clearance in patients with high inflammatory status. Furthermore, this information opens new research scenarios, and further, larger studies are needed to confirm these hypotheses.
Keywords: Phosphorus, Hemoglobin, Anemia, Chronic Kidney Disease, FGF23, Generalized estimating equation

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Introduction

The association of cystatin C with renal function has been studied for more than 25 years. Cystatin C has been described to have better diagnostic performance than creatinine for assessing renal function, particularly in detecting small reductions in glomerular filtration rate (GFR).

Since cystatin C is a low-molecular-weight protein produced by all nucleated cells, it is less influenced by variables such as age, body weight or diet and it has been proposed as a more reliable marker of kidney function than serum creatinine. 

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Esiste un ruolo per la terapia orale con ferro nell’anemia del paziente con malattia renale cronica in fase conservativa? Risultati di una esperienza clinica

Abstract

La carenza marziale gioca un ruolo importante nella patogenesi dell’anemia del paziente affetto da malattia renale cronica (MRC).

Il deficit marziale è presente in circa il 30% dei pazienti affetti da MRC non in dialisi e il trattamento di prima linea è rappresentato dai supplementi orali di ferro, così come raccomandato dalle linee guida Kidney Disease Improving Outcomes (KDIGO). A differenza del ferro endovena, infatti, i preparati per os sono più facili da reperire e somministrare, sono meno dispendiosi ed evitano frequenti venipunture. La loro efficacia è, però, limitata dallo scarso assorbimento intestinale e dagli eventi avversi che ne limitano la compliance.

Nuovi preparati orali a base di ferro sono disponibili per il trattamento dell’anemia in pazienti non in dialisi e sono stati oggetto di studi clinici che ne hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza in questo gruppo di pazienti, tanto da essere ritenuti una valida alternativa al ferro endovenoso.

Abbiamo condotto presso la nostra nefrologia uno studio clinico, monocentrico, prospettico, il cui scopo è stato quello di valutare la tollerabilità e l’efficacia dell’integratore alimentare composto da ferro saccarato sul metabolismo marziale di 33 soggetti adulti di entrambi i sessi, anemici e affetti da MRC stadio 3-5. L’analisi dei dati ha messo in evidenza che il ferro saccarato è un ferro orale efficace e sicuro, in grado di determinare un incremento statisticamente significativo del livello dell’emoglobina rispetto ai valori basali già dopo due mesi di terapia, seppur i suoi effetti sul ripristino dei depositi di ferro siano limitati.

Parole chiave: carenza marziale, insufficienza renale cronica, MRC, anemia, ferro orale

Introduzione

La carenza marziale, associata o meno all’anemia, rappresenta una delle condizioni più frequenti dei pazienti affetti da malattia renale cronica (MRC), siano essi in terapia conservativa o in terapia dialitica sostitutiva [1,2].

La carenza marziale è definita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità come una condizione caratterizzata da una quantità di ferro insufficiente a mantenere la fisiologica funzione di sangue, cervello e muscoli. Essa non sempre si associa ad anemia, soprattutto se il deficit non è sufficientemente severo o è di recente insorgenza [3].

 

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Il trattamento dell’anemia del paziente con malattia renale cronica: dopo un viaggio lungo oltre 30 anni quali evidenze supportano la scelta motivata di un ESA?

Abstract

Gli Agenti Stimolanti l’Eritropoiesi (ESA) sono farmaci efficaci e ben tollerati per il trattamento dell’anemia nei pazienti con malattia renale cronica. Negli anni, la ricerca scientifica e la pratica clinica si sono focalizzati principalmente sul target di emoglobina da raggiungere, fino a valori nel range di normalità. Si è passati poi ad un approccio più cauto di correzione parziale dell’anemia.

Si è rivolta invece poca attenzione alle possibili differenze tra le diverse molecole di ESA. Nonostante presentino un comune meccanismo di azione sul recettore dell’eritropoietina, esse hanno peculiari caratteristiche farmacodinamiche che potrebbero dare segnali diversi di attivazione del recettore, con possibili differenze cliniche.

Alcuni studi e metanalisi, effettuati in passato, non hanno evidenziato differenze significative in tal senso tra i vari ESA. Più recentemente, uno studio osservazionale del registro di dialisi giapponese ha evidenziato un rischio di mortalità da ogni causa maggiore del 20% nei pazienti trattati con ESA a lunga emivita rispetto ai pazienti trattati con quelli a breve emivita; la differenza di rischio era più elevata nei pazienti che avevano ricevuto dosi più elevate di ESA. Tali risultati non sono stati confermati da un recente trial randomizzato che non ha dimostrato differenze significative nel rischio di morte da tutte le cause o di eventi cardiovascolari per la metossipolietilenglicole epoetina beta rispetto agli ESA a breve emivita o alla darbepoetina alfa. Infine, i dati di uno studio osservazionale italiano, effettuato in fase conservativa, hanno evidenziato un’associazione tra l’uso di alte dosi di ESA e un maggior rischio di CKD terminale, limitata al solo uso degli ESA a breve emivita.

