Supplemento S83 - In depth review

Iperuricemia della malattia renale cronica: trattare o non trattare?

Abstract

Numerosi studi hanno dimostrato come l’iperuricemia (HU) costituisca un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della malattia renale cronica (CKD) e di eventi patologici cardiovascolari. Pur tuttavia, benché alcune evidenze sembrino attribuire all’acido urico (UA) un ruolo non solo predittivo, ma anche causale nei confronti degli eventi sopra citati, una robusta e definitiva dimostrazione di ciò continua tuttora a mancare.
Inoltre, a dispetto di quello che parrebbe un logico razionale a sostegno dell’impiego della cosiddetta “urate-lowering therapy” (ULT) a scopo nefroprotettivo nel paziente iperuricemico con CKD, studi e meta-analisi al riguardo, peraltro talora gravati da limiti che potrebbero averne inficiato i risultati, hanno sinora fornito risultati tra loro assai divergenti lasciando incertezza circa la possibilità che una riduzione farmaco- indotta dell’uricemia possa davvero consentire di rallentare la progressione della CKD e prevenirne le complicanze cardiovascolari.
Il presente articolo riassume le attuali conoscenze sul metabolismo dell’UA e sui farmaci che con esso interferiscono, illustra le teorie sui possibili plurimi meccanismi patogenetici che sarebbero alla base del danno renale HU-correlato e passa in rassegna risultati e limiti dei più recenti studi che hanno sostenuto o negato il ruolo nefroprotettivo della ULT nella CKD alimentando una controversia scientifica che tuttora si protrae.

Parole chiave: Acido urico, iperuricemia asintomatica, gotta, malattia renale cronica, urate-lowering therapy.

Introduzione

I rapporti tra iperuricemia (HU) e malattia renale cronica (CKD) sono complessi e di difficoltosa interpretazione per la presenza di fattori confondenti legati alla duplice potenzialità della prima di poter essere sia conseguenza, sia causa della seconda. Da un lato infatti la riduzione del filtrato glomerulare (GFR) che si verifica nella CKD comporta una ridotta escrezione urinaria di acido urico (UA) che può innalzarne i livelli serici, il concomitante impiego di diuretici aggrava tale difetto e le principali cause di CKD, cioè diabete ed ipertensione, sono spesso già di per sé condizioni iperuricemiche(1-3). D’altra parte, ormai assodato che l’HU costituisca un fattore predittivo indipendente per lo sviluppo della CKD e di eventi cardiovascolari patologici, il suo possibile ruolo causale in tali situazioni resta incerto: in particolare, per quanto attiene quello relativo al danno renale, esso risulta meglio provato nella forma da deposito di cristalli di urato, ma meno definito, anche se con crescenti indizi a suo suffragio, nelle conseguenze ascritte all’azione dell’UA solubile. Analogamente rimane ancora controverso, a causa dei contrastanti risultati sinora forniti da studi e meta-analisi sull’argomento, il possibile ruolo nefroprotettivo dalla cosiddetta urate-lowering therapy (ULT)(4-5).
Nella trattazione che segue esamineremo gli studi più recenti e le motivazioni che sono alla base di differenti punti di vista rispetto alle sopra descritte diatribe.

 

Fisiologia

L’acido urico o C5H4N4O3 o 2,6,8-triossi-1H-purina, composto organico eterociclico con massa molecolare pari a 168,11 unità di massa atomica, è un acido debole che nel comparto extracellulare, al pH fisiologico, è presente al 98-99% nella forma ionizzata di urato monosodico (MSU).
La sintesi dell’UA, prodotto finale del catabolismo delle purine esogene (da cui derivano quotidianamente circa 100-200 mg di UA) ed endogene (da cui derivano ulteriori 600-700 mg/die di UA) avviene nel fegato ad opera dell’enzima xantina ossidoreduttasi (XOR), mentre l’eliminazione dell’UA è per 1/3 gastrointestinale, poi seguita da uricolisi batterica, e per 2/3 renale. In quest’ultima sede il 95% dell’UA viene filtrato dal glomerulo (la restante quota non filtrata è quella legata alle proteine), poi riassorbito al 99% nel tratto S1 del tubulo prossimale e successivamente secreto nel tratto S2, in entrambi i casi ad opera di trasportatori di membrana specifici per ciascuna delle due direzioni e situati in parte sul versante apicale (URAT1 o SLC22A12, OAT4 o SLC22A11, OAT10 o SLC22A13, GLUT9 o SLC2A9 deputati al riassorbimento e ABCG2, ABCC2 o MRP2, ABCC4 o MRP4, NPT1 o SLC17A1, NPT4 o SLC17A3 deputati alla secrezione) ed in parte sul versante baso-laterale (GLUT9 o SLC2A9 deputato al riassorbimento e OAT1 o SLC22A6, OAT2 o SLC22A7, OAT3 o SLC22A8 deputati alla secrezione) della cellula epiteliale del tubulo; alla fine del processo la quota di UA eliminata con le urine rappresenta circa il 10% di quella filtrata(6-10).

 