In conclusione, la pari sicurezza degli ESA a lunga e a breve emivita è supportata da un trial randomizzato disegnato ad hoc per testare questa ipotesi. Gli studi osservazionali debbono essere considerati solo come generatori di ipotesi, per il rischio di bias prescrittivo.

Parole chiave: anemia, agenti stimolanti l’eritropoiesi, ESA, mortalità, malattia renale cronica, lunga emivita, breve emivita

Introduzione

Dalla pubblicazione dello storico lavoro di Eschbach più di 30 anni fa [1], il trattamento dell’anemia con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Erythropoiesis Stimulating Agents, ESAs) ha rivoluzionato la qualità della vita dei pazienti con malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD). In quegli anni i pazienti erano gravemente anemici e spesso sopravvivevano con livelli di emoglobina anche inferiori a 5 g/dL, ricorrendo a periodiche trasfusioni, con alto rischio di trasmissione di un’epatite allora sconosciuta, definita “non A-non B” (oggi chiamata C) e con conseguente accumulo di grandi quantità di ferro. Nei casi più gravi i nefrologi erano costretti ad intervenire con un trattamento chelante a base di desferriossamina, a sua volta gravato da serie complicanze come la mucoviscidosi. Improvvisamente, grazie all’utilizzo dell’eritropoietina, i pazienti ricominciarono a vivere. Tale era l’entusiasmo dei nefrologi nel poter finalmente correggere efficacemente la grave anemia dei loro pazienti cronici, che si fecero trascinare fino a una correzione troppo rapida dei valori di emoglobina, portando a complicanze come un aumento dei valori pressori sino a severe crisi ipertensive e, a volte, convulsioni. 

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Deficit marziale nella Malattia Renale Cronica non dialitica: dalla diagnosi al trattamento

Abstract

Il deficit marziale rappresenta un disordine nutrizionale frequente nei soggetti con insufficienza renale cronica non in dialisi dovuto sia alla maggiore tendenza a perdite occulte gastrointestinali sia allo stato infiammatorio cronico con un conseguente minor assorbimento entericoindotto dagli elevati livelli sierici di epcidina. Tali fenomeni inducono un bilancio marziale negativo che compromette l’eritropoiesi contribuendo alla patogenesi dell’anemia del paziente nefropatico. Attualmente sono disponibili numerosi test laboratoristici per consentire un’adeguata diagnosi di deficit marziale. Tra i nuovi parametri, la percentuale di emazie ipocromiche (% HYPO) ed il contenuto emoglobinico reticolocitario (CHr) rappresentano i parametri più sensibili e specifici per individuare un’eritropoiesi ferro-carente. Purtroppo la loro scarsa disponibilità ne limita l’implementazione nella pratica clinica. Nei soggetti nefropatici non in dialisi, intolleranti o non responsivi alla terapia orale, l’uso dei nuovi preparati a base di ferro endovenoso, come il ferro carbossimaltosio, ha dimostrato una completa e rapida correzione del deficit marziale. Inoltre, tale preparato risulta essere associato a minori effetti avversi dal momento che il guscio carboidratico (carbossimaltosio) risulta essere più stabile rispetto al gluconato e al saccarato e determina un minore rilascio di ferro libero. Inoltre, la possibilità di somministrare tale preparato di ferro a dosi elevate e frequenza ridotta espone il paziente a minori rischi infusivi. Infine, un aspetto rilevante nell’utilizzo del ferro carbossimaltosio nella popolazione non dialitica è rappresentato da un sostanziale vantaggio economico determinato principalmente da una riduzione dei costi indiretti.

 

PAROLE CHIAVE: Insufficienza renale cronica, deficit marziale, anemia, ferro carbossimaltosio, saturazione della transferrina, ferritina

abstract illustrato

Introduzione

Il deficit marziale rappresenta uno dei più comuni disordini nutrizionali a livello mondiale che coinvolge maggiormente l’età infantile e le donne in gravidanza, nei paesi in via di sviluppo, ed almeno il 30-40 % della popolazione adulta nei paesi industrializzati (1, 2). La carenza di ferro può riscontrarsi in molte condizioni cliniche, principalmente nelle malattie croniche, come nelle sindromi infiammatorie croniche intestinali (Inflammatory Bowel Disease-IBD), nello scompenso cardiaco congestizio e nell’insufficienza renale cronica (Chronic Kidney Disease-CKD).

 

Metabolismo del ferro

Nel soggetto sano, l’assorbimento intestinale di ferro elementare è di circa 1-2 mg al giorno, mentre i depositi corporei sono molto più consistenti. Infatti, la mioglobina muscolare contiene circa 300 mg di ferro elementare e circa il doppio è contenuto nei macrofagi del sistema reticolo-endoteliale. Tuttavia, la maggior parte del ferro corporeo è incorporato nell’emoglobina (1800-2000 mg) (3). Il movimento tra i diversi compartimenti (muscolo, intestino, macrofagi) è assicurato da una proteina di trasporto, la transferrina, che veicola il ferro assorbito a livello intestinale verso i depositi e da questi verso il midollo osseo. Circa 20-25 mg di ferro elementare devono essere veicolati a livello midollare per la produzione di nuovi globuli rossi mentre una quantità simile ritorna ai macrofagi attraverso la rimozione dei vecchi globuli rossi indotta dalla fagocitosi. Tuttavia, la quantità totale di ferro legata alla transferrina è di soli 3 mg. Pertanto, in condizioni fisiologiche, per assicurare una normale eritropoiesi, è necessario un turnover di 6-7 volte al giorno del ferro legato alla transferrina. In presenza di un’aumentata produzione di citochine, come può avvenire in corso di CKD, la capacità legante della transferrina si riduce e per mantenere inalterata la produzione di globuli rossi, il turnover giornaliero dovrebbe aumentare fino a 12 volte.

 

Deficit marziale in CKD non dialitica

I pazienti con CKD di grado moderato-avanzato mostrano, infatti, un’alterazione nel metabolismo del ferro, indotto in parte dallo stato infiammatorio cronico, cui si aggiunge un bilancio marziale negativo per la spiccata tendenza alle perdite occulte gastrointestinali e per il ridotto assorbimento intestinale (dieta incongrua e assorbimento non ottimale). Quest’ultimo è fortemente indotto dall’aumento dei livelli dell’epcidina, una proteina della fase acuta sintetizzata dal fegato, che rappresenta il principale regolatore del metabolismo del ferro. Questa proteina blocca, internalizza e degrada la ferroportina, una proteina di canale che rappresenta l’unica via attraverso cui il ferro può essere estruso dalle cellule, indipendentemente se esse siano enterociti, macrofagi o epatociti (4). Pertanto, elevati livelli di epcidina, infatti, riducono l’assorbimento di ferro dall’intestino e ne inibiscono il rilascio dal sistema reticolo-endoteliale (5, 6). Il bilancio marziale negativo compromette il processo eritropoietico contribuendo alla patogenesi dell’anemia del paziente nefropatico.

La carenza marziale, associata o meno all’anemia, è tra le più comuni complicanze tra i pazienti con CKD in fase conservativa o sostitutiva (ESRD) (7, 8). Essa si manifesta con una sintomatologia clinica caratterizzata da stanchezza fisica, cefalea, maggiore suscettibilità allo stress, dispnea, riduzione delle funzioni cognitive, ma anche cheilite angolare, alopecia, glossite atrofica, secchezza della cute e sindrome delle gambe senza riposo (7, 9).

La gestione dell’anemia secondaria alla CKD è un aspetto che richiede una particolare attenzione da parte degli specialisti nefrologi dal momento che essa si associa in maniera indipendente ad un aumentato rischio cardiovascolare e di progressione renale e ad un peggioramento della qualità di vita (101112 1314151617).

Nonostante l’impatto clinico del deficit marziale nel paziente nefropatico, uno studio multicentrico prospettico effettuato su una coorte di 755 pazienti con CKD stadio 3b-5 seguiti in 19 centri nefrologici italiani, ha evidenziato una prevalenza di deficit marziale maggiore del 60%, nell’intera coorte ed un’incidenza pari al 29% a sei mesi (18). Nei pazienti affetti da deficit marziale, il 21% mostrava anemia severa (Hb <11 g/dl); il 45% anemia moderata (Hb 11-13g/dl negli uomini e Hb 11-12 g/dl per le donne) mentre il 34% assenza di anemia. Inoltre, nei soggetti sottoposti a trattamento con preparati a base di ferro per via orale, è stata riscontrata una prevalenza di effetti avversi principalmente di natura gastrointestinale (nausea, stipsi o diarrea) di circa il 12% (18). Un aspetto rilevante evidenziato da tale studio è una persistente inerzia clinica terapeutica nel trattamento dell’anemia renale: infatti, circa il 75% dei pazienti con deficit marziale non riceveva prescrizioni di preparati a base di ferro e il 35% dei pazienti non era trattato con eritropoietina (erytropoietin stimulating agents-ESA) nonostante livelli di Hb <11 g/dL (18). Il sotto-trattamento del deficit marziale era un dato persistente, riconfermato nel controllo clinico effettuato a 24 settimane (18). Pertanto l’inerzia clinica rappresenta un fenomeno clinicamente significativo essendo associato ad un’alta prevalenza di anemia anche in un setting di pazienti regolarmente seguiti in nephrology care.