Definizione, cause e conseguenze della HU

Negli esseri umani i livelli plasmatici di UA sono più elevati rispetto a quelli degli animali dotati di attività uricasica che permette loro di trasformarlo in allantoina (rispettivamente 3-7 mg/dl contro 1-2 mg/dl), e sono inferiori nella donna rispetto all’uomo per effetto dell’attività uricosurica propria degli estrogeni.
La mutazione responsabile della perdita dell’uricasi (o urato ossidasi) da parte dell’uomo e dei primati superiori sarebbe avvenuta nel Miocene, tra 25 e 12 milioni di anni fa, comportando almeno quattro rilevanti vantaggi in termini evoluzionistici: il rimpiazzo dell’attività antiossidante conseguente alla perdita della capacità di sintesi della vitamina C, importante per la longevità e la neuro-protezione; la stimolazione mentale dovuta ad analogie strutturali con la caffeina, importante per lo sviluppo dell’intelligenza; la stimolazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) per il mantenimento di un adeguato regime pressorio in concomitanza con l’assunzione della stazione eretta nonostante un’alimentazione all’epoca povera di sodio; l’incremento delle capacità di accumulare grasso in risposta alla ridotta disponibilità di frutti causata dal raffreddamento della terra(7,11).
Nella seconda metà del secolo scorso, nei paesi economicamente avanzati, i livelli medi di uricemia della popolazione sono progressivamente saliti con il progredire del benessere(12) e l’incremento dell’assunzione di cibi ricchi in purine (soprattutto proteine animali, crostacei, birra, vino, e bevande alcooliche) e fruttosio (bevande zuccherate).
Benché da lungo tempo siano considerati valori di uricemia patologici quelli superiori a 7.0 mg/dl nell’uomo e a 6.0 mg/dl nella donna, alcuni invitano a considerare l’uricemia normale per entrambi soltanto fino a 6.0-6.4 mg/dl poiché questi sono i limiti di solubilità del MSU rispettivamente a 35° e 37°(13-14); al momento questo orientamento non sembra tuttavia trovare ancora il completo accordo di tutti gli esperti.
Cause acquisite o congenite di aumentata introduzione (dieta iperpurinica) o di aumentata produzione di UA (malatttie mielo-linfoproliferative, neoplasie, chemioterapia, psoriasi, sindrome di Lesch-Nyhan, iperattività della fosforibosilpirofosfato sintetasi), ma soprattutto (90% dei casi) di ridotta eliminazione dell’UA (ipovolemia, CKD, farmaci, saturnismo, tubulopatia autosomica dominante uromodulina-associata) inducono HU, condizione a rischio per il successivo sviluppo di patologie. Come già anticipato in premessa, queste conseguono alla formazione di cristalli di MSU e alla loro successiva precipitazione intra- tissutale (gotta articolare, nefropatia gottosa cronica, AKI da massiva precipitazione intra- tubulare acuta) o nelle vie urinarie (calcolosi), ma potenzialmente anche ad effetti emodinamici e cellulari attribuiti alla forma solubile di UA: questi ultimi comprendono attivazione del RAAS (ipertensione arteriosa), ma anche infiammazione e stress ossidativo con risvolti sia renali (disfunzione endoteliale, glomerulosclerosi, fibrosi tubulo-interstiziale) che sistemici (danno cardiovascolare, aumentata resistenza all’insulina, sindrome metabolica)(15). Va infatti considerato il ruolo ambiguo dell’UA che ha proprietà antiossidanti quando circolante nell’ambiente idrofilo extracellulare, ma ha effetti pro- ossidanti che sarebbero alla base del danno cardio-nefro-metabolico nell’ambiente idrofobico intracellulare(16).

 

Epidemiologia della HU e della gotta

Nel paziente adulto con GFR normale la prevalenza di iperuricemia asintomatica (aHU) è circa del 20%, mentre quella della gotta oscilla tra lo 0.7 e il 3.9%, con trend complessivo in crescita, ampia variabilità nelle diverse aree geografiche ed etnie, e valori anche superiori nella parte più anziana della popolazione. Nel paziente affetto da CKD la prevalenza di aHU sale fino all’80% e quella della gotta fino al 32% e ciò avviene in modo direttamente proporzionale alla severità della malattia renale. Inoltre, in modo quasi speculare, anche nei pazienti iperuricemici e gottosi si osserva un incremento della prevalenza di CKD dal 6-12% fino al 50% ed al 70% rispettivamente(4,8,17).

 

Esiste davvero il danno renale cronico da UA?

Come già detto, la patologia da cristalli comprende, oltre al danno renale acuto (AKI) da precipitazione intra-tubulare massiva di cristalli di MSU, e alla calcolosi da precipitazione di MSU nelle vie urinarie, anche la nefropatia da deposizione intra-parenchimale cronica di MSU. Quest’ultima è istologicamente caratterizzata da deposizione focale di cristalli di MSU nei tubuli, flogosi interstiziale evolvente verso la fibrosi dell’interstizio e l’atrofia tubulare, glomerulosclerosi ed arteriolosclerosi di grado variabile, mentre si manifesta clinicamente dapprima con un deficit della capacità di concentrazione delle urine e successivamente con una graduale riduzione del GFR(6).
Benché assai ben descritta già in un lontano passato, la reale esistenza di questa forma cronica di nefropatia è stata tuttavia rimessa in discussione verso la fine del XX secolo prima di essere nuovamente riaffermata. Come riporta un antico testo scientifico(18), infatti, già verso la metà del XIX secolo Robert Bentley Todd, irlandese divenuto professore al King’s College di Londra, descriveva il quadro del rene gottoso come caratterizzato dalla presenza di “linee bianche di materiale simile al gesso nella porzione piramidale del rene che prendono la direzione dei tubuli retti e che risultano cristallizzate in forma di prismi quando osservate al microscopio e costituite da urato di soda quando sottoposte ai test chimici”. L’identità di tale riscontro, poi confermato in ampie casistiche, autoptiche e non, della metà del XX secolo(19-20), venne successivamente confutata negli anni ottanta con la pubblicazione di alcuni articoli(21-23) che formulavano le seguenti obiezioni: il riscontro bioptico di una focale deposizione di cristalli di MSU, peraltro osservabile anche in soggetti senza malattia renale, non può spiegare la diffusa presenza di cicatrici renali; il concomitante danno vascolare renale sembra dipendere da altre più rilevanti cause di nefropatia, quali ad esempio la coesistente ipertensione arteriosa; il danno interstiziale può anche conseguire al largo impiego di antiinfiammatori non steroidei (FANS) nel paziente gottoso. Così, per un certo periodo, l’UA non venne più considerato come possibile causa di CKD e l’HU venne ritenuta piuttosto una mera conseguenza della ridotta escrezione di UA dovuta alla riduzione del GFR(2).
Nuovi elementi a suffragio della possibilità di un nesso causale tra UA e CKD giunsero dall’evidenza che ratti con CKD, se resi iperuricemici, avevano una progressione più rapida della malattia anche in assenza di deposizione intrarenale di cristalli (24): ciò riaprì la ricerca e la discussione sul possibile ruolo nefrolesivo dell’UA non solo nella sua forma cristallina, ma anche nella sua forma solubile.
Dopo un appello di alcuni ad adoperare maggior cautela prima di estrapolare conclusioni valide per l’uomo da studi condotti su roditori dotati di attività uricasica, cioè abituati a uricemie ben inferiori a quelle umane e resi severamente iperuricemici in via sperimentale(25), successive ricerche evidenziarono reali effetti pro-infiammatori e di immuno-attivazione dell’UA solubile nei confronti rispettivamente delle cellule dell’epitelio tubulare e delle cellule mesangiali umane(26-27).
Nuovi studi effettuati nel corrente secolo e qui di seguito descritti, sono poi giunti a identificare la HU come fattore indipendente di rischio cardiovascolare e renale nella CKD. Nel 2012 Kanbay e coll. hanno pubblicato i risultati di uno studio condotto su 303 pazienti con CKD e follow-up medio di 39 mesi che mostravano una significativa associazione tra HU ed eventi cardiovascolari fatali e non in maniera indipendente da altri fattori di rischio(28).
Nel 2014 Zhu e coll. hanno dimostrato, in una meta-analisi di 15 studi di coorte che avevano complessivamente arruolato oltre 99.000 individui, un’associazione positiva tra livelli di UA e sviluppo di CKD, con un rischio relativo di 1.22 per ogni mg/dl di incremento dell’uricemia e in maniera indipendente da altri fattori di rischio(29).