 

Diagnosi del deficit marziale

La diagnosi di deficit di ferro è una diagnosi di laboratorio. In assenza di anemia, il deficit di ferro è asintomatico e può rimanere tale anche con una lieve o moderata anemia se questa si è instaurata lentamente. I segni e i sintomi riferibili sia all’anemia sia alla carenza di ferro nei tessuti compaiono in modo graduale e progressivo.

Gli esami di laboratorio disponibili per la diagnosi di carenza marziale sono molteplici e possono essere didatticamente catalogati come esami biochimici (sideremia, transferrina, ferritina, zinco-protoporfirina, recettore solubile della transferrina) ed esami ematologici (morfologia del midollo osseo e del sangue periferico, indici eritrocitari, indici reticolocitari).

L’aspirato midollare e/o la biopsia ossea, con l’esecuzione della colorazione di Perls o al blu di Prussia, permette di valutare l’accumulo di ferro nell’interstizio e nei macrofagi midollari e la presenza di sideroblasti: l’assenza di ferro colorabile permette la diagnosi di deficit marziale senza altri test di laboratorio. E’ ancora considerato il gold standard per la diagnosi di carenza di ferro, altamente specifico e ampiamente sperimentato, nonostante le sue limitazioni: metodo costoso ed invasivo, con possibili anche gravi conseguenze, soggettivo, richiede una lettura attenta e diligente, e una tecnica di colorazione meticolosa, con possibili errori di campionamento e di interpretazione (artefatti). E’ ancora utile se eseguito in condizioni standardizzate da operatori esperti, ma non proponibile routinariamente nella pratica clinica per il solo scopo di diagnosticare una sideropenia. I test laboratoristici tradizionali comprendono la sideremia, percentuale di saturazione della transferrina (TSAT) e la ferritinemia.

La concentrazione sierica di ferro non è specifica come singola misura dello stato del ferro; infatti, la sideremia è utilizzata in combinazione con altri parametri di misura dello stato marziale. Essa si riduce, in genere, dopo che i depositi di ferro sono completamente esauriti e prima che diminuisca l’emoglobina, ed è quindi sensibile allo stadio di lieve deficit di ferro. Tuttavia il suo utilizzo è limitato da fattori analitici (metodo utilizzato e presenza di emolisi), dalle ampie variazioni giornaliere (fino al 100% nelle 24 ore in soggetti sani e con valori più alti verso sera) e dalla mancanza di specificità: bassi valori si possono trovare in varie situazioni quali donazioni o perdite di sangue, gravidanza, infezioni, flogosi acute e croniche, shock, febbre, neoplasie, infarto miocardico (19). La sideremia inoltre può transitoriamente aumentare dopo l’ingestione di carne o la terapia orale con ferro (20). La TSAT rappresenta la percentuale dei siti di transferrina legati dal ferro rispetto a quelli totali se le molecole della transferrina fossero tutte saturate; viene calcolata come rapporto tra la sideremia e la capacità totale legante il ferro (TIBC-total iron-binding capacity), espresso in percentuale.

Se non si hanno i valori della TIBC ma quelli della transferrina, è possibile fare una stima teorica di quanto ferro sarebbe legato se la transferrina fosse completamente satura, considerando che 1 mg di transferrina trasporta al massimo 1,41 μg di ferro. Pertanto la TSAT può essere calcolata come [sideremia /(transferrina x 1.41)] x 100 oppure sideremia / transferrina x 70.9.

Poiché la TSAT riflette il ferro trasportato piuttosto che quello di deposito, essa è un indicatore dell’apporto del ferro alle sedi di utilizzo (eritrone). Un valore di TSAT <20% è un indice sufficientemente accurato di eritropoiesi sideropenica (sensibilità 61% e specificità 79%) ed è un utile marcatore per individuare un deficit funzionale di ferro, in cui una bassa TSAT si associa ad una ferritina normale (21).

La TSAT non è sufficientemente specifica in tutti i casi in cui ci sia una riduzione “primitiva” della transferrina, come può avvenire in corso di malattie infiammatorie, epatopatia avanzata e malnutrizione. In tali casi, infatti, la TSAT risulterebbe sovrastimata.

La concentrazione sierica della ferritina è una misura ampiamente usata nella pratica clinica e per gli screening come marker affidabile e specifico dei depositi di ferro in soggetti sani e in condizioni stazionarie (22). Quando i depositi di ferro si esauriscono, i livelli sierici di ferritina diminuiscono, rendendo tale parametro il più precoce marker di deficit di ferro e la più utile singola misura dello stato del ferro (22). Tuttavia la ferritinemia mostra un’ampia variabilità analitica ed intra-individuale responsabili, anche per tale test, di una scarsa specificità diagnostica (23). In uno studio randomizzato su 157 pazienti emodializzati, il coefficiente di variazione della ferritina (indice della variabilità di laboratorio di tale parametro) era compreso tra il 25% e il 45% (24).