Nel 2018 Srivastava e coll. hanno confermato il suddetto riscontro evidenziando una curva conformata a “J” tra livelli di uricemia e rischio di morte per ogni causa (30).
Più recentemente i risultati del progetto URRAH, uno studio osservazionale multicentrico retrospettivo italiano su una coorte di 26.971 soggetti, hanno evidenziato un’associazione indipendente tra livelli di UA e mortalità cardiovascolare e globale, con soglie di uricemia predittive di mortalità anche inferiori a quello che viene attualmente ritenuto il cut off di normalità dell’uricemia(31), oltre che una prevalenza di HU crescente con il decrescere del GFR e maggiore nei pazienti con macroalbuminuria rispetto a quelli con micro e normoalbuminuria(17).
Anche una meta-analisi condotta da Autori brasiliani su 24 studi osservazionali riguardanti oltre 400.000 pazienti, pubblicata nel 2022(32), ha documentato una significativa correlazione tra uricemie inferiori e minor sviluppo e progressione di CKD.
Uno studio prospettico multicentrico osservazionale del gruppo di studio francese CKD- REIN(33), condotto su 2.781 pazienti con CKD in stadio 3-5 seguiti mediamente per oltre 3 anni, dopo aver pianificato l’esecuzione di una determinazione basale e di almeno 5 successive determinazioni dell’UA per ciascun paziente, ha confrontato in modo longitudinale il rapporto tra uricemia e rischio di insufficienza renale e di morte: ne è emerso che il rischio di insufficienza renale aumenta con il crescere dell’uricemia, con un plateau tra i 6 ed i 10 mg/dl ed un brusco incremento al di sopra degli 11 mg/dl, mentre il rischio di morte palesa una curva conformata ad “U” in cui, al di sotto dei 3 mg/dl (forse per il venir meno dell’azione anti-ossidante dell’UA) e al di sopra degli 11 mg/dl, esso è doppio rispetto a quello osservato con valori di uricemia attorno ai 5 mg/dl. Ne è altresì emerso che analoghe curve, costruite solo in funzione delle uricemie basali, non sono in grado di fornire i medesimi risultati: ciò potrebbe spiegare perché alcuni precedenti lavori non abbiano trovato correlazione tra livelli di UA e insufficienza renale.
Schwartz e coll.(34), in uno studio longitudinale su 693 bambini o adolescenti con CKD ad eziologia glomerulare e non glomerulare, hanno trovato un’importante correlazione tra livelli di UA e rischio di progressione della nefropatia: la perdita annuale di GFR in tre fasce pre-definite (<5.5 mg/dl, 5.5-7.5 mg/dl e >7.5 mg/dl) di uricemia basale era infatti rispettivamente -1,4%, -7,7% e -14,7% nelle glomerulopatie e -1,4%, -4,1% e -8,6% nelle nefropatie ad eziologia non glomerulare. Esaminando poi la perdita di GFR osservata per ogni successivo mg/dl di incremento dell’UA nei pazienti che al controllo basale appartenevano alle prime due fasce si evinceva una significativa perdita del GFR, di -5,7% e -4,3% nelle glomerulopatie e di -5,1% e -3,3% nelle nefropatie non glomerulari.
Assodato il ruolo dell’UA come fattore di rischio per lo sviluppo della nefropatia, sono in molti a ritenere plausibile un suo ruolo attivo e non solo predittivo in tal senso, ipotizzando differenti e coesistenti meccanismi lesivi per la sua forma cristallina e per quella solubile. Da un lato la precipitazione a livello tubulare di cristalli di MSU in grado di indurre flogosi interstiziale. Dall’altro una duplice possibilità, immunologica la prima, non immunologica la seconda, che l’UA solubile, identificato come sostanza pericolosa dai recettori dell’immunità innata, inneschi una risposta infiammatoria evolvente verso la fibrosi, ma anche che, attraverso l’attivazione del RAAS e l’avvio di stress ossidativo, induca vasocostrizione, disfunzione endoteliale e proliferazione delle cellule muscolari lisce vascolari alle quali conseguono glomerulosclerosi e fibrosi interstiziale (9,15,35,36).

Una recente divergente osservazione sostiene invece la possibilità che la forma solubile dell’UA abbia effetti soppressivi, e non stimolanti, sull’immunità innata e che sia implicata, insieme ad altri fattori, nello sviluppo della cosiddetta immunodeficienza secondaria alla malattia renale (SIDKD), tipica dell’uremia in fase avanzata, che si caratterizza per alterate difese nei confronti dei patogeni, scarsa risposta ai vaccini e attenuazione delle patologie infiammatorie croniche non infettive(37). Questo contrasta con gli studi citati in precedenza conferendo invece all’UA solubile effetti anti-infiammatori e anti-ossidanti e avvalorando l’ipotesi che la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e il rilascio di citochine pro-infiammatorie non derivino dalla HU, bensì dalla contestuale attivazione della XOR(5).
Per quanto attiene invece la patologia da cristalli, i noti limiti della biopsia renale nei riguardi dell’identificazione della nefropatia gottosa, difficoltosa soprattutto nelle fasi iniziali di malattia perché il prelievo di tessuto renale avviene perlopiù in sede corticale mentre la patologia ha prevalente estrinsecazione midollare, ed anche perché alcuni fissativi causano la dissoluzione dei cristalli stessi(15), sembrano oggi superabili grazie alla Dual-energy computed tomography (DECT) e/o all’impiego combinato dell’ultrasonografia B-mode e Power Doppler-mode. La DECT è infatti in grado di fornire immagini dei depositi di MSU consentendo di applicare loro un codice colore che li distingua dalle calcificazioni, mentre con l’ultrasonografia l’iperecogenicità midollare apprezzabile in B-mode
corrisponde alla presenza di artefatti scintillanti all’indagine in modalità Power Doppler (38- 39).

 

Il possibile ruolo della XOR

La XOR è un enzima del peso molecolare di 300 kDa regolato a più livelli e dotato di due forme, la xantina deidrogenasi (XDH) presente nell’ambiente intracellulare e la xantina ossidasi (XO) che deriva dalla conversione della precedente quando rilasciata a livello plasmatico. La sua struttura è composta da due sub-unità identiche, ciascuna delle quali costituita da un duplice gruppo Fe/S all’estremo N-terminale, da un cofattore flavin- adenina dinucleotide (FAD) dotato di attività NADH-ossidasica nella porzione intermedia e da un cofattore molibdopterinico all’estremo C-terminale responsabile delle attività enzimatiche xantino-deidrogenasica, xantino-ossidasica e nitrito/nitrato-reduttasica.

La XOR provvede al catabolismo delle purine trasformando l’ipoxantina in xantina e quest’ultima in UA. Essa è inoltre in grado di interferire sullo stato ossido-riduttivo e sulla dinamica dei segnali dell’ambiente cellulare mediante la produzione di ROS e di specie reattive dell’azoto (RNS). Ne deriva che un’eventuale inadeguata attivazione della XOR possa indurre danni tissutali sia di tipo ossidativo che di tipo infiammatorio, assumendo dunque un ruolo patogenetico nelle fasi iniziali della CKD e nelle altre patologie HU- correlate (ipertensione arteriosa, obesità, resistenza all’insulina) che potrebbero quindi anche conseguire più all’iperattività della XOR che non alla HU di per sé.
In questa differente prospettiva, il trattamento con farmaci inibitori della XOR (XORi) quali allopurinolo e febuxostat, oltre a ridurre l’uricemia prevenendo la deposizione tissutale di cristalli di MSU, ridurrebbe la produzione di ROS indotta dalla XOR prevenendo il danno ossidativo tissutale. In aggiunta, gli XORi non competitivi (febuxostat), attraverso l’azione della ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi (HGPRT) del cosiddetto “purine salvage pathway”, promuoverebbero il riutilizzo dell’ipoxantina, convertita in inosin-monofosfato (IMP) utilizzabile per incrementare la produzione di ATP. Quest’ultima azione potrebbe anche spiegare gli eventi cardiaci sfavorevoli, descritti in alcuni pazienti al momento della sospensione della terapia con febuxostat, come conseguenti ad un disturbo della conduzione e della contrazione da improvvisa ridotta disponibilità di ATP(40-41).

 

L’approccio terapeutico alla HU sintomatica nel paziente con CKD

L’approccio terapeutico alla HU sintomatica(6,9,10,42,43) deve sempre innanzitutto prevedere l’analisi delle sue possibili cause, l’adozione di appropriate variazioni dello stile di vita e dell’alimentazione (incoraggiamento dell’attività fisica e del calo ponderale; eliminazione di birra, vino, alcoolici e bevande zuccherate; riduzione dell’apporto di proteine animali; mantenimento di un adeguato apporto di fluidi, frutta e verdura), nonché la ricerca e il governo di eventuali altri fattori di rischio concomitanti (fumo, ipertensione, iperglicemia, dislipidemia, obesità). Poiché queste prime obbligatorie misure possono non essere sufficienti, si rende spesso poi necessario anche il ricorso anche alla ULT che può contare sull’esistenza di farmaci appartenenti a tre distinte categorie: XORi, uricosurici e uricasi ricombinanti. Una recente review di Jenkins e coll.(43) ha censito l’esistenza di 36 sostanze ipouricemizzanti, 10 delle quali approvate da una o più organizzazioni nazionali di controllo del farmaco (allopurinolo, febuxostat, topiroxostat, benzbromarone, lesinurad, dotinurad, probenecid, sulfinpirazone, pegloticase, rasburicase) e 26 in studio; di particolare interesse tra queste ultime nuove forme di uricasi ricombinante a minor immunogenicità e farmaci con duplice meccanismo d’azione.
Tra i farmaci finora approvati, gli XORi restano al momento la prima scelta per la buona efficacia nella riduzione dell’uricemia, la semplicità d’utilizzo e, nonostante tutto, la relativa buona sicurezza d’impiego se somministrati nel rispetto di alcune ben specificate cautele.
L’allopurinolo è un analogo purinico, inibitore competitivo non specifico di XOR, che agisce tramite il suo metabolita attivo ossipurinolo ad eliminazione renale. Oltre alla nota interferenza con il metabolismo di altri farmaci (azatioprina, warfarin, diuretici), la sua complicanza più temibile è la sindrome da ipersensibilità all’allopurinolo (AHS): essa è legata alla presenza dell’allele HLA-B*58.01, peraltro più frequente nelle popolazioni asiatica e afro-americana, le sole per le quali ha indicazione il test genetico per ricercarlo, mentre si riscontra solo nello 0.7% dei soggetti di razza bianca. Anche il supposto ruolo della CKD nel favorire la AHS è oggi ridimensionato e ritenuto limitato ai casi di avvio del trattamento a dosi troppo alte, più che non alla necessità di adeguare al GFR la successiva dose di mantenimento. Nella CKD è pertanto indicato iniziare con 100 mg/die se il GFR è 30-60 ml/min e con 50 mg/die se il GFR è <30 ml/min, salendo con gradualità ogni 2-5 settimane fino alla dose che consente di raggiungere il target di uricemia <6 mg/dl, e potendo arrivare anche sino a 300 mg/die finché il GFR resta >15 ml/min. Nel paziente in trattamento sostitutivo occorre ricordare che la dialisi rimuove l’UA, ma che, mentre la dialisi peritoneale lo fa in modo continuo, l’emodialisi lo fa ad intermittenza, con una modalità che potrebbe da sola non essere sufficiente nelle forme di gotta severa; a questo proposito va quindi tenuto presente che l’eventuale assunzione dell’allopurinolo deve avvenire dopo la seduta dialitica perché l’emodialisi rimuove il suo metabolita attivo(9,10,43).