La concentrazione sierica di ferritina, inoltre, aumenta indipendentemente dai depositi di ferro, perdendo quindi ogni utilità diagnostica per la carenza marziale, in corso di infiammazioni, infezioni, neoplasie, epatopatie, in cui si comporta come proteina della fase acuta e come marker tumorale (25). In base ai valori di TSAT e ferritinemia è possibile distinguere varie condizioni patologiche dell’equilibrio del ferro: deficit assoluto (deplezione di ferro in tutti i distretti corporei) caratterizzato da TSAT <20% e ferritinemia <100 ng/ml e deficit funzionale (carenza di ferro nelle sedi di utilizzo e quantità normali o elevate nei depositi) con TSAT <20% e ferritina sierica>100 ng/ml. E’ possibile identificare anche condizioni cliniche di sovraccarico marziale con relativo blocco in presenza di valori di ferritinemia >500-800 ng/ml (26). Nuovi parametri eritrocitari forniti dagli analizzatori ematologici quali la percentuale di emazie ipocromiche (%HYPO), con concentrazione di emoglobina<28 g/dL e percentuale di emazie microcitiche (%MICRO), emazie con volume <60 fL, si sono dimostrati utili nella diagnostica differenziale tra anemia sideropenica e trait-talassemico, con prevalenza di emazie ipocromiche nel deficit di ferro e di emazie microcitiche nella talassemia (27).

La percentuale delle emazie ipocromiche (valori normali<2.5%) si è dimostrata un utile parametro nella valutazione del deficit funzionale di ferro: il contenuto di emoglobina degli eritrociti riflettendo l’equilibrio tra ferro ed eritropoiesi, permette di valutare la disponibilità di ferro direttamente nella sede di sintesi dell’emoglobina (28). Considerando la vita media eritrocitaria di 120 giorni circa, %HYPO fornisce informazioni su un periodo di alcuni mesi e quindi è un indicatore tardivo di deficit funzionale di ferro. Valori aumentati di %HYPO indicano lo sviluppo di un’eritropoiesi ferro carente nei dializzati (29) e nei soggetti sani trattati con EPO (30). Numerosi altri lavori hanno dimostrato l’utilità di tale parametro per il monitoraggio dello stato del ferro e la necessità di supplementazione di ferro nei pazienti dializzati in terapia con EPO (31, 32).

Le linee guida più recenti (NICE) hanno proposto come cut-off diagnostico di deficit marziale un valore di %HYPO >6% con una elevata sensibilità e specificità di 82% e 95% (21). La %HYPO si è anche dimostrata utile nel predire la risposta alla terapia con EPO e con ferro endovena nei pazienti dializzati (33). In altri studi, invece, il valore di %HYPO è stato ridimensionato sia per problematiche tecniche relative alla temperatura e all’immagazzinamento dei campioni (il dosaggio va effettuato entro 6 ore dal prelievo), sia perché un incremento apprezzabile delle emazie ipocromiche richiede un prolungato periodo di eritropoiesi ferro-carente e può verificarsi anche quando c’è una semplice reticolocitosi (34).

Altre informazioni clinicamente utili, fornite dagli analizzatori ematologici di ultima generazione, sono indicate da nuovi parametri reticolocitari per la determinazione del contenuto di emoglobina dei reticolociti, dal nome diverso a seconda degli analizzatori ematologici utilizzati ma tra loro equivalenti: contenuto emoglobinico reticolocitario (CHr); equivalente emoglobinico reticolocitario (RET-He); espressione dell’emoglobina reticolocitaria (RHE). Il contenuto di emoglobina dei reticolociti (parametro equivalente: RHE) riflette direttamente la sintesi di emoglobina nei precursori midollari e fornisce una misura della disponibilità di ferro: è di conseguenza un parametro importante, in quanto la sua diminuzione (valori <29 pg) indica un’eritropoiesi ferro-carente anche in situazioni in cui i tradizionali marcatori biochimici (ferritina e TSAT) risultano inadeguati, come negli stati infiammatori o nell’anemia da malattie croniche (21).

Questo parametro è anche utile per controllare precocemente la risposta alla terapia con ferro per via endovenosa perché, a differenza del contenuto emoglobinico dei globuli rossi (MCH), il quale evidenzia l’eritropoiesi midollare a lungo termine (2-4 settimane), il CHr consente di valutare la qualità dell’eritropoiesi midollare in tempo reale, aumentando già dopo 1-3 giorni dall’inizio della terapia.