Il febuxostat è un inibitore selettivo non purinico di XOR, più costoso dell’allopurinolo, per il quale occorre ricordare che, come quest’ultimo, interferisce con il metabolismo dell’azatioprina. Esso è anche in grado di inibire ABCG2 e di rallentare così l’eliminazione dei propri metaboliti senza tuttavia innalzare significativamente l’uricemia. Avendo un metabolismo prevalentemente epatico è utilizzabile nella CKD a 40 mg/die, ma probabilmente anche a dosi maggiori, con buon profilo di sicurezza, finché il GFR si mantiene >15 ml/min. Se l’avvio del trattamento avviene quando il paziente ha già GFR <30 ml/min, è opportuno farlo a posologia ridotta; in dialisi, pur con pochi dati al riguardo, dosi di 20-40 mg sembrano ben tollerate(9,10,43).
Il topiroxostat è un altro inibitore selettivo non purinico di XOR, approvato solo in Giappone e con profilo di sicurezza non dissimile dai precedenti, che si somministra alla dose di mantenimento di 60-80 mg due volte al dì (9,43).
Gli URICOSURICI sono farmaci ULT di seconda scelta che non funzionano se il GFR è inferiore a 20-30 ml/min, possono indurre nefrolitiasi e vengono generalmente impiegati, pur con tutti i limiti appena descritti, in caso di intolleranza agli XORi o in associazione a questi ultimi quando la monoterapia si rivela insufficiente.
Il probenecid è un inibitore non selettivo di URAT1, che in minor misura agisce anche su GLUT9, OAT1 e OAT3, del quale occorre tener presente la capacità di alterare la clearance di altri farmaci quali ad esempio penicilline, furosemide e methotrexate. Si somministra a una dose variabile da 0.5 a 2 g al giorno(43).
Il benzbromarone è un uricosurico non selettivo più potente del precedente, che agisce allo stesso modo e che può dare epatotossicità. Si somministra alla dose 50-200 mg al giorno(43).
Il lesinurad è un inibitore selettivo di URAT1 che si somministrava alla dose di 200 mg al giorno, ma del quale l’industria farmaceutica ha recentemente cessato la produzione(9,10,43). Il dotinurad è un inibitore selettivo di URAT1 in grado di inibire anche l’inflammasoma NLRP3 che si somministra alla dose di 0.5-4 mg al giorno(43).
Il sulfinpirazone è un altro uricosurico non selettivo in via di cessazione di produzione la cui dose quotidiana varia da 100 a 800 mg suddivisi in due somministrazioni(43).
Le URICASI RICOMBINANTI hanno potente attività ipouricemizzante derivante dalla loro capacità di trasformare l’UA in allantoina, ma sono gravate dalla necessità di somministrazione per via endovenosa, da costi elevati e soprattutto dalla loro immunogenicità.
La rasburicase è indicata nelle HU di origine tumorale e nella sindrome da lisi tumorale alla dose endovenosa di 2 mg/kg/die per 1-5 giorni. Non sono consigliati cicli di trattamento ripetuti in quanto può indurre sia reazioni anafilattiche, sia sviluppo di anticorpi anti-farmaco che ne compromettono l’efficacia(43).
La pegloticase è la forma peghilata della precedente utilizzabile nella gotta severa e non responsiva ai farmaci delle categorie precedentemente illustrate. Ha lunga emivita per cui è sufficiente una somministrazione endovenosa di 8 mg ogni 2 settimane e, nel paziente con CKD, non necessita di adeguamento della dose al GFR. Suoi limiti sono rappresentati dalla necessità di infusione della durata di almeno 2 ore, dal costo elevato, dalle frequenti reazioni infusionali, dal rischio di sviluppo di anticorpi anti-farmaco che ne compromettono l’efficacia e dalla controindicazione all’impiego nei pazienti con favismo nei quali può scatenare crisi emolitiche(43).
Occorre poi tenere presente che esistono svariati farmaci concepiti per altre scopi che possiedono anche un effetto ipouricemizzante mediato dall’inibizione di URAT1. La conoscenza di questa loro caratteristica può consentire di sfruttarli laddove, insieme alla patologia per la quale sono primariamente indicati, coesista anche una HU: tra essi il losartan, i calcio-antagonisti diidropiridinici, gli SGLT2-inibitori (soprattutto empaglifozin), il fenofibrato e l’atorvastatina, le alte dosi di aspirina, la leflunomide, alcuni FANS (indometacina e fenilbutazone), il desametasone e gli estrogeni(10,44).
Parimenti esistono farmaci e sostanze che inducono HU, sempre mediata dell’interazione con trasportatori dell’UA della parete tubulare, effetto collaterale del quale è opportuno essere a conoscenza: i diuretici tiazidici e dell’ansa, alcuni beta-bloccanti (propranololo, atenololo, metoprololo e sotalolo), alcuni antitubercolari (pirazinamide e etambutolo), gli inibitori delle calcineurine, le basse dosi aspirina (effetto peraltro trascurabile rispetto al beneficio cardiovascolare indubbiamente offerto dal farmaco), l’insulina, il testosterone e il lattato(44).

 

È plausibile che la somministrazione della ULT nella CKD possa esercitare anche un’azione nefroprotettiva?