CHr è il più precoce marker di deficit funzionale di ferro, considerato insieme a %HYPO il gold standard di eritropoiesi ferro carente. La sua utilità è stata dimostrata nelle anemie da malattie croniche (28) e nella valutazione dello stato del ferro nei dializzati e della conseguente terapia marziale (34). Infatti, la gestione della terapia marziale endovenosa nello stesso tipo di pazienti con CHr piuttosto che con ferritina e TSAT si associava ad un dimezzamento della dose di ferro somministrata (22.9±20.5 versus 47.7±35.5 mg/settimana di ferro destrano, P=0.02) [24]. CHr si è dimostrato utile anche nella diagnosi di deficit di ferro in presenza di infiammazione e di anemia da malattia cronica, dove falliscono i principali parametri biochimici in quanto influenzati dalla risposta di fase acuta (24).

In soggetti sani trattati con EPO si assiste ad una precoce e significativa diminuzione di CHr, espressione del deficit funzionale (35); la terapia con ferro endovena abolisce la produzione di reticolociti ipocromici ed aumenta la quantità di Hb contenuta nei reticolociti (36).

L’utilizzo di CHr nella valutazione dello stato marziale è limitato in corso di talassemie che presentano un valore molto basso di CHr, di chemioterapia (per il frequente sviluppo di transitoria eritropoiesi megaloblastica da deficit di folati con aumentato volume reticolocitario medio MCVr) e CHr; inoltre, l’implementazione nella pratica clinica del CHr è limitata dal fatto che tale parametro è valutabile solo da una specifica strumentazione ematologica di un singolo produttore (ADVIA 120 and 2120 della Siemens) (37).

Di recente è stata condotta un’interessante analisi costo-efficacia dei differenti test laboratoristici per la diagnosi della carenza marziale e le relative strategie di trattamento adottate (21). In tale modello, l’utilizzo di test diagnostici meno specifici si associava ad un numero maggiore di pazienti sottoposti a terapia con ferro incorrendo in costi aggiuntivi ed a maggior rischio di complicanze, mentre il ricorso a test di laboratorio meno sensibili era correlato ad un sotto-trattamento dei pazienti anemici riducendone la qualità di vita (21).

 

Trattamento del deficit marziale in CKD non dialitica

In generale, le opzioni terapeutiche per il trattamento dell’anemia in CKD comprendono preparati a base di ferro, ESA ed emotrasfusioni. Tuttavia le linee guida KDIGO raccomandano la correzione della causa reversibile dello stato anemico, come il deficit marziale, prima di intraprendere una terapia con ESA e di evitare, quando possibile, le emotrasfusioni (26). L’utilizzo di formulazioni a base di ferro per os è considerato di prima linea per il trattamento del deficit di ferro in quanto più economiche rispetto a quelle per uso endovenoso e con un più rapido e pratico accesso da parte del paziente. Le indicazioni classiche prevedono 100-200 mg di ferro elementare al giorno, lontano dai pasti. È preferibile assumere il ferro per os in dosi refratte in quanto tale modalità permette un assorbimento intestinale percentualmente più elevato in quanto si evita la saturazione sia del citocromo B duodenale (DCYTB) necessario alla conversione del ferro da trivalente a bi-valente, sia del trasportatore specifico a livello dell’enterocita (DMT1) che consente l’assorbimento del ferro bi-valente (38). La forma di ferro più biodisponibile è rappresentata dai sali ferrosi, in particolare ferro solfato, in quanto più facilmente assorbiti. Modalità di assunzione, tipo di formulazione e durata del trattamento possono influenzare in maniera importante il successo della terapia orale (Tabella 1). Un algoritmo di trattamento della carenza marziale nel paziente con CKD non in dialisi è riportato nella Figura 1. Una scarsa compliance del paziente per intolleranza gastrointestinale, la mancata correzione del deficit, uno stato infiammatorio generalizzato che lascia prevedere una mancata risposta a causa di elevati livelli di epcidina circolante, o la necessità di una più rapida correzione dell’anemia rappresentano i fattori che indicano la somministrazione per via endovenosa. Questa deve necessariamente avvenire in ambito ospedaliero, secondo le norme stabilite dall’Agenzia Europea del Farmaco (39), per minimizzare i rischi di reazioni di ipersensibilità ad esso associati (40).