Un piccolo trial randomizzato e controllato (RCT) del 2006 condotto a Hong Kong su 54 pazienti iperuricemici con CKD(45) documentava un rallentamento del calo del GFR rispetto ai controlli dopo 12 mesi di trattamento con allopurinolo.
Giungevano ad analoghe conclusioni, dopo 24 mesi di trattamento con allopurinolo, anche due studi spagnoli del 2010 e del 2015, peraltro non disegnati in doppio-cieco, rispettivamente su 113 e 107 pazienti con CKD(46-47).
Lo studio RENAAL, disegnato per valutare gli effetti antiipertensivi del losartan(48-49), evidenziava anche un effetto ipouricemizzante del farmaco che determinava una riduzione del 6% del rischio di progressione della CKD per ogni 0.5 mg/dl di riduzione dell’uricemia. Le linee guida KDIGO per la gestione della CKD, la cui stesura risale peraltro ormai al 2012, riportavano tuttavia l’inesistenza di sufficienti evidenze sia per supportare, sia per controindicare l’impiego della ULT allo scopo di rallentare la progressione della nefropatia nel paziente con CKD ed HU sintomatica o asintomatica(50), lasciando del tutto all’orientamento personale di ogni medico la scelta del comportamento da adottare di fronte a ciascun singolo caso. Purtroppo, anche l’ormai lunga serie di studi al riguardo successivi a quella data ha continuato a fornire dati non univoci e spesso criticabili.
Nel 2017 uno studio con 7 anni di follow up condotto con il criterio della randomizzazione mendeliana su 3.896 caucasici finnici affetti da diabete di tipo 1(51) concludeva che la HU è indipendentemente associata al calo del GFR, ma non con un rapporto causale.
Anche da una revisione a ombrello di precedenti meta-analisi di Li e coll. del 2017(52) emergeva un nesso causale tra livelli di UA e sviluppo di gotta o nefrolitiasi, ma non tra livelli di UA e ipertensione o CKD, la cui semplice associazione veniva ritenuta insufficiente ad autorizzare la prescrizione della ULT a scopo nefroprotettivo.
Un’altra meta-analisi cinese del 2017(53) su 16 RCT comprendenti 1.211 pazienti con CKD trovava invece un tasso di declino significativamente inferiore nei pazienti trattati con ULT.

I risultati dello studio FEATHER, un RCT di confronto tra febuxostat e placebo su 443 pazienti con HU asintomatica e CKD in stadio 3, pubblicati da Kimura e coll. nel 2018(54), non mostravano differenze significative nel tasso di riduzione del GFR tra i due gruppi, anche se emergeva invece un significativo beneficio in un sottogruppo di pazienti con malattia meno avanzata, cioè senza proteinuria e con creatininemia inferiore alla media complessiva.
Uno studio retrospettivo del 2018(55) su 12.751 pazienti con CKD stadio 2-4, confrontando quelli trattati con ULT fino a raggiungere un’uricemia inferiore a 6 mg/dl rispetto ai non trattati, concludeva che i primi avevano una significativa maggior probabilità di miglioramento del GFR, soprattutto negli stadi 2 e 3, ma non nello stadio 4.
Kojima e coll hanno pubblicato nel 2019 i risultati dello studio FREED(56), un RCT multicentrico giapponese con 3 anni di follow up su 1.070 anziani iperuricemici con ipertensione, diabete, CKD o patologia cardiovascolare, nell’ambito del quale l’andamento del gruppo di quelli trattati con febuxostat è stato confrontato con quello dei non trattati, dimostrando che il raggiungimento di un end-point composito, costituito dal tasso di eventi cerebrali, cardiovascolari, renali o mortali, era significativamente inferiore tra i primi. Una meta-analisi di studi condotti su pazienti di origine europea eseguita con il metodo della randomizzazione mendeliana e pubblicata nel 2019(57) dimostrava invece nuovamente, pur in presenza di un nesso causale tra livelli di UA e rischio di gotta, l’assenza di un analogo nesso rispetto al rischio di riduzione del GFR per cui gli Autori giudicavano improbabile un effetto nefroprotettivo da parte della ULT.
Due importanti studi pubblicati nel 2020(58-59), a seguito descritti, sui quali erano riposte le aspettative di molti per una definitiva dimostrazione della possibile utilità della ULT per rallentare il calo del GFR nella HU della CKD non hanno invece raggiunto questo traguardo. Lo studio PERL(58), RCT effettuato su 530 pazienti statunitensi e canadesi con diabete tipo 1 e CKD stadio 1-3a, non ha mostrato differenze significative nel tasso medio di declino del GFR tra il gruppo trattato con l’allopurinolo e quello trattato con il placebo. Lungo l’elenco delle successive osservazioni riguardanti i limiti che potrebbero aver inficiato le conclusioni di questo studio: casistica relativamente piccola, reclutamento pianificato per pazienti con uricemia >4.5 mg/dl (quindi anche con uricemia normale) ed attuato in soggetti con diabete mediamente di lunga durata, mal controllato e con nefropatia ad andamento fast- progressive(4,9,36,60).
Lo studio australiano e neozelandese CKD-FIX(59), RCT su 363 pazienti con CKD in stadio 3- 4 senza gotta, diabetici e non, trattati in parte con allopurinolo ed in parte con placebo e seguiti per 2 anni, ha ottenuto una riduzione delle uricemie nel braccio con allopurinolo senza ottenere differenze significative nel tasso annuo di riduzione del GFR rispetto al braccio con placebo. Anche in questo caso sono stati elencati svariati limiti che potrebbero aver inficiato le conclusioni dello studio: casistica relativamente piccola e comprendente pazienti con CKD già troppo avanzata, arruolamento avvenuto in modo incompleto (solo al 60% rispetto al numero preventivamente pianificato), elevata (17-30%) percentuale di interruzione della terapia senza conseguente esclusione di questi pazienti dalla casistica, eccessiva eterogeneità delle uricemie basali per mancata adozione tra i criteri di inclusione di un range ben definito(4,9,36,60).