Esistono in commercio diversi preparati a base di ferro per somministrazione endovenosa con caratteristiche chimiche differenti responsabili, a loro volta, della maggiore o minore entità degli eventi avversi (Tabella 2). I complessi farmacologici di ferro contengono carboidrati come il saccarosio, il destrano, il carbossimaltosio e il gluconato e sono molto simili strutturalmente alla ferritina, costituita da un core di idrossido di ferro stabilizzato da un rivestimento proteico. Tali complessi non rilasciano ferro ionico ad un pH neutro ma vengono metabolizzati, rendendo disponibile il ferro per i sistemi di trasporto (transferrina) o, a seconda delle necessità fisiologiche, depositato sotto forma di ferritina. I complessi di ferro possono essere suddivisi in categorie in base alla variabilità cinetica (labili o robusti) e le caratteristiche termodinamiche (deboli o forti) (Tabella 2). I complessi di tipo I, come il ferro carbossimaltosio (FCM), sono robusti e forti pertanto rilasciano solo piccole dosi di ferro ionico nel torrente circolatorio (41). Il complesso così formato è studiato per favorire l’uptake del ferro dal sistema reticolo-endoteliale in modo controllato e graduale evitando il rilascio di ferro libero, responsabile di stress ossidativo ed effetti tossici (42). Grazie alla loro stabilità, i complessi di tipo I possono essere somministrati anche ad alte dosi. I complessi di tipo II, come il ferro saccarato, sono semi-robusti, moderatamente forti e meno stabili rispetto al FCM con conseguente maggiore rilascio di ferro libero in circolo. Meno stabili sono i complessi di tipo III e IV, come il ferro gluconato, capaci di rilasciare grandi dosi di ferro libero (41). Il ferro libero è un potente agente ossidante in grado di aumentare la produzione di reactive oxygen species (ROS) a loro volta responsabili di perossidazione lipidica che contribuisce alla disfunzione endoteliale e all’aterogenesi (434445). La velocità di rilascio di ferro libero, valutabile mediante la velocità di saturazione della transferrina, varia a seconda delle formulazioni utilizzate, per cui lo stress ossidativo indotto dalla somministrazione endovenosa di ferro è più elevata per il gluconato, intermedia per il saccarato e molto ridotta per il carbossimaltosio (Tabella 2).

In numerosi studi è stata dimostrata l’efficacia e la sicurezza dell’uso del FCM nel determinare un miglioramento dell’anemia in diversi setting clinici (cardiologico, ginecologico, gastroenterologico, nefrologico, oncologico) (42, 46). Lo studio più ampio condotto in pazienti con CKD non dialitica è lo studio FIND-CKD che mette a confronto la terapia orale (ferro solfato) con quella marziale endovena con FCM finalizzata al raggiungimento di una ferritina di 100–200 μg/L (bassa ferritina) o di 400–600 μg/L (alta ferritina), per il trattamento in pazienti con anemia sideropenica non trattati con ESA (47). Lo studio ha mostrato che FCM ha ridotto significativamente o ritardato sia il bisogno di ricorrere a terapie alternative per l’anemia ma anche la possibilità che i livelli di Hb scendessero più volte consecutivamente <10 g/dl rispetto al ferro solfato (47). Tali effetti favorevoli erano osservati in presenza di un’incidenza di effetti collaterali totali simile a quelli osservati con ferro solfato (47). Più recentemente, uno studio randomizzato e controllato (REVOKE trial) condotto in pazienti con CKD stadio 3-4 ha evidenziato che il trattamento endovenoso con ferro gluconato determinava una correzione dell’anemia sideropenica simile a quella ottenuta con ferro solfato per os ed una simile riduzione della funzione renale nel corso dei 24 mesi dello studio (riduzione del GFR -0.11 ml/min/1.73m2 per anno; 95% CI da -2.7 a +2.5, P = 0.94). Tuttavia, lo studio è stato interrotto prematuramente a causa di un aumento significativo di eventi avversi seri di natura cardiovascolare e infettiva (48). I risultati sugli effetti renali del ferro endovena non sono stati confermati da una recente analisi secondaria del FIND-CKD che ha mostrato simile riduzione a 12 mesi del GFR nei pazienti trattati con FCM (+0.7±0.9 mL/min/1.73 m2 nei pazienti randomizzati ad alta ferritina, P=0.15 versus ferro orale, e -0.9±0.9 mL/min/1.73 m2 nel gruppo randomizzato a bassa ferritina, P=0.99 versus ferro orale) e con ferro solfato per os (-0.9±0.7 mL/min/1.73 m2) (49). Risultati favorevoli della terapia con FCM sono stati riportati anche in soggetti affetti da anemia sideropenica ed insufficienza cardiaca. Lo studio randomizzato verso placebo FAIR-HF ha dimostrato in 459 pazienti con insufficienza cardiaca congestizia (NYHA II o III), che l’utilizzo di FCM per 24 settimane, ripristinando i depositi marziali, determina un miglioramento della sintomatologia e della classe funzionale NYHA (endpoints primari) nonché delle performance cognitive e fisiche (6-min walk test) e della qualità di vita (endpoints secondari), in assenza di significativi effetti collaterali (50). Una recente analisi secondaria del trial FAIR-HF ha anche evidenziato un miglioramento nella funzionalità renale (3.91±1.65mL/min/1.73m2 vs placebo alla fine dello studio, P=0.019) associata al trattamento con FCM in pazienti con CHF e disfunzione renale (51).