Da segnalare a questo proposito anche altre non dirette e più generali osservazioni, valide per ottimizzare il disegno di eventuali futuri studi, sul fatto che i benefici del trattamento con ULT potrebbero anche variare in funzione dell’età(60), della durata(60) e della tipologia della nefropatia di base(35,61), oltre che del tipo, della dose e della durata(4) del trattamento ipouricemizzante.
Sempre nel 2020 Chen e coll.(62) hanno effettuato una revisione sistematica con meta- analisi di 28 RCT, tra i quali erano inclusi anche gli studi FEATHER, PERL e CKD-FIX e complessivamente riguardanti 3.934 pazienti, senza trovare benefici cardio-nefroprotettivi della ULT. Anche un successivo aggiornamento di questo studio, riportato nelle linee-guida CARI messe a punto in Australia e Nuova Zelanda nel 2022(63), nel quale sono stati selezionati 17 dei 28 RCT analizzati nel lavoro precedente, nello specifico quelli nei quali almeno il 66% dei soggetti reclutati risultasse affetto da CKD, e ne sono stati aggiunti 2 con analoghe caratteristiche, pur appurando che la ULT riduce gli attacchi gotta e non è meno sicura del placebo, ha confermato l’assenza di benefici cardionefroprotettivi e la non indicazione al suo impiego con questo scopo. Costituisce tuttavia un limite di entrambi questi studi il fatto che non tutti i pazienti avessero una HU e una CKD(4).
Nel 2022 Tien e coll. di Taiwan(64) hanno pubblicato una revisione sistematica con meta- analisi di 13 RCT riguardanti complessivamente 2.842 pazienti con aHU rilevando benefici nefroprotettivi della ULT rispetto al placebo, dove però raggiungevano la significatività quelli trattati con allopurinolo, ma non quelli trattati con febuxostat.
Un’altra revisione sistematica con meta-analisi di Tsukamoto e coll.(65) su 10 RCT che includevano 1.480 pazienti con CKD ha documentato una significativa azione nefroprotettiva del topiroxostat e del febuxostat nei pazienti con HU, ma non dell’allopurinolo e della pegloticase.
Al contrario, uno studio retrospettivo statunitense su 269.651 pazienti con GFR >60 ml/min e senza albuminuria non solo non mostrava benefici nefroprotettivi nell’avvio della ULT, ma addirittura rilevava un maggior rischio di insorgenza di CKD(66).
Sempre nel 2022, il trail randomizzato ALL-HEART ha arruolato 5.721 ultrasessantenni del Regno Unito con cardiopatia ischemica e senza gotta non trovando differenze nel raggiungimento di un endpoint composito, riguardante eventi cardiovascolari sfavorevoli, tra trattati anche con allopurinolo e trattati solo con le cure usuali(67).
Nel 2023 una meta-analisi, eseguita da Autori brasiliani(68) su 18 RCT complessivamente riguardanti 2.463 pazienti con CKD, ha documentato significativi effetti nefroprotettivi della ULT rispetto al placebo.
Ancora nel 2023 i risultati pubblicati da Yang e coll.(69), relativi ad un RCT multicentrico cinese su 100 pazienti con CKD in stadio 3-4 seguiti per 12 mesi, mostrano un rallentamento del declino del GFR nel gruppo trattato con febuxostat rispetto a quello trattato con placebo.
Per quanto attiene il confronto tra i diversi farmaci utilizzabili per la ULT nella CKD, sia in termini di sicurezza di impiego, sia in termini di maggior o minor efficacia cardionefroprotettiva, alcuni articoli di più recente pubblicazione forniscono indicazioni, anche anche in questo caso non tali da consentire di trarne univoche conclusioni.
Lo studio CARES del 2018(70), un RCT su 6.190 pazienti con gotta e patologia cardiovascolare, stratificati per livelli di GFR, dimostra la non inferiorità del febuxostat rispetto all’allopurinolo per tasso di eventi cardiovascolari avversi, ma ne palesa una maggior mortalità totale e cardiovascolare. I risultati di questo studio sono stati peraltro messi in discussione per l’alto tasso di sospensione del trattamento e di perdita al follow- up, la mancanza di un gruppo di controllo con placebo e l’insufficiente associata prescrizione di farmaci cardioprotettivi nei cardiopatici arruolati per lo studio(43).
Nel 2021 Pawar e coll., per rivalutare il problema della sicurezza cardiovascolare in un contesto reale, hanno esaminato retrospettivamente i dati relativi a 467.461 pazienti del sistema statunitense Medicare giungendo alla conclusione che il febuxostat non aumenta il rischio cardiovascolare rispetto all’allopurinolo(71).
La già citata revisione sistematica con meta-analisi di Tsukamoto e coll. del 2022(65) su studi relativi a pazienti con CKD documenta una significativa azione nefroprotettiva del topiroxostat e del febuxostat, ma non dell’allopurinolo e della pegloticase.
Altri 2 RCT cinesi pubblicati nel 2022 e condotti per 6 mesi rispettivamente su 100 e 120 pazienti con CKD mostrano nel primo caso(72) la superiorità del febuxostat rispetto all’allopurinolo sia come effetto nefroprotettivo, sia come sicurezza d’impiego, e nel secondo caso(73), la maggior nefroprotezione offerta delle basse dosi di febuxostat rispetto a quelle di allopurinolo (20 mg e 200 mg rispettivamente) con sicurezza d’impiego non inferiore.
Uno studio retrospettivo del 2023 condotto da Lai e coll.(74) su 13.661 pazienti di Taiwan con aHU in trattamento con ULT evidenzia minor rischio di sviluppare CKD con il benzbromarone che non con l’allopurinolo.
Un’analisi post-hoc del 2023 di Kohagura e coll.(75), riferita a 707 dei 1.070 pazienti dello studio FREED(56) che avevano un GFR <60 ml/min, evidenzia che il rischio relativo di sviluppo o peggioramento della macroalbuminuria era del 56% inferiore nel gruppo con febuxostat rispetto ai controlli.
In un altro studio randomizzato di Kohagura e coll. su 95 pazienti con ipertensione, HU e CKD in stadio 3(76) non sono emerse differenze nel declino del GFR fra quelli trattati con febuxostat e quelli trattati con benzbromarone. Il declino del GFR era peraltro significativamente inferiore con febuxostat nel sottogruppo con CKD in stadio 3a, ma non in quello in stadio 3b: tutto sommato una non trascurabile conferma che, anche i farmaci che mostrano un’efficacia nefroprotettiva nelle fasi più precoci della CKD, tendono a perderla nei pazienti con CKD in stadio più avanzato.
La già citata meta-analisi di Bignardi e coll.(68), che documenta l’utilità della ULT ai fini nefroprotettivi, non ha trovato differenze di efficacia in tal senso fra i tre XORi studiati. Va infine per completezza ricordato che, una recente ricognizione dello stato dell’arte sui rapporti tra HU e CKD anche nell’ambito del trapianto renale, riporta un analogo clima di incertezza caratterizzato dall’evidenza che la HU, presente nel 28% dei casi, costituisca un indubbio fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di insufficienza del rene trapiantato, ma con rapporto di causalità e indicazioni all’impiego della ULT ancora oggetto di dubbi(77).
In conclusione, come ben dimostrato non solo dall’insieme dei risultati delle ricerche sin qui citate, ma anche dall’accesa diatriba consegnata alla Letteratura(78-80) da gruppi di Autori in dissenso su quali caratteristiche conferiscano maggiore o minore attendibilità agli studi (degne di menzione, a questo proposito, anche le critiche ai lavori nei cui gruppi di controllo non era avvenuta, come lecito attendersi, una significativa progressione della nefropatia), e come ben riporta il titolo di un’ampia revisione sull’argomento recentemente pubblicata(4), probabilmente molto resta ancora da fare.