Un ulteriore aspetto favorevole della terapia con FCM è quello della riduzione dei costi. Uno studio di farmaco-economia ha confrontato il rapporto costo-efficacia di FCM con ferro saccarato e ferro destrano (non disponibile in Italia) includendo costi diretti (farmaco, personale, dispositivi) e indiretti (perdita di produttività e spese di viaggio) per una coorte di 100 pazienti seguiti per un anno (52). Lo studio ha evidenziato un risparmio variabile dal 53% (pazienti ospedalizzati) al 68% (pazienti ambulatoriali) con FCM rispetto al ferro saccarato (52). Tale studio, tuttavia, non considerava i possibili vantaggi nell’uso di FCM in termini di riduzione dell’utilizzo di altra terapia per l’anemia (ESA e trasfusioni) (47) che sono stati suggeriti da due studi recenti (53, 54). Toblli e Di Gennaro hanno recentemente dimostrato che in 30 soggetti affetti da CKD non dialitica, trattati con ESA e non responsivi al trattamento marziale orale, lo shift alla via endovenosa con FCM si associa ad un miglioramento dei parametri ematologici e marziali e ad un significativo risparmio grazia ad una riduzione delle dosi di ESA richieste (53). In particolare dopo la somministrazione di 1 grammo di FCM i valori di emoglobina (Hb) mostravano un incremento stabile per un periodo di circa 24 settimane mentre la dose di ESA prescritta diminuiva già dopo solo un mese dall’inizio della terapia con FCM; la dose cumulativa di ESA si riducevano di oltre l’80% (da 41.839±3.668 UI/paziente durante la terapia orale a 6.879±4.271UI/paziente durante la terapia con FCM) (53). Tale effetto corrispondeva ad un risparmio mensile di circa 970 US$ per paziente all’anno (53). Un ulteriore recente studio, condotto dal nostro gruppo su un numero limitato di pazienti (n=8) con anemia sideropenica e CKD non dialitica intolleranti o non-responsivi alla terapia orale, ha valutato, a 24 settimane, l’efficacia ed i costi del trattamento con FCM (54). Lo studio ha evidenziato un’efficace correzione della carenza marziale mediante FCM in assenza di effetti collaterali. L’andamento temporale della correzione del deficit marziale, con l’aumento della ferritina che precede quella della TSAT, è compatibile con il meccanismo d’azione del FCM; il ferro contenuto nel composto di FCM viene infatti prontamente trasferito ai depositi e successivamente messo a disposizione per l’eritropoiesi (42). I livelli di ferritina e TSAT sono corretti in un range di normalità già dopo due settimane dalla prima somministrazione di 500 mg di FCM e mantenuti stabili per i successivi mesi. La correzione dell’assetto marziale si associava a valori di Hb stabili, ottenuti in presenza di una riduzione significativa delle dosi di ESA. Questo dato rappresenta un punto saliente dello studio in quanto i costi più elevati di FCM rispetto al ferro gluconato sono ampiamente compensati dalla riduzione del consumo di ESA. E’ stato stimato infatti un risparmio economico di circa 789euro/paziente/anno (54). Un aspetto non considerato dai due lavori precedentemente descritti è rappresentato dalla riduzione dei costi indiretti. Infatti, per la sua maggiore stabilità, il FCM consente la somministrazione di dosi maggiori in periodi più brevi (un’infusione di 1000 mg di FCM in 15 minuti) con conseguente riduzione del numero di infusioni richieste, minor tempo sottratto al paziente per il trattamento (minore perdita di giornale lavorative), ridotto numero di volte in cui il paziente deve recarsi in ambiente ospedaliero (minore spese di trasporto), numero minore di punture effettuate (utile per preservare gli accessi vascolari), lavoro ridotto per l’equipe infermieristico. Pertanto, accanto all’ottimo profilo di efficacia e sicurezza del FCM nel migliorare l’anemia ed il deficit marziale nei pazienti con CKD non dialitica è, dunque, possibile affiancare una minore spesa sanitaria globale per la terapia dell’anemia renale (52 5354).

 

Conclusioni

Nei pazienti con CKD non in dialisi, il deficit marziale rappresenta una condizione: frequente (circa il 60 % dei pazienti mostrano valori di TSAT <20% e/o ferritinemia <100 ng/mL); sotto-trattata per il diffuso fenomeno di inerzia terapeutica in più del 70% dei pazienti; con uno scarso approccio all’utilizzo di terapia endovenosa (<3% riceve ferro ev). In tale setting, pertanto, l’uso di nuovi preparati a basa di ferro più stabili e sicuri, come il FCM, dovrebbe essere implementato per consentire una più completa e rapida correzione del deficit associato a costi sanitari globali inferiori rispetto alle precedenti formulazioni finora utilizzate.

 

 

 

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