 

Quali comportamenti clinici e quali future ricerche gli esperti suggeriscono di adottare alla luce dell’attuale stato delle conoscenze?

Alcuni Autori(4) suggeriscono di affrontare il problema del trattamento della HU nella CKD distinguendo i comportamenti da adottare nei pazienti con gotta da quelli nei pazienti con aHU: nel primo caso la ULT, che trova comunque indicazione per ridurre il rischio di ricorrenza degli attacchi artritici e di peggioramento del danno articolare perseguendo un target di uricemia <5-6 mg/dl(81-85), ha buona probabilità di interferire favorevolmente sulla patologia da deposito di cristalli che si sviluppa anche in sede extra-articolare (renale e vascolare)(4,39); nel secondo caso, poiché i controversi risultati delle meta-analisi si spiegherebbero anche con il fatto che alcuni sottogruppi di pazienti potrebbero giovarsi più di altri della ULT, sembra trovare crescenti consensi l’idea che la ricerca venga orientata verso l’individuazione di tali sottogruppi(4,9,36,60). In particolare, secondo Johnson e coll.4), potrebbero essere da tenere in maggior considerazione quelli con patologia tissutale da cristalli ancora silente, oggi meglio identificabili con le indagini ecografiche e DECT già in precedenza citate, quelli con cristalluria ricorrente e/o nefrolitiasi uratica e quelli con aumentati livelli intracellulari di UA, questi ultimi indirettamente individuabili attraverso il rilievo di un’incrementata attività plasmatica della XOR. Altri punti fondamentali da tenere presente nel disegnare futuri studi sono rappresentati: dal momento d’inizio della ULT (4,9,36,41), che dovrebbe essere quanto mai tempestivo e precoce perché il danno renale da UA solubile, una volta avviato, progredisce poi indipendentemente dai livelli di uricemia per l’iperfiltrazione e l’ipertensione glomerulare; dalla durata del trattamento(4) che sembra possa offrire benefici maggiori se protratto per almeno due anni; dalla verifica se il target di uricemia per ottenere l’effetto nefroprotettivo può essere o meno il medesimo adottato per la prevenzione della gotta(42).
Altri Autori(5,40,42) suggeriscono inoltre di chiarire fino a che punto gli effetti dei farmaci XORi dipendano in modo diretto dalla loro azione ipouricemizzante e non da altri effetti quali ad esempio l’azione anti-ossidante indotta dal blocco di altri substrati della XOR.

 

Conclusioni

E’ assodato che la HU costituisca un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo della CKD con crescenti anche se non definitive dimostrazioni di causalità legate a possibili plurimi meccanismi patogenetici.
In considerazione delle differenze nel metabolismo delle purine tra una specie e l’altra va ricordato che, qualunque risultato ottenuto in proposito da esperimenti su animali dotati di attività uricasica, necessita comunque di essere riconfermato nell’uomo.
A dispetto della presenza di un logico razionale per l’impiego della ULT ai fini del rallentamento della progressione della nefropatia nei pazienti con HU e CKD, i risultati controversi e i limiti degli studi a ciò rivolti non hanno finora portato a robuste e definitive dimostrazioni di reale efficacia in tal senso.

Poiché il danno renale UA-correlato, una volta indotto e consolidato, sembrerebbe mantenuto da meccanismi indipendenti dai livelli di uricemia, resta da confermare se un precoce avvio della ULT nelle fasi iniziali della nefropatia abbia maggiori probabilità di fornire reale nefroprotezione. Analogamente occorre appurare se esistano altri specifici sottogruppi di pazienti che per età, sesso, tipologia di danno, nefropatia di base o altre caratteristiche abbiano maggiori probabilità di potersi giovare di tale trattamento.
Sono pertanto auspicabili futuri più ampi RCT che, adeguatamente disegnati, e dotati di criteri di inclusione tali da superare i limiti di alcuni di quelli sin qui prodotti, analizzino la risposta ai differenti farmaci somministrati in fase iniziale di malattia, per un tempo sufficiente e in dosi idonee al raggiungimento di un target di uricemia che va anch’esso meglio ridefinito.
Nel frattempo, nella pratica clinica quotidiana, è opportuno tenere sempre presente che quella dell’utilità della ULT a scopo nefroprotettivo nella CKD rimane una questione aperta e che tale terapia, per ora non raccomandata dalle linee guida per il protrarsi della mancanza di sicure evidenze, potrebbe in realtà essere di grande utilità almeno per alcuni dei nostri pazienti.

 

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